Milano
Salva Milano, tanta confusione rischia di impedire una corretta discussione
Il dibattito attorno al Salva Milano si è sviluppato in maniera disordinata perché diverse sono le prospettive di analisi che si sovrappongono, dimenticando l’impatto sull’intera Italia. Una risposta a Edoardo Marini.
In questi giorni Edoardo Marini, urbanista e professionista milanese ha pubblicato sugli Stati Generali una “Piccola guida alle questioni tecniche, urbanistiche e amministrative che riguardano il Salva- Milano” che sotto la veste di uno scritto apparentemente tecnico cela una valutazione specificatamente politica e un preciso posizionamento nel confuso dibattito milanese. Per questo è necessario dedicare qualche parola per sottolineare l’estrema debolezza delle sue argomentazioni tecniche sui punti oggetto di interpretazione da parte della proposta di legge e l’improprio riferimento al quadro legislativo lombardo per discutere un provvedimento nazionale.
Una inversione logica che crea confusione
Il dibattito attorno al Salva Milano si è sviluppato probabilmente in maniera disordinata perché diverse sono le prospettive di analisi che si sovrappongono e, così facendo, confondono i temi in discussione e le argomentazioni a supporto delle differenti posizioni.
Da parte di alcuni critici del Salva Milano si sono spesso confusamente sovrapposte considerazioni critiche (condivisibili o non) sulla urbanistica contrattuale o consensuale milanese che si è espressa con piani integrati e accordi di programma (con cui nulla ha a che fare il Salva Milano) e su trasformazioni del tutto diverse che sono avvenute con procedimenti edilizi del tutto differenti a cui guarda invece il Salva Milano. In futuro sarà bene discutere distintamente sulle modalità non solo milanesi di una prassi urbanistica contrattuale/consensuale e sulla prassi di rigenerazione urbana diffusa praticate a Milano, che il Salva Milano e il testo unificato sulla Rigenerazione urbana vogliono estendere a livello nazionale (e su cui da ora in poi ci concentreremo).
L’articolo di Edoardo Marini che si colloca esplicitamente tra i sostenitori della proposta di legge in discussione al Parlamento contribuisce diversamente a fare confusione. In questo caso, il continuo riferimento alle questioni locali milanesi, oltre a tradire il respiro lombardo delle modifiche che si intende introdurre nella disciplina urbanistica, ben lungi dal dimostrare la sostenibilità delle proposte, ne mette in evidenza i limiti. Limiti che attengono la portata della disciplina, scritta evidentemente pensando ad una circostanza specifica (o meglio ad un insieme di circostanze specifiche) e con l’intento di risolvere un problema certamente rilevante ma che attiene aspetti circoscritti ad una realtà locale.
Il richiamo alla disciplina regionale oppure a quella pianificatoria locale effettuato nell’articolo a comprova della sostenibilità della proposta di legge ne evidenzia tutti i limiti ove si consideri che non tutte le altre regioni, né gli altri ottomila comuni italiani, dispongono della stessa disciplina lombarda così che una disposizione di rango nazionale “ritagliata” sulle esigenze meneghine non necessariamente (ed a dire il vero quasi mai) sarà adeguata anche alle altre realtà territoriali italiane.
Il contributo mette in evidenza che tutte le critiche mosse localmente alla modifica normativa (rapporti degli interventi edilizi con la definizione di ristrutturazione edilizia, superamento dell’obbligo di piano esecutivo, elisione del limite delle altezze massime di zona, minimizzazione dei contributi di costruzione, ecc.) possono essere superate guardando al preciso articolato della disciplina regionale e del Piano Urbanistico Milanese (in predicato di nuova formulazione).
Ma il punto della vicenda è proprio questo: la modifica della norma all’esame del Parlamento, a discapito del nome, non riguarda solo Milano o meglio, le modifiche introdotte da una norma che, evidentemente, attengono al caso milanese (ed agli interessi economici correlati alle trasformazioni urbanistiche) producono effetti che superano i confini lombardi e finiscono per interessare l’intera penisola.
L’inversione logica del ragionamento che questo intervento normativo sottende è evidente. La norma nazionale dovrebbe costituire il riferimento per tutte le discipline regionali che si dovrebbero conformare ai principi stabiliti dalla prima mentre in questo caso sta avvenendo il contrario: è la legge nazionale che, sulla base di una sua interpretazione “retrospettiva”, si deve conformare alla disciplina regionale (in particolare a quella lombarda) ed alle prassi in essere nel Comune di Milano senza alcuna considerazione degli effetti di siffatta scelta sulla disciplina urbanistica in tutte le restanti regioni italiane.
Ma, anche a voler lasciar stare per un momento la logica, rimane il fatto che affrontare un problema locale ricorrendo ad una modifica della disciplina nazionale di riferimento, peraltro utilizzando l’espediente dell’interpretazione autentica così da fare “retroagire” le conseguenze della nuova disposizione non è di certo il modo corretto di intervenire sulla questione, che pure deve essere, per quanto possibile, risolta. Avvicinare la legge, specificandone e dettagliandone l’articolato, ai casi sotto esame oltre a rendere la disposizione poco chiara ne riduce la portata perché la rende un fatto concreto e particolare, allontanandola da ciò che dovrebbe essere.
Non è questa la sede adatta per discutere della formulazione delle disposizioni in argomento che pure avrebbero meritato maggiore cura nella stesura ma resta comunque il fatto che risolvere un problema specifico, locale e di natura gestionale (SCIA e CILA la cui regolarità è sotto esame, peraltro da parte del Giudice Penale), con una legge, strumento per definizione generale ed astratto non è mai la soluzione migliore: sottrae il requisito della generalità alla regola e questo non sempre basta alla salvaguardia del singolo caso.
Rimanendo alla questione “urbanistica”, il contributo di Marini sconta un errore di prospettiva. Trascura infatti che la disposizione all’esame del Parlamento non ha una portata locale ma anzi interviene su di una disciplina di rango nazionale, innovandola in più parti. La modifica normativa del Salva Milano, sotto le mentite spoglie di una interpretazione autentica di tre diverse norme nazionali (nell’ordine: L. 1150/42, D.M. 1444/68 e D.P.R. 380/01), così come scritta produrrà effetti differenziati in tutta Italia allo stato incontrollabili e non prevedibili.
Una interpretazione della ristrutturazione edilizia insostenibile (come interpretazione autentica che guarda anche al passato) e sbagliata (qualora si proponesse di riscrivere la norma guardando solo al futuro)
Ma andiamo per gradi. Il Salva Milano interviene sul contenuto dell’art. 3 comma 1 lett. d D.P.R. 380/01, approdato all’attuale formulazione con la Legge 15 luglio 2022, n. 91 e ne modifica la portata, aggiungendo agli interventi di ristrutturazione anche quelli che “presentino sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche, funzionali e tipologiche anche integralmente differenti da quelli originari, purché rispettino le procedure abilitative e il vincolo volumetrico previsti dalla legislazione regionale o dagli strumenti urbanistici comunali.” Quella all’esame del Senato rappresenta non una interpretazione autentica, ma una innovazione della disciplina edilizia (recentemente aggiornata) già di per sé ampliativa del concetto della ristrutturazione edilizia, scritta per venire incontro alle esigenze della Lombardia e dando per sottointeso che le altre discipline regionali dispongano di contenuti di dettaglio analoghi e quindi idonei a regolamentare nel proprio territorio trasformazioni edilizie simili a quelle in corso a Milano.
Ma non è affatto detto che sia così: “l’interpretazione autentica” introduce, nel frammento sopra riportato, il principio del tutto inesistente nel panorama nazionale che l’edificio risultato della demolizione di preesistenze possa essere integralmente differente non solo per la conformazione e le quantità volumetriche, ma anche per le funzioni ad esso associate, lasciando al legislatore regionale il compito di individuare le procedure applicabili al caso.
Si tratta evidentemente di una disciplina che tende, nei fatti, ad innovare la stessa definizione della ristrutturazione edilizia a partire dall’entrata in vigore del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 cosiddetto “decreto del fare” senza tener conto, ad esempio, che nel frattempo l’entrata in vigore del d.l. n. 32 del 2019 (cosiddetto decreto “sblocca cantieri”), aveva inserito il comma 1-ter all’art. 2-bis del t.u. edilizia che a propria volta aveva reintrodotto limiti più stringenti alle trasformazioni edilizie per ristrutturazione, come autorevolmente chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 70/2020. Inoltre, se è vero che l’attuale disciplina riconduce alla ristrutturazione anche interventi di demolizione e ricostruzione che comportano modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, nella stessa misura richiede che l’organismo edilizio risultante conservi una continuità con la preesistenza. La trasformazione edilizia deve dunque svolgersi all’interno di quei limiti che separano la ristrutturazione dalla nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente. La norma in discussione, invece, rimuove quel vincolo di continuità tra l’organismo edilizio preesistente e quello risultato dall’intervento e così facendo rende impossibile classificare l’intervento edilizio, se come ristrutturazione oppure come nuova costruzione.
Ciò che viene fuori è un pasticcio che interpreta norme differenti succedutesi nel tempo con l’intenzione di ridurle a coerenza (e ad unità) rispetto all’esigenza locale del comune di Milano. Senza nemmeno porre attenzione alla difficoltà di coordinare la disciplina della ristrutturazione del D.P.R. 380/01 con l’altra relativa alle nuove costruzioni e con quella, correlata, dei titoli edilizi associati alle trasformazioni (art. 10 e/o art. 23 D.P.R. 380/01). Insomma la ristrutturazione edilizia cosi potenziata, che Edoardo Marini loda e fa propria, pone due ordini di problemi. Innanzitutto è del tutto e gravemente scorretta come interpretazione autentica retroattiva. In secondo luogo, anche se fosse ammesso riformulare la norma e guardando evidentemente solo al futuro, è sbagliata perché stravolgendo linguaggio comune e linguaggio tecnico annulla in un fare da azzeccagarbugli ogni distinzione tra ristrutturazione edilizia e demolizione e nuova costruzione: una distinzione necessaria per distinguere quando assai diffusamente sia auspicabile solo la prima e quando in molti casi sia auspicabile anche la seconda. Anzi per un ben fare urbanistica sarebbe quanto mai opportuno muoversi in futuro in direzione diversa, che ammetta la demolizione e ricostruzione (come è dal 2001), anche in difformità di sagoma e sedime, ma non in integrale difformità dalla stessa configurazione planivolumetrica (ridando senso non solo funzionalmente come oggi è, ma anche da un punto di vista planivolumetrico alla distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione) e mai senza incrementi volumetrici (che portano evidentemente nel campo della nuova costruzione). In coerenza con il linguaggio tecnico e comune così ripristinato è altresì necessario mantenere e riportare a questa essenziale distinzione il diverso calcolo degli oneri di urbanizzazione.
Le ragioni urbanistiche e civili del piano attuativo e i casi, da ben definire, in cui prevedere il permesso di costruire convenzionato
Ma se questo rappresenta l’aspetto rilevante sotto il profilo, per così dire edilizio, altri sono gli aspetti che pure intervengono, di rango più propriamente urbanistico. L’interpretazione autentica dall’articolo 41-quinquies, primo comma, della Legge n. 1150 del 1942 tende a superare l’obbligo della redazione del piano urbanistico esecutivo nel caso di interventi di demolizione e ricostruzione che eccedano certi limiti quantitativi, e pone inquietanti interrogativi sulle conseguenze di questo cambio di prospettiva in materia di governo del territorio. Il punto è reso ancor più critico se letto con l’ulteriore “interpretazione autentica” dell’art. 8 comma 2 D.M. 1444/68 che impone, all’atto della pianificazione delle aree già edificate, l’obbligo di conformare le altezze del nuovo edificato alle condizioni del contesto urbano in cui si inserisce.
La lettura sistematica delle due disposizioni, nella versione oggi vigente, ne evidenzia la portata, finalizzata a rendere razionali le trasformazioni territoriali garantendo la coerenza delle trasformazioni urbane ed il loro corretto inserimento nel tessuto edilizio pre esistente. Ma l’effetto della modifica all’esame del Senato, ove approvata, non è solo quello di una trasformazione incontrollata del territorio nei suoi aspetti formali. Il superamento dello strumento urbanistico esecutivo, nel caso di interventi che riguardino l’edificato già esistente, si presenta particolarmente insidioso perché supera a piè pari la necessità tipica delle trasformazioni urbane di un loro coordinamento.
Non sembra possibile immaginare che interventi di demolizione e ricostruzione attivati sulla base delle esigenze economiche dei singoli operatori del settore possano produrre uno sviluppo armonico ed efficiente della città. Scelte di questo tenore sacrificano all’interesse economico di pochi le necessità della collettività perché rendono inefficienti le reti pubbliche (non soggette a verifica nella loro globalità, alla scala di isolato e di quartiere) e polverizzano nella città le dotazioni territoriali (quando queste non vengano monetizzate). Procedendo in via episodica e scoordinata le iniziative edilizie sopravanzano le esigenze urbanistiche e sacrificano l’interesse pubblico al corretto insediamento urbano ed al correlato miglioramento delle condizioni di vita della collettività insediata a quello, rilevante ma privato e meramente economico, dei promotori dei singoli interventi edilizi. In poche parole la preferenza per i moduli acceleratori delle trasformazioni edilizie trascura la necessità di verificare ex ante l’adeguatezza delle infrastrutture esistenti rispetto all’incremento del carico urbanistico.
Ancora, sul piano urbanistico, la cessione degli standard (quando non monetizzati), ove correlata a singoli interventi edilizi non coordinati, si tradurrebbe in una polverizzazione delle dotazioni territoriali che viceversa dovrebbero essere concentrate in posizioni previamente definite all’esito di un’analisi territoriale per ottimizzarne le prestazioni e restituire al tempo stesso condizioni armoniose allo sviluppo urbano. C’è infine un punto troppo spesso sottovalutato riguardante la possibilità di un dibattito pubblico e di controllo dei contenuti convenzionali. L’istituto del piano attuativo per queste trasformazioni che rompono con la “consuetudo urbanistica” consente una discussione pubblica pur nei limiti della legge del 42 (in sede politica con un provvedimento consiliare e in forma più allargata con la possibilità dei cittadini di fare osservazioni). Alla faccia di ogni richiamo a forme di coinvolgimento dei cittadini e di dibattito pubblico la rottura dei connotati di un tessuto edilizio e la valutazione del disegno degli standard e dell’entità delle eventuali monetizzazioni vengono riportate a una pratica che rischia di risultare opaca ed espone i funzionari pubblici a valutazioni che non competono (solo) a loro con tutti i rischi che in questo modo solo su di loro ricadono. Insomma il tema non è nuovo, interessa da anni il rapporto controverso tra urbanistica ed edilizia, ma in questa circostanza è portato al parossismo. Non può quindi essere una interpretazione autentica della disciplina ultra quarantennale in materia di urbanistica a risolvere un problema complesso, certo rilevante, ma che attiene ad un ambito locale.
È possibile ed auspicabile immaginare che per alcune trasformazioni più minute (e alcune di quelle milanesi oggetto di discussione minute non sono e certo non appartengono a questa tipologia) che oggi debbono avvenire con piano attuativo, sia ammissibile procedere con un permesso di costruire convenzionato, qualora nel piano urbanistico generale siano già stati fatte valutazioni di impatto e definiti gli aspetti di massima del convenzionamento. Il legislatore potrà e dovrà definire l’entità di queste trasformazioni e le valutazioni e i contenuti che dovranno essere presenti nello strumento generale. Di certo è auspicabile in questi casi più definiti che si eviti come è avvenuto a Milano un non chiaro alternativo ricorso ora ad una super-scia (che ci pare impropria, anche per il mancato passaggio della convenzione in giunta), ora ad un permesso di costruire convenzionato (più proprio ma come si è detto da riferire a trasformazioni meno impattanti). Di certo è ancora una volta scorretto retrospettivamente rimuovere l’obbligo del piano attuativo e prospetticamente eliminarlo anche le più consistenti e radicali trasformazioni, come ahimè propone il Salva Milano.
Evitare sconquassi nel resto del paese con l’apertura di contenziosi insidiosi (verso chi ha interpretato correttamente le norme), garantendo al tempo stesso una reale protezione ai funzionari milanesi che hanno operato senza dolo in un quadro normativo locale confuso
Oltre alle motivazioni tecniche sopra precisate non possono essere ignorate considerazioni di buon senso, prima che giuridiche, determinate dalla circostanza che la lettura “retrospettiva” della disciplina urbanistica risulta lontana dal tenore letterale della disposizione. Inoltre, quella stessa disciplina, in vigore in Italia da oltre cinquant’anni, ha prodotto sul territorio nazionale esiti variegati così che interpretarla retroattivamente rischia di produrre effetti dannosi in ogni comune, nemmeno allo stato ipotizzabili. In questo ultimo senso nel tentativo di risolvere un problema locale se ne aprirebbe uno nazionale. A questo punto sarebbe forse più giusto chiamare le cose con il loro nome e procedere di conseguenza. Il problema a Milano esiste e va risolto anche a tutela dei tecnici e funzionari del comune che hanno svolto il proprio mestiere in condizioni non semplici a causa di un quadro normativo complesso, forse mal predisposto.
L’obiettivo insomma non è quello di difendere ed estendere delle procedure locali (come si sforza di fare l’autore di questo scritto) che ci limitiamo ora a dire “ardite, ma tutelare effettivamente funzionari e professionisti che operando senza dolo ne sono stati travolti. Non lo si fa con un provvedimento che presenta evidenti rischi di incostituzionalità e che impugnato rischierebbe di tenerli sulla graticola per molti anni (con effetti devastanti sulle persone). Insomma si tratta di un problema locale e come tale va affrontato, probabilmente attraverso una sanatoria di quanto ad oggi effettuati. Sarà compito dei tecnici del diritto individuare una disciplina ad hoc e controllarne gli effetti ed i rapporti tra il diritto urbanistico/amministrativo e quello penale: una soluzione che risolva effettivamente il problema e non lasci aperte questioni in grado di moltiplicarli invece che superarli.
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