Torre Milano, una delle costruzioni contestate dai comitati di quartiere, che ha portato ai procedimenti giudiziari e al provvedimento Salva-Milano

Milano

Piccola guida alle questioni tecniche, urbanistiche e amministrative che riguardano il Salva-Milano

31 Gennaio 2025

Confesso che faccio fatica a districarmi nel dibattito che si sta sviluppando a ridosso del salva-milano e connesse vicende giudiziarie. Troppi piani argomentativi che si mischiano uno sull’altro. Il dibattito tocca il modello di sviluppo che ha seguito Milano negli ultimi decenni e le relative trasformazioni sociali, si concentra sulle forme della città, sulle regole urbanistiche, lambisce questione di integrità e correttezza della pubblica amministrazione e delle scelte politiche di indirizzo. Troppi argomenti per i miei gusti. Senza contare le ricostruzioni maldestre o parziali che stanno fiorendo un po’ dappertutto.
Non ho né la pretesa né la capacità di affrontare questa molteplicità di problemi. Mi limiterò pertanto a trattare uno dei temi all’ordine del giorno, quello delle regole urbanistiche. Non però da un punto di vista giuridico, perché avvocato non sono, ma di uno che per lavoro ha a che fare quotidianamente con queste regole. Dunque, da un punto di vista parziale. Anzi, doppiamente parziale, perché mi muovo nel contesto lombardo.

Ristrutturazione edilizia potenziata. Da anni in Lombardia le opere di ristrutturazione edilizia contemplano la possibilità di ricostruire integralmente e con forme anche totalmente diverse gli immobili oggetto di intervento. Altre Regioni non contemplano questa possibilità. Per un periodo invero molto breve questa possibilità è stata preclusa, poi la norma è stata estesa a tutto il territorio nazionale e potete trovarla nel Testo Unico sull’Edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380).
La ristrutturazione edilizia potenziata pone qualche problema?  Non molti in realtà, se non sul piano lessicale. Fa un po’ di confusione. E’ uno dei soliti, tanti e deprecabili usi maldestri del linguaggio. Un tempo si usava il termine più preciso di “sostituzione edilizia”.

Piani attutivi si, piani attutivi no.  E’ la principale critica mossa al cosiddetto salva-milano che secondo i suoi detrattori aprirebbe la strada a trasformazioni non controllate.  Secondo i sostenitori del salva-milano nella città esistente il piano attuativo è superfluo perché essa è già dotata di tutte le urbanizzazioni.  Vero, ma c’è anche un’altra argomentazione a suffragio di questa tesi.  Questi piani, infatti, non vincolano le forme architettoniche e la stessa collocazione degli edifici può facilmente “galleggiare” con forme e posizioni diverse all’interno dell’area fondiaria. In tal senso il legislatore lombardo ha precisato che non costituiscono variante al piano attuativo le modifiche “planivolumetriche, a condizione che queste non alterino le caratteristiche tipologiche di impostazione dello strumento attuativo stesso” (comma 12, art. 14 della legge regionale n.12/2005). Per inciso, ciò significa che i sofisticati rendering con cui si raccontano le scelte dei piani sono sempre un po’ retorici e fuorvianti perché ciò che sarà costruito potrà essere molto diverso.
Se l’intervento riguarda un unico immobile, anche talvolta di dimensioni rilevanti, ma in un contesto urbano delicato, ove è necessario definire con precisione il disegno del suolo o l’attacco a terra degli edifici o i rapporti con gli edifici e le quinte esistenti, lo strumento piano attuativo serve poco. Al contrario lo strumento è irrinunciabile in altre situazioni (grandi progetti, interventi con più operatori, ove il promotore è non sarà il soggetto che realizza l’intervento, etc. etc.). La legge urbanistica regionale lombarda stabilisce ad esempio che nella città esistente (urbanizzato) si debba utilizzare il permesso di costruire convenzionato (comma 1bis, art.14 legge regionale n.15/2005) che a sua volta ha altri pregi e difetti.
In ogni caso, perché non lasciare libertà di scegliere il procedimento attuativo più consono alla specifica situazione?

Procedi come vuoi, ma a condizioni invariate. Forse è il tema nodale dell’intera vicenda. Molti dei critici del salva-milano sostengono che il mancato ricorso ai piani attuativi corrisponde ad un minore introito per il Comune in termini di aree, opere o soldi. Semplificando molto, il riferimento è agli oneri e alle aree a standard. Non conosco nei dettagli le caratteristiche di tutti i casi messi sotto osservazione dalla Procura, ma sono certo che sotto questo profilo ognuno fa caso a sé stante, in relazione al periodo in cui è stato licenziato e alle norme che erano allora in vigore.
Circa le aree a standard, come ha già precisato Sandro Balducci sulle pagine di Repubblica, ricordo che il piano urbanistico di Milano fissa un indice base incrementabile attraverso perequazione. Laddove le possibilità costruttive aggiunte sono generate da un’area standard, da qualche parte della città dovrebbe pertanto verificarsi la sua cessione gratuita. In ogni caso le costruzioni che eccedono l’indice edificatorio di 0.35 mq/mq sono per il piano urbanistico milanese comunque tenute al reperimento degli standard.
Più in generale, sono fermamente convinto che tutti gli interventi di un certo impatto che modificano quello che viene chiamato il “carico antropico” debbano reperire le aree per servizi, qualsiasi sia il procedimento autorizzativo seguito. Anche in caso di titolo edilizia semplice. A maggior ragione laddove, come in Lombardia, sono tenuti a cedere (ragguagliare) lo standard anche gli interventi che si limitano a prevedere un diverso utilizzo degli immobili già esistenti (cambio di destinazione d’uso). Tale principio, a mio parere fondamentale, è però spesso contestato e comunque demandato alle più deboli norme dei piani urbanistici generali. Faccio rilevare che il salva-milano si muove in questa direzione, seppure con passi ancora molto timidi.
Quanto agli oneri, le cosiddette “sostituzioni” edilizie hanno pagato la tariffa piena finché il Parlamento prima, e regione Lombardia poi, hanno deciso che gli oneri per la “ristrutturazione edilizia”, compresa quella “potenziata”, sono ridotti fino al 60%. E’ possibile quindi che alcuni degli interventi oggetto di attenzione abbiano goduto di sconti rilevanti. A questo punto qualche d’uno potrebbe pensare che il comune di Milano avrebbe dovuto correre ai ripari. Vero.

La storia va però raccontata per intero. Da un po’ di tempo, infatti, i nostri legislatori hanno previsto una miriade di incentivi sotto forma di sconti e/o aumento delle capacità edificatorie per facilitare alcune specifiche modalità di intervento. Incentivi talvolta contradditori o “bizzarri” o inutili. Per rimanere all’ambito lombardo ho contato almeno 16 tipologie di sconti. Molti comuni e, in primis quello di Milano, si sono opposti a questa forma di magnanimità con le risorse di altri.  Ovviamente le disposizioni imperative sono state per forza di cosa applicate. Imputare però ai comuni e, in primis, al comune di Milano, la colpa di tutto ciò è perlomeno ingeneroso. Come si dice, oltre al danno la beffa?

Cila, Scia e altri titoli edilizi a validità immediata. Molti hanno messo in evidenza come il ricorso eccessivo a procedimenti come la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) significhi delegare tout court le trasformazioni della città ai privati. Forse c’è un equivoco. Anche se la responsabilità rimane in capo all’operatore, cioè al progettista, le Scia riguardanti gli interventi di una certa rilevanza sono sempre oggetto di una condivisione con gli Uffici comunali. Ad esempio, tutti quelli che transitano per la Commissione del Paesaggio. In questi casi il deposito della Scia è l’atto finale di un contradditorio iniziato con la richiesta di un parere preventivo. In altre situazioni è invece il Comune che interviene di imperio interrompendo i termini del procedimento.

Il problema è quello della responsabilità. Nel caso della Scia, infatti, la responsabilità rimane in capo all’operatore e l’atto può essere contestato per i successivi 18 mesi, cioè fintanto che non scatta quello che i giuristi chiamano l’avvalimento. L’emissione di un atto autorizzativo (esplicito), come ad esempio il permesso di costruire, corrisponde ad una sorta di consolidamento del progetto e la sua contestazione postuma diventa molto più ardua. Giusto o sbagliato? Difficile dirlo. Certo è che non mi sento di biasimare coloro che si trovano a dover autorizzare in poco tempo progetti costituiti da centinaia di elaborati. In questi casi l’errore è inevitabile e scaricare sul privato la responsabilità è una strategia più che comprensibile.

Turbo commissione paesaggio. Erede delle antiche commissioni edilizie, quella del paesaggio è il più delle volte l’unico luogo ove si discute di architetture e della forma degli oggetti che costituiscono la città. Compito importante, dunque, quello svolto dalle Commissioni Comunali del Paesaggio ma anche ingrato, perché sono chiamate a svolgere un lavoro impegnativo, difficile e senza neanche il sollievo di un seppur misero gettone di presenza.

Il piano urbanistico milanese non ha fissato gli indici edificatori massimi nelle aree di atterraggio della perequazione, demandando alla Commissione l’ammissibilità del trasferimento dei diritti. In questo modo la Commissione è stata investita da compiti che vanno ben oltre la valutazione del cosiddetto “aspetto esteriore dei luoghi”. Eppure, il principio non è in astratto sbagliato. Quanto è possibile costruire? Quanto quel particolare contesto può ragionevolmente e correttamente accogliere, è la risposta che darei. Forse un po’ ingenuo è stato pensare che la Commissione potesse svolgere questo ruolo. Anche perché è e rimane un organo consultivo.

Altra questione è quella delle densità edilizie della città.  Non c’è dubbio che la Milano degli ultimi decenni sia una città densa e cresciuta in altezza.  Basti pensare a interventi come quello di piazza Gae Aulenti, di Citylife, ma anche a realizzazioni dei decenni precedenti (Pirelli Bicocca, Innocenti, fabbrica OM, etc.) o a quelle nei “cortili” al centro dell’attuale dibattito.
So bene che il tema “indici urbanistici” è di difficile trattazione, perché molto tecnico, ma optare per una città più rada, sviluppata in altezza, in orizzontale o che per mimesi confermi le densità esistenti dovrebbe essere oggetto di attenta discussione, ad esempio nel nuovo piano urbanistico che l’Amministrazione si appresta a redigere.

Una legge gloriosa. La legge 6 agosto 1967 n. 765 e il Decreto Ministeriale del 2 aprile 1968 n.1444. sono dei testi fondamentali per il governo del territorio (e la storia del paese). Come è noto, l’art.17 di questa legge prevede l’obbligo di redigere un piano attuativo per la costruzione di edifici più alti di 25 metri (pari a 8 piani, circa) e con un indice superiore a 3 mc/mq, che ha dato vita a tutta la vicenda del salva-milano (uno dei reati contestati è, infatti, “lottizzazione abusiva”).

Il ricorso obbligatorio al piano non è però l’unica disposizione della cosiddetta legge “ponte” e del DM 1444 disattesa e oggi riesumata. Quei testi hanno poco più di mezzo secolo e in filigrana ci permettono di immaginare cosa era lo sviluppo del paese in quegli anni. Otto piani corrispondono al classico condominio fuori scala maldestramente costruito ai bordi dei centri storici o a ridosso di coste e fiumi. Di quei gloriosi testi rimangono invece in uso i principi e alcune disposizioni (le distanze, soprattutto). Forse sarebbe ora di fare pulizia e di sfrondare norme anacronistiche.  O forse qualche d’uno vorrebbe seriamente fissare a otto piani il ricorso obbligatorio al piano attuativo? Ma che senso ha tutto ciò? E poi perché otto e non dieci o non quattro piani?

Equipaggiamenti urbani. Ritengo che tutti gli interventi di sostituzione edilizia o più incidenti debbano garantire la cessione degli standard. Lo stesso vale per gli oneri. Per usare una espressione in uso negli anni ’60, pare corretto chiedere agli operatori di contribuire a garantire almeno la rigenerazione della rendita differenziale di cui si appropriano con gli interventi di trasformazione nella città esistente. Una rigenerazione della rendita che deve seguire però modalità contemporanee. Il principio di una stretta relazione (spaziale) fra investimenti pubblici e realizzazione immobiliari non ha senso e la monetizzazione è uno strumento necessario per la programmazione dei servizi. Si consideri poi che la questione non è più quella di assicurare alla città che cresce una corretta dotazione di servizi ma quella di mantenere, rifunzionalizzare, migliorare e ridisegnare la città pubblica esistente. E, aggiungo, di realizzare adeguati interventi di mitigazioni ambientale.

Come che sia, l’accusa che alcuni muovono di una scarsa attenzione nelle nuove realizzazioni immobiliari private alla definizione degli spazi pubblici merita una qualche riflessione. A guardare bene questa scarsa attenzione riguarda anche alcune opere pubbliche. Per fare un esempio qualsiasi si pensi, ad esempio, alla centralissima sequenza degli interventi di corso Concordia, piazza San Babila e Largo Augusto. Sembra quasi che la cultura progettuale, dentro o fuori dagli uffici pubblici, abbia ritrosia nell’affrontare il tema.
Eppure, come hanno mostrato tante storie di rigenerazione urbana, il ridisegno dello spazio pubblico è stato lo spin off per la trasformazione di intere parti urbane. A ben vedere, anche l’attuale corso milanese ha preso simbolicamente l’avvio dalla riqualificazione di spazi pubblici poi diventati “iconici”. Si pensi alla sistemazione della Darsena al tempo di Expo2015 o a piazza Gae Aulenti.
Su questa strada ritengo che il cammino da intraprendere sia ancora lungo e condivido le perplessità di alcuni critici dell’attuale corso milanese. Ma penso che le condivida anche l’assessore arch. Tancredi, giacché ha ritenuto opportuno far diventare la città pubblica uno degli oggetti centrali del futuro piano urbanistico generale. Tutto ciò c’entra però poco con il salva-milano e la sua presunta illegittimità o pericolosità.

Conclusioni. Proverò ad articolarle per punti, non prima di aver precisato che la vicenda del salva-milano mi lascia il dubbio, come molte volte personalmente mi accade, che passo dopo passo, spinti dalla voglia di fare e di dimostrare l’efficienza (e l’efficacia) della macchina amministrativa italiana, alla fine ci siamo spinti troppo lontani.  Forse abbiamo dimenticato che le procedure ordinarie, quelle cosiddette “normali”, a conti fatti, sono quelle meno problematiche e anche più veloci. In ogni caso:

  1. non considero il salva-milano una iattura. E’ un provvedimento (una interpretazione autentica?) che mette un po’ ordine a una griglia di diposizioni regolamentari stratificatasi nel tempo, spesso sovrapposte una all’altra o decisamente obsolete. Una rete che ritengo sia un errore giudicare a prescindere dal relativo contesto d’azione e dalle effettive pratiche di trasformazione del territorio. Pratiche a cui partecipa una moltitudine di attori guidati da una griglia normativa che essi stessi interpretano e contribuiscono a generare per mutuo adattamento. Pratiche che si differenziano geograficamente e che si sono stratificate in tempi lunghi;
  2. non condivido neanche la difesa ad oltranza dello strumento “piano attuativo”. E’ una procedura importante e talvolta insostituibile ma è solo uno dei possibili utensili a disposizione. Ne esistono altri che in alcune date condizioni sono più efficaci. Uno dei limiti dei piani attuativi è la loro scarsa cogenza relativamente alla definizione architettonica degli interventi. Curioso che questo aspetto sia omesso quando i piani urbanistici generali, i procedimenti di verifica ambientale, le prescrizioni sanitarie spingano all’unisono verso la progettazione di dettaglio, facendo saltare la sequenza dei procedimenti e la stessa demarcazione fra piani e progetti. Ancora più curioso che questa difesa avvenga in nome del fatidico limite di altezza dei 25 metri che, francamente, ritengo non abbia il minimo senso;
  3. tutto ciò ovviamente a patto che rimangano invariati i contributi versati dagli operatori. Per usare lo slogan proposto in precedenza: “procedi come vuoi, ma a condizioni invariate” e tutta la materia dei contributi cosiddetti di costruzione avrebbe urgente bisogno di un adeguamento. Curioso che questo tema sia sempre molto laterale al dibattito. Al contrario un sistema più semplice e chiaro sarebbe di grande aiuto per rendere i processi di trasformazione del territorio più efficienti, trasparenti, equi e prevedibili. Lasciatemi sperare che al salva-milano segua un successivo intervento in tal senso;
  4. Il tema della densità della città, del suo sviluppo orizzontale o verticale, e il tema del disegno dello spazio pubblico, sono argomenti che debbono e possono essere affrontati. Sono, ritengo, il nocciolo duro delle critiche all’urbanistica milanese o almeno ad alcuni degli interventi realizzati. Non solo di questi però, a ben vedere. Sono temi legittimi e da affrontare con una discussione circa cosa vogliamo che Milano diventi nei prossimi anni. Forse, però, sarebbero più facile trattarli se si lasciasse da parte una consolidata tradizione dell’urbanistica italiana che in una prospettiva top-down tende sempre a mischiare procedure e contenuti (una pratica etico-deduttiva?).
  5. Più in generale, ho l’impressione che l’incredibile sviluppo che ha segnato Milano negli ultimi 20 anni sia giunto al culmine. L’impazzimento dei valori immobiliari, il riemergere prorompente di una questione abitativa, il cosiddetto “overturism”, il sempre più difficoltoso inserimento degli stranieri di seconda generazione, il persistere di accentuate differenze di reddito, la scarsa visibilità dei tanti interventi a favore delle periferie e, finanche, l’obsolescenza a cui stanno andando incontro alcuni degli interventi urbani “iconici” che hanno segnato questa stagione, sono segnali che un ciclo si sta concludendo. Le riflessioni e i progetti per capire cosa vogliamo che Milano diventi nei prossimi anni non mancano. Si tratta di ricomporli in una narrazione articolata ma unitaria. Ritengo che questo sia un obbiettivo obbligato per chi si vuole presentare alle prossime elezioni vincendole;
  6. la vulgata che gira in città è che l’iter che ha portato a discutere il salva-milano sia partito dagli esposti alla Procura della Repubblica di alcuni cittadini infastiditi per gli interventi realizzati, e che tale sistema si stia diffondendo. La motivazione è comprensibile: è più semplice e meno costoso redigere un esposto che impugnare un atto amministrativo. Non sono in grado di dire se tale affermazione corrisponda al vero. Sta di fatto che la sovrapposizione e lo sconfinamento fra un campo del diritto e l’altro è questione nota e messa in evidenza da tempo da diversi studiosi. Nel merito, rimando alle riflessioni del prof. Sabino Cassese, ben più titolato del sottoscritto, ovviamente (si veda, ad esempio, gli ultimi capitoli de Amministrare la nazione: la crisi della burocrazia e i suoi rimedi, Mondadori, Milano 2023). Attenzione, però, perché i diversi diritti usano linguaggi e seguono argomentazioni e logiche non interamente sovrapponibili. Quale seguire diventa un dilemma difficilmente districabile che rischia di bloccare completamente l’azione amministrativa. Da questo punto di vista ci tengo a sottolineare tutta la mia solidarietà agli Uffici Tecnici del comune di Milano e alle Commissioni del paesaggio che si sono succedute. Per quel che conta. La ricerca di eventuali comportamenti penalmente rilevanti o anche solo deontologicamente deprecabili è evidentemente altra cosa. Ci mancherebbe altro.

 

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