Beni culturali

Quello che manca a Milano

23 Luglio 2015

D’accordo, Milano sta vivendo la sua primavera. Una primavera fatta di luoghi che riprendono vita o vengono riqualificati (Darsena, piazza XIV maggio, piazza Sant’Ambrogio), di car, scooter e bike sharing, di piste ciclabili che finalmente iniziano ad avere un senso e non ti abbandonano più al primo incrocio, di nuovi spazi per la cultura (il Mudec o la Fondazione Prada), di sharing economy, co-working e start up. Che sia tutto merito della giunta Pisapia, che sia l’effetto Expo, che sia il rimbalzo dopo “due decenni passati a elaborare il lutto di Tangentopoli”, come suggerito da Alessandro Gilioli, o che sia, più probabilmente, un mix di questo e altro, la cosa certa è che i milanesi hanno ricominciato a scoprire un certo orgoglio nei confronti della propria città. Un orgoglio per lunghissimo tempo dimenticato.

Eppure, in tutto questo, c’è un grande assente. O meglio, una grande vittima (ci torneremo più avanti): la vita sociale e notturna che esula dalle discoteche e dai grandi eventi e concertoni dei soliti nomi. La vita sociale e notturna che può richiamare quel mondo “alternativo” o “underground” (definizioni sicuramente limitanti) che non si ritrovano certo in ambienti come l’Old Fashion o l’Estathé Market Sound. Quel mondo che per esprimersi ha bisogno di luoghi all’aria aperta capaci di richiamare determinate nicchie, ha bisogno di centri sociali, di circoli Arci pronti a sperimentare, di spazi per respirare e dare sfogo alla propria creatività.

Si potrebbe anche liquidare tutto con un’alzata di spalle. D’altra parte, se a Milano ormai i centri sociali si contano sulle dita di una mano, a chi interessa? In verità, il disinteresse nei confronti degli spazi di socialità a basso costo e “altri” ha una grave conseguenza: soffoca le energie alternative pronte a sprigionarsi non appena gli si regala un minimo di spazio e lascia campo aperto ai mega eventi e alle mega discoteche, dove la creatività e l’innovazione non la si vede neanche con il binocolo e dove spesso e volentieri trionfa la più bieca conformazione dei gusti e della “cultura” (tra molte virgolette). Per la serie: “Ma di che vi lamentate che c’è J Ax al Carroponte e i Kolors all’Estathè?”.

Se i giovani a Milano hanno la sola alternativa tra andare in discoteca e recarsi ai grandi concerti, come si può sperare che sorga una generazione in grado di innovare il linguaggio musicale? E come si può sperare che attorno alla musica prendano vita gruppi in grado di scoprire e condividere saperi altri, diversi, nuovi, che creino una vera rottura rispetto al passato? Milano sta già pagando un caro prezzo, da questo punto di vista, da quando i centri sociali sono stati pesantemente mutilati e da quando il Leoncavallo è cosa ben diversa da quello che era alle origini. La stretta continua e costante nei confronti di chiunque provi a creare uno spazio diverso non fa che continuare a soffocare energie, con il risultato che la cultura giovanile e “contro” si è ridotta a una riserva indiana incapace di emergere e contribuire a cambiare il panorama.

Si (stra)parla spesso di come Milano sia l’unica città italiana davvero europea. Basterebbe fare un salto a Berlino per rendersi conto di come, nella vera Europa, sia possibile dare vita a luoghi e spazi che permettano alla cultura giovanile di emergere e portare così, almeno potenzialmente, a una rivoluzione culturale di cui, secondo me, c’è davvero un grande bisogno. Chiunque sia passato dal quartiere di Friedrichshain è probabilmente incappato nel Raw Temple. Un ex deposito ferroviario della Berlino Est, uno spazio enorme, abbandonato dopo la riunificazione, che ha trovato nuova vita come tempio della cultura alternativa berlinese. Discoteche dedicate esclusivamente ai generi “urban”, una galleria d’arte che si occupa solo di street art, spazi per concerti jazz e blues, uno skate park, una palestra per arrampicare e altro ancora. Tutto inevitabilmente decorato dai migliori writer della scena di Berlino.

Qui (anche se le difficoltà non mancano) si respira la voglia di sperimentare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. E tutto in un unico spazio, offrendo così la possibilità di creare una condivisione dei saperi e delle esperienze. A Milano, invece, cosa succede a chi prova, più o meno in piccolo, a replicare delle realtà del genere? Dei centri sociali abbiamo già detto. Si potrebbe allora parlare dello Spazio Oca, un esperimento riuscitissimo durato giusto il tempo di illuderci che qualcosa di nuovo potesse sorgere anche a Milano, salvo poi chiudere i battenti per ragioni tutte politiche (e che nel 2016 dovrebbe rinascere con un nuovo nome, ma intanto quanto tempo si è perso?). Si potrebbe parlare delle feste alla montagnetta di San Siro, che avevano creato un nuovo luogo di ritrovo, a basso costo e in cui dj e musicisti emergenti o alternativi trovavano una vetrina importante, ma che l’anno scorso sono state stroncate dalle proteste dei comitati di residenti e dalle campagne stampa de Il Giornale – e che quest’anno sono ripartite, ma per un lasso di tempo ridottissimo e chiudendo tutto all’una di notte. O si potrebbe parlare del clamoroso flop di Open Custom, il nuovo spazio creato all’ex Scalo Farini, all’interno di un enorme parco completamente in disuso e in mezzo al nulla e sorto utilizzando dei container abbandonati, che dopo solo una settimana si è trovato, ancora una volta, vittima delle proteste dei soliti comitati di residenti, con il risultato che oggi si trova costretto a ridicoli orari di chiusura (nei week end, la musica si spegne alle 23.30).

È così che la nuova Milano, quella della “primavera”, tratta chi prova a sperimentare qualcosa di nuovo, a dare vita a spazi che esulino dalle solite logiche delle discoteche fighette del centro o dei grandi eventi alla periferia della periferia? Se si tratta in questo modo chi prova a creare qualcosa di diverso, come si può sperare che sorga una generazione in grado di distinguersi e di non cedere alla conformazione dei gusti e dei comportamenti cui stiamo assistendo? Se la scena musicale alternativa milanese passa il tempo a rimpiangere i decenni passati, non sarà anche perché chi dovrebbe (e vorrebbe) proseguire il lavoro di sperimentazione non ha più i luoghi per farlo? Non si può sperare che il solo Macao si sobbarchi un peso del genere sulle spalle, così come non si può sperare che alcune micro-realtà – riserve indiane estremamente di nicchia, piccolissime, a cui manca la possibilità, e a volte anche la volontà di aprirsi alla città – siano in grado di dare vita a quel network di esperienze che necessita di alcuni grandi punti di riferimento.

Una città non può davvero considerarsi all’avanguardia o europea quando il massimo dell’intrattenimento musicale in grado di offrire è rappresentato da tormentoni estivi o concerti di idoli adolescenziali o vecchie glorie. E ancor meno si può accettare che tutto questo avvenga a causa della mancanza di coraggio e di visione di una classe politica, che troppo spesso sembra essere sorda alle esigenze culturali delle generazioni più giovani; incapace di comunicare e di capire, e soprattutto vittima del potere spropositato dei comitati di residenti, che sembrano avere diritto di vita e di morte su tutto ciò che alza un po’ il volume della città, tanto più se all’aria aperta. Il prezzo da pagare è quello di vedere energie che dovrebbero sprigionarsi represse davanti ai pub o, peggio, nei parchetti di zona se non addirittura direttamente chiusi in casa. Questo è quello che manca a Milano: un luogo, o più luoghi, dove le energie alternative e meno conformiste possano lasciarsi andare.

Si può pagare un prezzo del genere (anche) per accontentare comitati di residenti che sembrano a volte intraprendere battaglie incomprensibili, lottando contro musica che, oggettivamente, alle loro finestre arriva a malapena? Si può sacrificare la generazione a venire per lisciare il pelo all’elettorato più anziano? È tollerabile che in una città come Milano si blocchi tutto non appena il primo comitato di residenti di passaggio alza un dito?

@signorelli82

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