Milano

Referendum: il modo in cui Maroni sfugge a un giudizio critico del suo mandato

10 Ottobre 2017

Un carteggio serrato sul Foglio tra il 1 e il 2 Ottobre tra la consigliera regionale di Patto Civico l’avvocato Daniela Mainini ( nella foto di copertina)e il Prof. Stefano Bruno Galli,(nella foto qui sopra) capogruppo della Lista Maroni in Regione Lombardia. Tema: il referendum del prossimo 22 Ottobre.

L’Avvocato il primo di Ottobre aveva così scritto:

E’noto che gli inviti ad “andare al mare” in prossimità ai referendum, ancorché si voti sul nulla, non portino molta fortuna a chi li fa. Quindi vorrei limitarmi a dimostrare come solo l’idea di una “Lombardia fai da te” che ha come obiettivo dichiarato il “livello di autonomia del Friuli-Venezia Giulia” sia idea vecchia e superata da fine anni ’90 quando all’indomani della caduta del Muro di Berlino si teorizzò la “fine della storia”. Era in quel contesto che nasceva e si sviluppava l’idea dell’Europa delle regioni, con la prospettiva del progressivo ridimensionamento degli stati nazionali mentre si realizzava l’indiscriminato allargamento dell’Unione europea ipotizzando appunto un mondo pacifico e con sicura crescita economica senza problemi di reperimento delle risorse. Piaccia o meno, in un contesto di globalizzazione contrastata (rectius bombardata) quale quello attuale, dove crescono contrasti economici e terrorismo islamico, non può che essere il primato degli stati a prevalere e non certo l’Europa delle regioni.

 

Che da parte di Maroni si tratti di mera operazione elettorale è fin troppo evidente: lo stesso aveva indetto la consultazione referendaria più di due anni fa rinviandola alla data che più gli facesse comodo senza parlare di contenuti e non esitando oggi a spendere cinquanta milioni di euro dei cittadini lombardi per un referendum inutile. L’obiettivo dichiarato da parte di Maroni sulla base della vittoria del Sì – e che sarà al centro della campagna per il nuovo Consiglio regionale – è quello di “uno statuto speciale a Lombardia e Veneto” che sanzioni “autonomia politica, amministrativa, fiscale” che in concreto – come è stato chiarito in questi giorni da parte della presidenza della regione – significa il poter esercitare sulla base di un residuo fiscale di 56 miliardi di euro “competenza esclusiva della giustizia di pace, della tutela ambientale e della tutela della cultura e della gestione dell’istruzione, oltre ad altre competenze concorrenti come i rapporti internazionali, il commercio estero, la tutela della sicurezza sul lavoro, la protezione civile, la tutela della salute, il governo del territorio”. Si tratta di una deriva da contrastare non solo per il numero e i titoli di delega; praticare il regionalismo di questo tipo significa la sicura retrocessione dell’Italia in campo europeo. Con questo “regionalismo differenziato” abbiamo uno stato senza spina dorsale, un’Italia incapace di decidere, in balìa di frantumazione e diritti di veto. Tale “regionalismo differenziato” è un chiaro ostacolo alla modernizzazione e alla competitività dell’Italia in campo internazionale e in particolare in Europa.

Lo “statuto speciale” posto come modello – dei friulani, dei trentini e dei valdostani – non è e non può essere il nostro orizzonte e traguardo. La Grande Milano e la Lombardia non sono un’etnia di frontiera, una minoranza linguistica con radici: sono la locomotiva economica, sociale e culturale del paese.

 

Sin dal referendum va quindi contestata l’impostazione leghista in modo chiaro in quanto sostiene una prospettiva legata a tesi ormai superate tracciando un ruolo anacronistico della Lombardia in termini di separatezza e non di ruolo guida nazionale. L’Europa delle regioni di Maroni è ferma all’idea dei “Quattro motori d’Europa” di fine anni 80, dell’alleanza della Lombardia con Rodano, Catalogna e Baden. Oggi Milano deve avere come interlocutori non più Lione, Barcellona e Stoccarda, ma Parigi, Madrid e Berlino. Quanto agli altri Sì, i cd “Sì diversi” di buona parte del Pd e dei Cinque stelle, poggiano sull’evidente volontà di svuotare politicamente la probabile vittoria del Sì, ma quanto ai primi per le materie indicate di ambiente e ricerca scientifica, in contraddizione con quanto sostenuto al referendum costituzionale del 4 Dicembre, dovrebbe rispondersi che l’obiettivo oggi sarebbe semmai quello di dar vita ad una Agenzia nazionale (dopo la Svizzera anche la Grecia ha costituito l’Agenzia ricevendo 180 milioni di euro dalla Bce). Quanto ai pentastellati, la loro impostazione rispecchia rinuncia e incapacità di contestare l’impostazione leghista.

 

Insistere nel proporre formule e soluzioni da inizio anni ’90, epoca di disarmo, in epoca di pieno riarmo europeo e mondiale appare superato oltreché suicida. Meglio nuotare in altre acque, anche in una domenica d’autunno.

Questo la risposta del prof. Galli

 

Parole in libertà, l’articolo di Daniela Mainini sul referendum per l’autonomia della Lombardia apparso su questa pagina una settimana fa. A essere fuori dalla storia non è Roberto Maroni, ma l’approccio interpretativo sfilacciato e approssimativo adottato da Mainini. Non ha senso tirare in ballo Francis Fukuyama e la fine della storia, teoria che dev’essere inserita nel vasto dibattito declinista sulla fine del ciclo storico della modernità politica in occidente e la conseguente eclissi della più grande invenzione della modernità, cioè la statualità, sostituita dalle istituzioni sovranazionali. Ma quando queste si configurano come un super-Stato e ne replicano su più larga scala le aporie organizzative e funzionali, trasformandosi in realtà burocratiche e tecnocratiche, il fallimento è sicuro. Per ciò questa Unione europea è un sogno distrutto. Non è in quella circostanza dei primi anni Novanta che nacque l’idea di Europa dei popoli. Sin dall’immediato secondo Dopoguerra vi fu una polifonia di voci favorevoli alla costruzione di un’Europa dal basso, dalle comunità e dai territori, archiviando gli Stati nazionali. Basta leggere qualche pagina di Denis de Rougemont. Tanto è vero che, per rigenerarsi, l’Unione europea sta ragionando da almeno un decennio sulle aggregazioni geo-economiche territoriali. Sono le strategie macroregionali. E la Lombardia di Maroni è elemento trainante della strategia macroregionale alpina – altrimenti nota come Eusalp – costruita sulle peculiarità della catena montuosa, una cerniera che unisce le comunità, per individuare politiche pubbliche coordinate e organiche fra 46 regioni, appartenenti a 7 stati.

 

Anche – ma non solo – per la partita di Eusalp, la Lombardia ha bisogno di maggiore autonomia. E se la merita, come segnalano tutti gli indicatori, per effetto della sua virtuosità e del suo rendimento istituzionale. Come può competere, infatti, con regioni che – si pensi ai cantoni svizzeri o alle regioni austriache – hanno dei margini di maggiore autonomia in relazione ai rispettivi stati? La Costituzione repubblicana offre l’opportunità alle regioni a statuto ordinario in pareggio di bilancio di aprire una trattativa e negoziare con il governo una più ampia autonomia. Nel 2001, l’istituto del regionalismo differenziato – ispirato al federo-regionalismo spagnolo – è stato costituzionalizzato per assegnare a ogni regione a statuto ordinario un’autonomia coerente con la propria capacità economica, produttiva, fiscale. In una parola, con la sua virtuosità.

Dal 1970 in qua, le regioni a statuto ordinario – virtuose o no – sono state trattate allo stesso modo dallo stato centrale. Il regionalismo ordinario dell’uniformità ha prodotto una realtà tutt’altro che omogenea. Lo certifica la graduatoria del residuo fiscale, che esplicita un sistema di redistribuzione territoriale delle risorse inefficace e iniquo. La sottrazione di risorse ai territori più avanzati, che le utilizzano con criteri di alta redditività ed elevata produttività, per destinarle a quelli meno virtuosi, significa incidere sull’andamento dell’economia nazionale, riducendone il potenziale di crescita. Là dove funziona, il regionalismo si configura come una leva per lo sviluppo del paese e della democrazia.

 

In sedici anni, tuttavia, nessuna regione – la Toscana ci ha provato nel 2003, il Piemonte nel 2006 e 2008, la Lombardia e il Veneto nel 2007 – è mai riuscita a rendere operativo il regionalismo differenziato. Il referendum consultivo collocato a monte della trattativa con il governo è stato concepito allo scopo di far funzionare la Costituzione, di arrivare in fondo al percorso, legittimando politicamente il peso negoziale della regione, ricorrendo al consenso dei cittadini. E’ un atto di responsabilità istituzionale e di lealtà costituzionale. Non è inutile, come sostengono i detrattori. E’ necessario. Ai cittadini si chiede il mandato a trattare. Nel quesito non sono indicate le materie oggetto della trattativa perché sono iscritte nella Costituzione: si tratta di 4 competenze esclusive dello stato e tutte le competenze concorrenti, per complessive 26 materie. Non ha senso limitare la negoziazione delle competenze, come vorrebbe qualcuno. Un residuo fiscale di 56 miliardi di euro certifica un rapporto vessatorio fra lo Stato centrale e la regione, che non ha pari in Europa e nel mondo. Per ciò la Lombardia deve trattare tutte le materie. E conquistare l’autonomia che si merita.

A stretto giro è arrivata, via video questa volta, la replica al Prof. da parte dell’avvocato Mainini

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