Milano
Quel brutto pasticcio del numero chiuso in Statale
Il “caso Statale” è sulle cronache di tutti i giornali. È oramai noto che il Tar ha bocciato l’introduzione del cosiddetto numero chiuso nei corsi della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università Statale di Milano. Come prevedibile, le reazioni sono state di segno opposto: i promotori del ricorso (Udu) hanno festeggiato assieme ad altre liste e ad esponenti della politica nazionale, prevalentemente di sinistra, mentre il Rettore della Statale, il Professor Vago, ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato. Soprattutto, come oramai di consueto capita, sono scoppiate le polemiche sul Tar del Lazio “che boccia” (tra gli altri, ne hanno scritto Aldo Grasso e Vittorio Feltri).
La questione è più complicata di così e no, stavolta non è tanto il Tar quello contro cui bisogna prendersela, quanto la belluina anarchia che regna nelle università italiane.
A leggere l’ordinanza (è un pronunciamento provvisorio d’urgenza, la vera e propria udienza si terrà a maggio 2018) la questione pare fondata. In sostanza si dice che non ci sono gli estremi di legge per inserire il numero programmato. Ma a ben vedere si nota che sarebbe stata necessaria una procedura formale che inspiegabilmente non è stata seguita: il Rettore e le varie autorità accademiche hanno di fatto inventato una loro via al numero chiuso.
Bisogna premettere che le norme che disciplinano l’accesso programmato e tutto ciò che ci sta intorno sono numerose e ricche di rinvii a leggi, decreti legge, decreti ministeriali, non rubricati, spesso modificati numerose volte e scritti nel solito linguaggio leguleico. Ora, entrando per un attimo nel tecnico, gli articoli di nostro interesse sono i numeri 1 e 2 della legge 264/1999. Si stabiliscono i corsi che possono essere ad accesso programmato: fra questi vi sono “corsi di nuova attivazione”, corsi delle professioni sanitarie, Architettura, ma anche corsi che “richiedono l’uso di laboratori ad alta specializzazione e alta tecnologia” (lettera a. dell’articolo 2), corsi che “prevedono l’obbligo di tirocinio” (lettera b) e corsi “individuati da decreti attuativi delle disposizioni di cui all’art. 17 co. 95 della legge 127/1997” (lettera c).
L’ordinanza del Tar si limita ad affermare che per i corsi triennali umanistici per i quali è stato previsto il numero chiuso non sono richiesti laboratori ad alta specializzazione e alta tecnologia (lettera a) nè rientrano nell’elenco dei corsi menzionati sopra, di conseguenza viene sospesa l’efficacia della delibera adottata dalla Statale. A voler approfondire, e questo il Tar non lo dice esplicitamente, la legge, con alcuni rinvii mal scritti e complicati, stabilisce anche che per mettere un numero programmato, salvi i casi esplicitamente menzionati, in tutte le altre ipotesi (la lettera c di cui si è detto sopra) bisogna passare dalla modifica del cosiddetto “ordinamento degli studi”, che è una procedura piuttosto lunga e si conclude con un decreto ministeriale di approvazione. Ora viene da chiedersi: questa procedura in Statale è stata seguita? E più in generale, che cosa succede negli altri corsi umanistici a numero programmato (di scienze politiche e giurisprudenza prevalentemente) presenti in tutta Italia?
Di modifiche agli ordinamenti didattici se ne producono in generale gran quantità: è una procedura standard, che in Statale viene istruita in commissione didattica e viene preceduta dalle delibere degli organi dipartimentali, ovvero quelli che prima della legge Gelmini erano i Consigli di Facoltà. Ed è qui che si è giocato uno scontro che ha contribuito a creare il caos: le delibere degli organi di Facoltà nel caso della Statale non ci sono state. Difatti, i cinque dipartimenti coinvolti (eccetto uno, quello di Lingue e letterature straniere) avevano votato contro l’introduzione del numero programmato. A quel punto gli organi superiori, Rettore in primis, hanno deciso di proseguire diritto, decretando la competenza di una delibera generica di introduzione del numero chiuso in capo al Senato Accademico (l’organo di governo per eccellenza delle Università pubbliche), sfruttando le ambiguità di norme oramai obsolete di un regolamento interno, il regolamento didattico d’Ateneo, che risale ancora al periodo pre-Gelmini.
Senonché le autorità accademiche paiono aver dimenticato la condizione, richiesta dalla legge, della modifica dell’ordinamento degli studi e del relativo decreto ministeriale di approvazione della modifica dei corsi interessati. Né, altrimenti, ci sarebbero stati i tempi tecnici per completare tutta la trafila burocratica, essendo la delibera del Senato Accademico del 23 maggio.
Il Ministro Fedeli e lo stesso Rettore hanno confermato nel fine settimana che ciò potrebbe riguardare altri corsi non solo della Statale, ma di diverse Università di tutta Italia.
Tuttavia, ci si chiede come una delibera del genere possa essere stata assunta senza verificarne la previa conformità alla legge e ai regolamenti interni, che peraltro dopo ben sette anni dalla legge Gelmini non sono comunque ancora stati aggiornati. Perché chi si occupa degli affari istituzionali e normativi non è intervenuto? Da quanto risulta, la discussione ha preso sin da subito una piega politica e non è stato allegato nessun parere legale, interno o esterno, sulla validità di un atto che già si sapeva contrastato, come di prassi si farebbe in grandi aziende (l’Università statale ha 60.000 studenti e un bilancio da oltre 900 milioni di euro).
Purtroppo ciò non è né strano né nuovo: prendendo sempre come esempio la Statale, in numerosi casi delibere che avevano contenuti sbagliati o non erano state assunte con le dovute maggioranze sono state annullate e rifatte. Per non parlare delle volte in cui si sono verificati conflitti di competenze fra vari organi: per ovviare a ciò, a Giurisprudenza, si è addirittura stabilita la prassi di far ratificare ogni delibera da tutti gli organi di Facoltà (che nella situazione post-Gelmini sono ben 5) prima che arrivino al Senato Accademico. Ma in tutto questo non è presente alcun responsabile della regolarità del procedimento, solo impiegati amministrativi di segreteria che non hanno né le mansioni contrattuali né le competenze per verificare la conformità a norme di legge e alla normativa interna.
L’incertezza che ora è seguita alla sospensione imposta dal Tar è un danno pesante per gli studenti e per la Statale intera, non solo d’immagine. Ciò mette plasticamente a nudo la totale deresponsabilizzazione e l’assenza di modelli organizzativi interni per adeguare il funzionamento di una macchina amministrativa enorme alla complessità del sistema. Non stupisce difatti la richiesta del Rettore di decreti legge ad-hoc per correggere le storture in via emergenziale, né il timore del Ministro Fedeli che ciò si ripercuota su altri corsi in tutta Italia. L’inadeguatezza dell’apparato amministrativo, che si accompagna spesso a quella delle stesse figure professionali, pare purtroppo una delle poche norme ben rispettate nel sistema universitario pubblico.
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