Milano
Riposare, attendere, sperare
Singolare l’invito che il vescovo di Milano, mons. Delpini, ha destinato alla città di Milano nel discorso di sant’Ambrogio del 7 dicembre: lasciate riposare la terra e riposatevi anche voi. E’ la cifra della “stanchezza” il mirino che ha scelto per traguardare i riflessi del tempo di policrisi che viviamo in questa stagione di “passioni tristi”. Possiamo concordare credo tutti sul fatto che viviamo una complessità che ci inchioda all’impotenza, alla vanità dello sforzo di cambiare, allo smarrimento del filo della speranza. Semmai paiono inadeguati tanti elogi al discorso da parte di politici e intellettuali che avrebbero dovuto farsi interrogare in maniera più profonda dai rigorosi moniti di mons. Delpini. E invece usano persino i suoi argomenti pur di sfuggire al dovere di cambiare rotta e assumere finalmente una dedizione più responsabile allo sviluppo del bene comune.
Repubblica ha raccontato: in prima fila il sindaco Beppe Sala è uscito dalla Basilica di Sant’Ambrogio col sorriso: «Scherzando, quando ho reso omaggio all’arcivescovo, gli ho detto che questo sarebbe potuto diventare il mio discorso preferito, quasi quanto quello del 2018».
Le invettive del vescovo e l’elenco dei mali è articolato. Ma non è un alibi alla fuga dalla responsabilità.
«Lasciar riposare la terra non significa scegliere di assentarsi dalla storia o immaginare un periodo di semplice inerzia. Al contrario, si tratta di un esercizio fortemente attivo, chiede di raccogliere tutte le energie per evitare di continuare a fare quello che si è sempre fatto e riuscire a sospendere le abituali azioni per ascoltare e cogliere il grido di aiuto che si eleva dalla terra»
A me è parso che il punto radicale e ultimo sia la descrizione Mons. Delpini fa della stanchezza di senso: «La gente non è stanca della vita, perché la vita è un dono di Dio che continua a essere motivo di stupore e di gratitudine. La gente è stanca di una vita senza senso, che è interpretata come un ineluttabile andare verso la morte. È stanca di una previsione di futuro che non lascia speranza. È stanca di una vita appiattita sulla terra, tra le cose ridotte a oggetti, nei rapporti ridotti a esperimenti precari. È stanca perché è stata derubata dell’“oltre” che dà senso al presente, sostanza al desiderio, significato al futuro».
I nostri tempi di crisi possono trovare confronto con lo sguardo disincantato della vita e insieme con l’ascolto di artisti, poeti e scrittori.
Nel suo romanzo “Una manciata di more”, Ignazio Silone immagina in un dialogo la prefigurazione della speranza come perseveranza dell’attesa.
«Comincio a perdere la pazienza» disse Rocco a un tratto. «Mi trovo in una specie di vicolo cieco. Non posso più andare avanti e non voglio assolutamente tornare indietro.» «Non devi perdere la pazienza» l’ammoni Lazzaro «Vedrai, uscirai dal vicolo cieco senza essere costretto a tornare indietro.» […] «Come?» domandò Rocco. «Devo battere la testa contro il muro?» «No, non devi affatto battere la testa contro il muro» rispose Lazzaro. «Non devi perdere la pazienza. […] Può accadere che una sera, quando t’addormenti il muro è lì, compatto grigio insormontabile come ora. Tu non sai come andare avanti e ti rifiuti a tornare indietro. La mattina ti svegli e ti trovi al di là del muro. Oppure scopri che nel muro c’è una breccia che ti permette d’uscire dal vicolo chiuso e di ritrovarti all’aria aperta.» «Chi può farla?» domandò Rocco. «Può farsi da sé?» «Non è importante saperlo, a me sembra» disse Lazzaro, «Non è importante dargli un nome, a me sembra. Hai proprio bisogno di dargli un nome?».
Siamo in ricerca affannata e talora depressa di un senso. Nessun alibi alla fuga ci è concesso. Possiamo considerare riposo e attesa come sinonimi?
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