Milano

Necrologio per l’urbanistica? Se per cercare di salvare Milano si mette a rischio tutta l’Italia

Elena Granata, Arturo Lanzani, Antonio Longo e Alessandro Coppola
25 Novembre 2024

Nei giorni scorsi per tentare di sanare i guai dell’edilizia milanese è stata votata dalla Camera dei Deputati una legge (contenente la cosiddetta norma Salva Milano) che a nostro parere mette in seria difficoltà l’urbanistica e il governo dell’intero Paese e delle sue città. È un fatto grave e inedito che ci preoccupa come urbanisti, ma che sta generando sconcerto anche tra architetti, professionisti, accademici, amministratori pubblici e comuni cittadini impegnati nell’immaginare e nel guidare processi difficili di cambiamento sociale, economico e ambientale delle città italiane. È un fatto che rischia di compromettere gravemente la possibilità di migliorane la qualità della vita governandone la rigenerazione. In diverse sedi, universitarie e non solo, tra tecnici, amministratori e cittadini si sta aprendo una riflessione sulle implicazioni nazionali di questo provvedimento legislativo. Questo nostro scritto vuol essere un contributo e una riflessione che può e deve chiedere un rallentamento del processo decisionale, e una più responsabile e meditata considerazione delle sue possibili conseguenze.

Cosa è accaduto a Milano?

A Milano, da dieci anni era divenuta prassi che si realizzassero importanti trasformazioni di isolati e parti di città con la stessa procedura di certificazione con effetto immediato (SCIA) – sebbene nella forma rafforzata “alternativa al permesso di costruire” – con cui si autorizza normalmente una modifica interna di un appartamento o un inizio o conclusione di attività produttive. Questi interventi, il più delle volte di demolizione di un edificio preesistente e di ricostruzione di un nuovo e diverso edificio, erano considerati ristrutturazioni edilizie, con il vantaggio di ottenere una riduzione fino al 60% degli oneri di urbanizzazione altrimenti dovuti e una sostanziale riduzione dei tempi delle procedure.
Le convenzioni, con i relativi impegni economici, sono state siglate non in giunta – come sarebbe accaduto qualora fossero state esito di procedure urbanistiche – ma nell’ufficio di un notaio, con una scrittura tra imprese e funzionari, come si trattasse di un negozio privato. In questo modo la città ha iniziato a trasformarsi pezzo per pezzo, fuori da una visione d’insieme dello spazio pubblico e delle esigenze collettive della città, in modi sottratti alla discussione e alla valutazione politica del consiglio e della giunta comunale, senza alcuna considerazione degli impatti ambientali, sociali e sulla qualità di vita degli abitanti. Si è così imposto un modello di “rigenerazione fai da te”. 

Anche chi non è esperto di urbanistica comprende che impatto hanno edifici molto alti, persino di grattacieli, sorti in quartieri già molto densi della città, senza un piano e una ridefinizione dei servizi necessari alle comunità. Lo si è fatto, stando a quanto si apprende nel dibattito recente, per mantenere alta l’attrattività di Milano nei confronti degli investimenti immobiliari, facilitando e snellendo le procedure. E lo si è fatto anche a costo di perdere oneri di urbanizzazione utili a generare altri beni pubblici ed occasioni di sviluppo per la città. Ci sembra una scelta politica particolare per la città con il più forte mercato immobiliare del paese e che, viceversa, disporrebbe di tutte le leve per esigere una più elevata qualità pubblica degli interventi come, egualmente, una più elevata quota di cattura pubblica del valore aggiunto delle trasformazioni.
L’evidenza delle trasformazioni che riguardavano sempre più spesso parti rilevanti della città, spesso lotti industriali o artigianali e spazi interni agli isolati, hanno portato alla mobilitazione di cittadini, a segnalazioni e denunce. La magistratura ha iniziato a indagare nel merito di un gran numero di progetti in relazione ai quali sono state ipotizzate responsabilità civili, penali e contabili, creando grande incertezza nel governo della città, imbarazzo politico e ragionevole preoccupazione per i funzionari pubblici e i membri delle commissioni spesso loro malgrado coinvolti in procedure decise dai dirigenti apicali. Le inchieste in corso sono poco più di una decina, ma sono circa centottanta gli interventi con caratteristiche simili. L’amministrazione ha quindi provato a cercare vie d’uscita tecniche: revisione delle procedure, adeguamento degli oneri e dei costi di costruzione, blocco dell’interlocuzione diretta tra uffici e professionisti. Ma soprattutto, contemporaneamente, sono state avviate le iniziative politiche che hanno portato alla legge Salva–Milano.

Una legge che sovverte dettati legislativi chiari e consolidati

La legge approvata alla camera applica il principio di “interpretazione autentica” (quella che taglia la testa al toro) a due dettati di estrema chiarezza fondamentali per legislazione urbanistica italiana: la legge urbanistica L.1150/1942 (art 41 quinquies) e il DM 1444 del 1968 (art 8 comma 2).

⁠I due dettati condizionano la realizzazione di nuove edificazioni che superano i 25 metri di altezza e/o che superano l’altezza di edifici preesistenti e circostanti alla presentazione di un piano attuativo, ovvero un atto di pianificazione di iniziativa pubblica e/o privata che definisce nel dettaglio l’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica di un ambito di intervento. E comporta la cessione di suoli (le cosiddette “aree a standard”), il pagamento di oneri e la realizzazione di opere utili a costruire la componente pubblica della città come spazi verdi,  infrastrutture e servizi, inclusa l’edilizia residenziale sociale. Detto in parole più semplici, se vuoi costruire in deroga alle altezze con un incremento di volumetrie devi dimostrare che la nuova costruzione non peggiora la qualità di vita di chi sta intorno e che migliora – oggi, “rigenera” – la città esistente.

La nuova legge, enfatizzando quello che già molte leggi regionali sulla “rigenerazione urbana” avevano fatto (in Lombardia la legge n. 18 del 26 novembre 2019) opera una drastica e molto discutibile semplificazione stabilendo che ogni tipo di intervento possa essere ricondotto alla “ristrutturazione edilizia”: demolire e ricostruire senza rispettare il sedime e la sagoma preesistente? Certamente. Incrementare il volume dell’edificato?  Va altrettanto bene.  Si cancella, di fatto, ogni distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, tra ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica (che riguardi un isolato intero e non solo un edificio). E vengono resi inutili gli strumenti di accordo tra pubblico e privato per guidare la collocazione dell’edificio nel contesto, per contrattare con le proprietà vicine i nuovi interventi e per collegare il nuovo progetto con la città esistente in modo funzionalmente ed esteticamente congruo. Milano ha visto spuntare grattacieli all’interno degli isolati, a ridosso di edifici e giardini esistenti, al posto di piccoli capannoni industriali.
Purtroppo, il rischio è questo, e con questa legge non solo per Milano. La legge, miracolosa, si rivolge, infatti, al futuro ma sana anche gli interventi passati degli ultimi dieci anni, quelli autorizzati a partire dal 2013, quando con il D.L. 98 (cosiddetto “decreto del fare”), per favorire l’attività edilizia, si rese incerto e poco chiaro quanto nelle leggi precedenti era indubitabile e prossimo al senso comune: la distinzione tra ristrutturazione edilizia, nuova costruzione e ristrutturazione urbanistica. Una legge che rischia di esportare il pessimo “modello Milano” in tutta Italia, proprio nel momento in cui l’amministrazione stessa di Milano stava avviando un qualche ripensamento. Si promette da qui a sei mesi una nuova legge di riordino della materia: nel frattempo, la perlomeno discutibile interpretazione di Milano, sarà divenuta legge per tutti.

Esistono alternative al “Salva Milano”?

Esistono alternative a queste scelte? La prima alternativa poteva essere proprio un “condono edilizio” misurato sulla vicenda milanese, che con una oblazione sanasse il pregresso, restituendo alla città non poche risorse mancate. Non lamentano i cittadini carenza di servizi, di case a prezzo accessibile, di verde di qualità? Non si fa continuamente appello alla cronica mancanza di risorse per le città? Se poi il condono non fosse stato oneroso, se fosse stata una norma che sanava il pregresso, non avrebbe dato il via ad una nuova modalità di operare valida in tutta Italia per il futuro, le cui conseguenze, oltre l’evidente depauperamento delle amministrazioni locali, saranno difficilmente prevedibili. Certo, sappiamo che questa ipotesi sarebbe andata comunque incontro a problemi di costituzionalità. Ma sappiamo anche che lo stesso Salva-Milano non sarebbe esente da tali preoccupazioni.
La seconda alternativa poteva essere una chiara riscrittura di ciò che il legislatore intende per ristrutturazione e una drastica modifica delle leggi vigenti del 1968 e del 1977. In tal modo non si sarebbe sanata la prassi del passato ma si sarebbe aperta la possibilità di agire in futuro in forme radicalmente liberiste e sbilanciate a favore dei soli operatori immobiliari, ma almeno con una chiara e trasparente assunzione di responsabilità politica del legislatore. Una scelta che avremmo criticato duramente, ma che sarebbe stata assunta in modo trasparente e non dissimulato e che, come tale, avrebbe implicato un qualche coinvolgimento della cultura urbanistica e un vero dibattito pubblico.
Con il principio della “interpretazione autentica”, che a parere di molti giuristi non trova sufficiente giustificazione in una chiara giurisprudenza contrastante, la legge non fa né l’una né l’altra cosa.  La principale e più grave conseguenza, oltre alla impossibilità di disegnare la città, è la riduzione del flusso finanziario che consente di realizzare o riqualificare e ripensare spazi pubblici e offrire servizi, di articolare quella che sociologi ed economisti chiamano oggi infrastrutture del quotidiano sulle aree cedute a standard e su tutto lo spazio collettivo urbano. Un danno che riteniamo socialmente inaccettabile.

È questa la fine dell’urbanistica riformista? 

Sebbene assai meno che in altri contesti europei, per un secolo e mezzo il valore aggiunto delle operazioni immobiliari ha contribuito a finanziare la costruzione delle città: oggi pochi investimenti pubblici e molto lavoro politico sostengono (e finanziano con bonus e sconti fiscali) le operazioni immobiliari private.  Eppure, è importante ricordare che ci sono non pochi sviluppatori, costruttori e imprenditori cooperativi che – anche a Milano, e di recente – hanno operato nel rispetto di quegli articoli di legge e facendo propria un’interpretazione del concetto di ristrutturazione edilizia che nella giurisprudenza rimane ancora distinto nonostante le equivoche riscritture di questi anni. Il retroterra di pensiero che ci pare si celi dietro alla norma in discussione è viceversa quello secondo cui ciò che conta è solo incentivare il più possibile la crescita edilizia urbana, riducendo ogni contributo alla dimensione collettiva della città da parte degli sviluppatori. Milano in questo è stata in questi anni una pessima avanguardia, creando un modo di operare che verrà pagato dai cittadini, a scapito di qualità e abitabilità dei luoghi.

Oggi più che mai abbiamo da ripensare lo spazio della strada per consentire forme di mobilità, anche individuali più sicure e meno inquinate, per potenziare la copertura arborea che mitighi le bolle di calore urbana, per raccogliere e smaltire diversamente le acque.
Oggi abbiamo bisogno di ripensare lo spazio di molti servizi e realizzare nuove infrastrutture per una popolazione che cambia per età, origine, stili di vita. Dobbiamo garantire il diritto a vivere nelle aree urbane -in case dignitose e a costi abbordabili – più dinamiche anche a chi ricco non è, a chi è chiamato a svolgere lavori meno retribuiti, a chi ha avuto meno fortuna per patrimonio ereditato o per successo nella sua impresa e professione.

Oggi abbiamo bisogno di spazi verdi nei territori urbanizzati, dove vivere un diverso rapporto con la natura e con l’ambiente, con forme di produzione agricole di prossimità e dove fronteggiare gli effetti terribili e impattanti della crisi climatica. Per tutto questo è necessaria più urbanistica, più capacità tecnica e politica, più desiderio di immaginare le città future nel loro insieme, non meno, come suggerito da questa norma. E tutto questo può avvenire solo dentro un contesto di confronto e di dibattito pubblico. Il futuro delle città non è materia (solo) per funzionari e tecnici, per costruttori e tecnici comunali caricati di una responsabilità pubblica fuori misura.

Chi vince a Milano?

Questa legge è in continuità con altre norme – dal cosiddetto Piano Casa del 2010 alla legge regionale lombarda sulla rigenerazione urbana del 2019, cui lo stesso Comune di Milano si oppose – che in anni recenti hanno inteso disaccoppiare la “rigenerazione urbana” dalla pianificazione urbanistica). Nella sostanza, mette ulteriormente a rischio la possibilità di rigenerare le città secondo principi di inclusione sociale e di riconversione ecologica, con attenzione ai ceti medi e popolari e non solo ai più ricchi. Spunta le armi – su un piano politico, e culturale – ad ogni possibile azione di miglioramento attraverso l’adozione di un Piano di Governo del Territorio nello stesso Comune di Milano.

Quanto sta accadendo ci sembra anche in contraddizione con la storia riformista di quegli urbanisti cattolici, socialisti, comunisti – una vera e propria Costituente delle città – plasmata da tecnici e amministratori impegnati nel dopoguerra nei tre grandi partiti di massa. Ma, a ben vedere, è in contraddizione anche con la prassi urbanistica della prima stagione dei governi locali leghisti che, in tante piccole città ma anche a Milano, ricorse largamente al convenzionamento ed alla pianificazione attuativa integrata per trasformare porzioni diffuse della città.
È anche lontana dallo stile della riforma urbanistica avanzata a Milano da alcuni autorevoli colleghi sul finire degli anni Novanta con una giunta guidata da un esponente di Forza Italia. Ed è radicalmente in contrasto con quella parte della cultura urbanistica che contribuì alla stesura della legge urbanistica nel 1942, guardando alla futura crescita delle città italiane.

C’è una storia lunga di affezione ai luoghi e di rispetto per le città che hanno fatto dell’Italia l’Italia, che ha animato le anime più sincere di partiti anche molto distanti su altri temi. Infine, è opportuno rimarcarlo, la norma ci pare essere in contraddizione con politiche recenti della stessa amministrazione milanese, e che hanno evidentemente inteso porre dei correttivi al corso urbanistico degli anni recenti. Ci riferiamo all’aumento degli oneri di urbanizzazione, specie in relazione a trasformazioni che occorrano nell’area più centrale e densa della città, ed alla previsione – nel processo di revisione del Pgt attualmente in corso – di una maggiore attenzione per l’assetto pubblico della città attraverso  gli strumenti dell’atlante dei quartieri e degli “Studi d’area”, che orientano la destinazione degli investimenti pubblici e di quelli provenienti dagli oneri privati. La legge in discussione depotenzierebbe questi sforzi.  E rappresenterebbe, nei modi e nel merito, una sconfitta della politica, una rinuncia al buon amministrare cedendo il passo ad una concezione elementare del mercato e ad un’economia estrattiva e dissipativa di beni comuni.

Abbiamo bisogno di più tempo per discutere, per decidere meglio

Le città italiane ed europee hanno smesso da tempo di espandersi, si trasformano su se stesse, cambiano per parti; è cresciuta – almeno nelle intenzioni – la sensibilità verso il consumo di suolo e per questa ragione si parla sempre più spesso di rigenerazione, facendo riferimento a situazioni molto diverse tra loro: la rigenerazione interessa la città in ogni parte, gli edifici e i lotti privati, gli spazi e gli edifici pubblici, come le strade, le scuole, i parchi e i servizi sociali come le case pubbliche. Per rigenerare le città occorrono ovviamente molti soldi, forse più di quanti ne servono per costruire sul suolo libero. Servono gli interventi degli sviluppatori, ma anche investimenti sullo spazio pubblico.  E soprattutto servono visioni, politiche e scelte di lungo termine che trattano le città come unità articolate ma inscindibili

È indispensabile un dibattito aperto, tra i politici e gli esperti, con le comunità e la società civile, nella direzione di un nuovo patto civile. Perché la rigenerazione diffusa di una città è cosa troppo importante per essere lasciata ad un mercato che – questa ci pare essere la filosofia che sottende la norma in discussione in parlamento – dovrebbe autoregolarsi, senza politica e senza visione. Sentiamo l’urgenza, come studiosi e come cittadini, di invitare a sospendere un processo decisionale che solleva i dubbi di tanti colleghi e amministratori di ogni parte d’Italia. Sentiamo l’urgenza di riaprire una riflessione sui modi di intendere la rigenerazione urbana. Si dia un po’ più di tempo, e si coinvolgano ampiamente i soggetti della società civile e della cultura, nell’interesse di Milano e del Paese.

1 Commento
  1. questo è parlare chiaro e spiegare bene cosa è successo e cosa sta succedendo a Milano. La giunta Sala si è privata della successione in questo modo, attirata da un modello economico e non da un modello sociale. Ci sarà di cui riflettere nei prossimi anni, quello che rimane è una occasione (già?) perduta e difficilmente recuperabile.
    Invece di una città inclusiva che si trasforma abbiamo una città mordi e fuggi,: “ci sto qualche anno e poi cerco altro” è questo il modo di agire di tanti millenial e gen Z che cercano sempre nuove opportunità. Il bello sarebbe coinvolgerli e tenerli a Milano per una città sociale, ma a 900 euro la stanza è difficile chiederglielo.

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