Milano
Riscoperte e applausi sull’ultima Tosca alla Scala di Milano
A luci ormai spente resta ancora attuale discutere della recente Tosca scaligera, in scena dal 7 dicembre 2019 all’8 gennaio 2020, sgonfiata l’enfasi dell’inaugurazione spesso fra spocchia ed entusiasmi acritici, per tornare invece sulla problematica che è emersa come nodo principale di questa produzione, centrata sul ricorso a una “nuova” edizione basata sui materiali che Puccini aveva tagliato e da cui aveva poi selezionato la versione definitiva. Il punto critico proposto è sempre attuale: quella che studiamo e ascoltiamo è davvero la versione “definitiva”? Certo che Puccini non fu ovviamente uno sprovveduto né un improvvisatore, e la sua intelligenza lo portò indubbiamente a compiere le scelte migliori, secondo principi e ragioni per noi spesso insondabili. Ma lo studioso vuole capire e andare a fondo, esaminando e confrontando fonti, edizioni, esecuzioni. Il lavoro di analisi critica del musicologo britannico Roger Parker, già docente a Oxford, Cambridge e negli USA, è stato alla base della partitura impiegata a Milano per questa prima – edizione basata sulle sue ricerche pubblicate nel 1995 – «un tentativo di ritornare a una versione dell’opera il più vicina possibile a quella presentata al pubblico romano alla prima mondiale di Tosca, il 14 gennaio 1900», come precisa nell’illuminante saggio “’As a stranger give it welcome’: la prima Tosca” nel libretto di sala, aggiungendo comunque che «Tosca è probabilmente la più stabile di tutte le opere di Puccini, quella che fu sottoposta a minori revisioni».
Sulla rivista «Musica» n.312 di dicembre-gennaio (pp. 34-35) il musicologo Ettore Napoli ci ha dato alcuni ragguagli sulla partitura impiegata nell’interessante articolo “La «prima versione» di Tosca: una guida all’ascolto”, con un breve ma efficace excursus in alcuni momenti dell’opera sottoposti a revisioni e cambiamenti da Puccini, incluse «numerose micro varianti lessicali» in base a quanto sollevato da Parker. Punta giustamente il dito su un “equivoco”: «cosa è stato fissato sulla carta, quando e da chi oltre a Puccini stesso?».
Di fatto l’esito di limature e ripensamenti licenziavano la partitura della prima esecuzione con la possibilità di ulteriori sistemazioni, che potevano trovare precedenti un po’ differenti nelle parti d’orchestra o nella prima edizione per canto e piano. Un processo sicuramente interessante, quanto meno per farci comprendere che la musica e la partitura sono un organismo vivo, frutto di un work-in-progress che nella mente dell’autore è inarrestabile. Un piccolo esempio: il testo del pastorello che canta all’inizio del terzo atto giunse più tardi rispetto alla prima partitura. Ma c’è molto di più.
Le fonti consultate da Parker per un‘opera nata comunque fra contrasti per le difficoltà sollevate dai librettisti Illica e Giacosa nel trasferire il dramma originario in ambito musicale, hanno incluso la partitura autografa con le sue correzioni, le prime due edizioni per canto e piano del 1899 e del 1900, l’edizione per canto e piano riveduta in francese del 1909, la prima edizione a stampa del libretto del 1899, la prima e la seconda edizione della partitura a stampa, rispettivamente del 1900 e del 1922. Se nella sua analisi della partitura Parker chiarisce, anche se con una certa ambivalenza, che Puccini «al pari della maggior parte dei compositori del XIX secolo considerava la propria partitura orchestrale semplicemente come una pura e semplice raffigurazione della fase in cui la composizione, in quel determinato momento, si trovava; tutt’altro, quindi, che un documento da modellare con la consapevolezza e la volontà di indicarlo, un giorno, come l’ultima parola del compositore sulla propria opera», nel libretto di sala per questa prima scaligera egli aggiunge che «la partitura costituisce un’eccezionale conferma del fatto che Puccini era un ossessivo revisore e levigatore del suo lavoro, e che le frustrazioni a cui erano sottoposti i suoi librettisti erano le stesse a cui egli si sottoponeva a sua volta».
Le varianti riprese e successivamente omesse dall’autore, presentate alla prima vanno a collocarsi in alcuni momenti “forti” della partitura, come sottolineato da Parker: 1) cinque battute aggiuntive nel duetto Tosca-Cavaradossi del I Atto; 2) un diverso finale del Te Deum corale alla fine del I Atto; 3) una versione più lunga della sdegnata preghiera di Spoletta alla fine della tortura di Cavaradossi; 4) una riscrittura del famoso verso di Tosca “Quanto? Il prezzo”; 5) due battute aggiuntive alla fine di “Vissi d’arte”; 6) una versione assai più lunga della scena della morte di Scarpia e delle parole finali di Tosca; 7) una conclusione sensibilmente diversa per gli ultimi momenti dell’opera, con un’intensa declamazione di Tosca e una ripresa più ampia di “E lucean le stelle”.
La ricerca del nuovo e dell’inedito potrebbe spingere a nuove e diverse edizioni o edizioni critiche, con buon vantaggio per gli editori. Qui però non si tratta di introdurre una nuova “edizione critica”, come ha evidenziato Napolii, dato che il termine va riferito in modo più specifico a «un’edizione conforme a un’ipotetica “volontà del compositore”». Oltre alle vere edizioni critiche, in Italia le problematiche da affrontare sono soprattutto altre quando si parla di autenticità e riscoperte: il recupero del patrimonio operistico di tutto il Settecento, in gran parte dormiente in archivi e biblioteche, bisognoso di un’impresa archeologica ricostruttiva immane, e il grande lavoro di ripulitura interpretativa su tradizioni e prassi “aggiunte”ma consolidatesi per i repertori più celebri, quelle cosiddette «mode esecutive», precisa Napoli, che hanno definito «una tradizione non di rado lontana da quanto fissato a suo tempo sulla carta e spesso, come avrebbe detto Mahler, Schlamperei (sciatteria)» (si pensi a quanto messo in pratica da Riccardo Muti su pilastri come Traviata e Rigoletto).
Per questa Tosca milanese l’affair, o la supposta “novità”, sembra dunque più per addetti ai lavori e musicologi che per un pubblico di appassionati ferventi, più centrato sull’argomento “musicologico” che su un’edizione di riferimento sul piano artistico-interpretativo, in un sistema di comunicazione e interazione che parte sì dalla penna dell’autore, ma che in questo caso aveva idee chiarissime e per nulla incerte o confuse, e che se le cambiò in corso d’opera, secondo Parker, lo fece «per ragioni sostanzialmente imperscrutabili, probabilmente ignote anche a lui stesso, ma sicuramente complesse e sfaccettate».
Ci si chiede quindi se da operazioni di questo tipo, dietro a cui c’è sempre un gran lavoro, ci guadagniamo o meno, anche perché lo stesso Parker ricorda che «non è dunque in alcun modo possibile affermare che questa Tosca “del 1900” costituisce una versione più “autentica” dell’opera», visto che fu Puccini a compiere le scelte definitive. «I musicologi – aggiunge Parker – possono anche illudersi di essere in grado di individuare la “vera ragione musicale” di tali ripensamenti (la loro deformazione professionale li rende particolarmente inclini a questa fantasia), ma sarebbe una sorta di pensiero magico a ritroso: come se fosse possibile, grazie al senno di poi, ritornare al mondo del compositore e comprendere le sue azioni». La ripresa delle battute tagliate da Puccini per l’epilogo tragico dell’opera, ad esempio, prolunga indubbiamente la tensione, ma ne sminuisce l’efficacia: nella versione più nota il compositore è invece tranchant ed essenziale, la fine deve essere secca e inesorabile.
Del resto, con o senza aggiunte, per questa attesa prima, tutto si è retto sulla forza comunicativa della musica di Puccini come non mai. Nelle mani di Riccardo Chailly l’Orchestra della Scala suona in modo plastico alla ricerca di un suono avvolgente (magnifici i violoncelli all’inizio del terzo atto), dove con precisione meticolosa il direttore lega le voci e le incastona nel tessuto strumentale, cogliendo il senso tragico dell’ineluttabilità degli eventi da un alto, ma senza approfondire troppo i contrasti sullo scenario torbido delle passioni né sull’impatto psicologico delle dinamiche del suono e del fraseggio dall’altro. In tal senso emerge bene il finale del secondo atto nella sua fredda, cinica e gelida chiusura, più raffreddate altre sezioni invece meritevoli di maggiori accessi emozionali nel suono e nelle dinamiche, dispiegati invece con un certo distacco. La bacchetta non è generosa nel fluire delle emozioni anche se efficace nel guidare tutto in avanti in modo ordinatissimo. Ma possiamo tenere in ordine le passioni, anche quando si animano nell’orrido? La concertazione non si addentra nei misteri e nelle contraddizioni della coscienza specie nelle parti sinfoniche, presentate in modo prevalentemente ordinario. Qualche respiro in più in “Vissi d’arte” – peraltro con la Netrebko – ci avrebbe potuto far sognare. Pazienza.
Pur muovendoci fra i piani alti delle vocalità, resta tuttavia difficile essere veramente convinti che il terzetto vocale che domina il cast sia l’ideale per questa partitura. Anna Netrebko entra nel personaggio come sempre con la classe della grande artista, forse meno pucciniana di quello che potremmo pensare, per la tensione drammatica che dosa in modo capillare lasciandoci pensare più all’Ottocento che al fin de siècle. Eppure, come sa tenere l’intensità della concentrazione da capo a fine nella celebre “Vissi d’arte” mai sopra le righe, anzi, mostrandocene tutta la fragilità e delicatezza, conquistando un minuto di applausi a scena aperta, e come sa essere saldamente presente e unica anche nelle parti di collegamento meno in rilievo, come sa chiudere bene ogni frase. E in “avanti lui tremava tutta Roma” si rivela inflessibile, lapidaria. Resta una certezza e un fiume di musica in piena.
Lo slancio lirico e drammatico di Francesco Meli addolcisce sempre certi toni eroici oramai di cattivo gusto e decisamente fuori moda per Cavaradossi (l’incipit di “Recondita armonia” non è l’Esultate di Otello, come amano fare certi tenori), riportando sempre la linea vocale ad atteggiamenti poetici, anche se secondo una precisione che non enfatizza la recitazione (ad esempio in “E lucean le stelle”). Oggi anche Meli è una certezza, ma lo abbiamo apprezzato di più in Verdi, meno esposto ad abbandoni che non possiamo non desiderare in questo repertorio.
Finalmente un cast dove comunque la pronuncia è una garanzia: Luca Salsi, piuttosto presente sulle scene negli ultimi mesi (prima di Tosca era a Venezia in Don Carlo di Verdi), cura sempre ottimamente testo e fraseggio, ma il suo Scarpia conserva troppi elementi di nobiltà, meno minaccioso, oscuro e terrifico nella sua incarnazione del male.
Lo sforzo registico dell’allestimento curato da Davide Livermore agita la scena alla ricerca di più piani prospettici, sovrapposti, complanari, alternanti, dove le tele di Cavaradossi sono virtuali, l’entrata di Scarpia in controluce fa il suo effetto e la grande processione di prelati del Te Deum diventa essa stessa scenografia. Con ampio uso di tecnologie si creano più livelli spaziali dove le luci contribuiscono a definirne l’estensione, anche in altezza, fra tinte prevalentemente scure di ambienti chiusi e ombrosi, ma mostrarci Cavaradossi in corso di tortura poco aggiunge mentre Tosca e Scarpia rimangono costretti a cantare sopraelevati al piano superiore. Se il grigiore del finale del secondo atto compenetra la musica, dopo che si è insistito sulla morte e sofferenza di Scarpia su cui Tosca si scatena con veemenza, appenderla nel vuoto approfittando del “vecchio” finale più lungo, come per fissarne il fotogramma del suicidio, è una soluzione che perde di efficacia in mezzo a luci fantascientifiche.
Tornando quindi alla “prima” versione, ripensare la musica nella sua vitalità e non nella sua immutabilità aiuta ancora di più a comprenderla, e a capire i nostri limiti nel recepirla. Per dirla con Parker «invece di celebrare senza sosta l’opera d’arte definitiva, quasi fosse un rito religioso, invece di ascoltarla all’infinito nel suo presunto stato “perfetto”, possiamo usare queste diverse varianti per aprire nuove prospettive sull’opera, riconsiderando quale effetto e quale rilevanza abbia avuto fra i contemporanei». Resta tuttavia una riflessione: insistere su certe operazioni, che, appunto, potrebbero pure rivelarsi “speciose”, apre anche la porta a una certa “perdita del controllo” a una non del tutto giustificabile “libertà d’azione” dell’interprete come dell’ascoltatore, su quanto invece già stabilito ormai in modo univoco dall’autore, e a una sorta di “perdita del centro”, su cui solo il compositore ha l’autorità di decidere. Più che buttarsi in sperimentazioni editoriali, la libertà dell’interprete dovrebbe ancorarsi prevalentemente ad altri parametri e prospettive entro cui muoversi, ma dove, ahimè, non tutti sanno addentrarsi.
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