Milano

Renzi, se le diamo un soldino a testa ci trova un candidato di sinistra?

1 Dicembre 2015

Diversi anni fa mi ritrovai con Giuliano Pisapia in un dibattito televisivo. Credo fosse Antenna Tre. C’erano altri politici, ricordo Ignazio La Russa, e lo scrivente impropriamente conduceva. A un certo punto, con il sorriso ma anche con convinzione, mi avvicinai al sindaco di Milano (in quel momento era semplicemente parlamentare “indipendente” in Rifondazione) e pronunciai la fatidica frase, che oggi sottoscriverei: «Se questo è un comunista», aggiungendo che veniva davvero difficile pensarlo trinariciuto soprattutto per la sua condizione di borghese illuminato. Lui si imbarazzò un poco, ma tenne orgogliosamente il punto, spiegando le ragioni di una sintesi politica e personale che poteva apparire fuori fuoco.

A distanza di molto tempo, abbiamo compreso nitidamente che quella suggestiva “condizione” politica è stato esattamente lo strumento più incisivo per convincere i milanesi a cambiare passo. L’unione del sociale con il borghese, la distanza tra due mondi apparentemente incolmabile, il professionista celebrato con studio e clienti importanti (uno tra tutti, Carlo De Benedetti) che non aveva mai smesso di considerare gli ultimi, crasi di sentimenti diversi elevata a sistema. Quella condizione complessiva poneva decisamente sullo sfondo la sua radice comunista, sino a renderla quasi ininfluente e persino tranquillizzante per quella larga parte di Milano che non avrebbe mai votato per un vecchio funzionario di partito, che a quella storia aveva dedicato i suoi studi e le sue energie. Paradossalmente, Stefano Boeri pareva molto più integrato di Pisapia, nonostante un mestiere solido sulle spalle fuori dalla politica. Ma la differenza la fece la “percezione” politica dei milanesi, che videro l’architetto molto più integrato nel Pd di quanto l’avvocato fosse in Rifondazione (Pisapia non avvertì nemmeno Vendola della sua candidatura a sindaco di Milano, che lo apprese dalle agenzie, questa è storia).

Quella lectio magistralis avrebbe dovuto indicare al Partito Democratico la futura strada maestra. Con due stelle polari: forte riconoscibilità politica da una parte ma dall’altra, allo stesso tempo, la percezione di una luminosa distanza dalle pastoie di partito. E in che modo? Attraverso l’identificazione sociale, attraverso l’affermazione professionale in tutt’altro campo che la politica. Quindi nessun corridoio da funzionariato spinto, nessuna carriera “interna”. L’avere un mestiere, come si sarebbe detto in altri tempi, oggi è fondamentale, è la rassicurazione per i cittadini che quel politico non dovrà dipendere dal partito, che potrà anche dire dei no. E che no. Per questo l’entrata e l’uscita di Giuliano Pisapia dal ruolo di sindaco hanno una loro intrinseca forza.

È per questi motivi, ormai ce lo possiamo dire, che Beppe Sala piace. Perché ha un mestiere chiaro e definito, è un manager apprezzato, viene dal successo dell’Expo, è molto ricercato. Solo che ha un semplice difetto, almeno agli occhi di crede ancora in una certa politica: Beppe Sala non è di sinistra. Questo dato fondamentale porta con sé delle ovvie conseguenze, che soltanto qualche sprovveduto potrebbe considerare inaspettate. La prima è che Beppe Sala non vuole fare le primarie, e poi perché, non avendo una sola goccia di sangue “democratico” nel suo dna. La seconda, conseguenza della prima, è che tutto un mondo che invece ci crede è in fermento. Questo megapasticcio ha naturalmente anche un suo bel responsabile nella persona del presidente del Consiglio, il quale ha scelto Sala come suo cavallino per Milano, senza però il coraggio politico di una investitura ufficiale.

A questo punto, sullo sfondo, molto sullo sfondo, ci sarebbero anche gli interessi dei cittadini milanesi, i quali, legittimamente, potrebbero porre la seguente domanda: è una richiesta inopportuna, financo arrogante, quella di pretendere un candidato di sinistra? O almeno che si dica tale, attraverso lo strumento controverso delle primarie? O bisogna tassarsi tutti, un soldino a testa da mandare a Roma al segretario, per aiutarlo a pagare una società di cacciatori di qualcosa che possano finalmente scovare un candidato degno e orgoglioso della sua appartenenza politica?

Del resto, l’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria del Pd doveva a servire esattamente a questo, a ricreare l’effetto Pisapia in tante altre città, a moltiplicarne il meccanismo virtuoso, a trovare persone dai mestieri acclarati, conosciuti e apprezzati nelle loro città, evidentemente dai sentimenti democratici, e appassionati della cosa pubblica, in modo da poterli investire di una missione così alta e faticosa, e così convincerli a mollare il certo per l’incertissimo. Ecco, detto tutto questo, Renzi a Milano riesce a puntare su uno non di sinistra, a cui della sinistra non frega nulla e tanto meno delle primarie. Ok, benissimo. Ma allora lo dobbiamo difendere questo benedetto Sala da tutti quelli che si pongono in posizione dubbiosa, che sentono l’appartenenza politica come elemento indispensabile, in primis tutti quelli del Pd che credono fermamente nello strumento primarie. Si doveva fare questa battaglia, toccava al segretario. E invece nulla, ogni tanto Renzi balbetta qualcosa, dice qualche mezza frase, ammicca, insomma una continua “masturbatio grillorum“ che ha portato la città dell’Expo, produttiva e brillante, a sembrare un avamposto del parastato.

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