Milano
Primarie e sindaco di Milano: perché non aprirle alla destra?
Mettiamo che Pisapia dica no. Mettiamo che si renda indisponibile a una ricandidatura a sindaco di Milano. Motivi vari, fatti suoi in sostanza. Questo giornale, come sapete, sull’argomento qualcosa ha scritto con un certo anticipo su gazzette più celebrate. Mettiamo dunque che dica no (anche se non è detto). A quel punto, tutto va in carico al Partito Democratico, in termini di scelta, visione più o meno strategica, senso delle cose, orecchio aperto ai (e sui) cittadini. Giusto per ricordare: la scorsa volta, la volta di Pisapia, il Pd aveva scelto un altro cavallo. È abitudine del Pd scegliere spesso lo zoppo, nel senso del cavallo. È abitudine del Pd subire il candidato. Da questo punto di vista, il Partito Democratico non è affidabile, e se non è affidabile perché dovrebbe diventarlo proprio nella scelta del sindaco più importante d’Italia? Segnali in questo senso non ce ne sono, guardare il guazzabuglio campano per farsene un’idea.
Le primarie a Milano si devono fare. L’idea di indicare un solo candidato è fuori dal tempo, sarebbe dentro il nostro tempo se il livello rispondesse a logiche alte, in grado di soddisfare i cittadini, di rassicurarli sull’autorevolezza della personalità indicata, sul suo grado di autonomia, sul suo (vero) amore per una città difficile com’è Milano. Tanto per capirci: oggi l’indicazione di un Carlo Tognoli, miglior sindaco da quell’epoca (76-86) a oggi, non sarebbe possibile. Una scelta tutta interna ai partiti, quando la politica era considerata cosa alta, cosa pubblica. In quel caso, abilità ed esperienza politica facevano ancora punteggio, oggi sono un miraggio.
Il Partito Democratico intanto deve sciogliere il primo nodo: intende proporre/imporre solo suoi simpatici funzionari o si apre a qualche suggestione di segno diverso? Non è detto, non è affatto detto, che la società civile sia meglio di quella politica, ma nel dubbio tenere le zampe su sentimenti diversi salva la faccia e spesso rende le cose migliori. Sempre per tornare a quella volta di Pisapia: l’avvocato si candidò un certo pomeriggio, così a freddo, neppure anticipando le sue volontà a Nichi Vendola, all’epoca suo riferimento politico più prossimo. Chi scrive, sorpreso come tutti, gli telefonò per amicizia lo stesso pomeriggio, ricevendone l’impressione di un folle ma fermo visionario, lucidamente consapevole che lo stato di debolezza del Partito Democratico, in quel momento, poteva essere per paradosso il suo miglior alleato. Chi “sentiva” la politica, quell’impasto difficile, fatto di intuizioni ma anche di logica,comprese immediatamente la portata di quella candidatura. Non il Partito Democratico, com’era prevedibile, che infatti gli oppose Boeri, certamente una buona persona ma totalmente estraneo agli entusiasmi e ai desideri dei cittadini, che in quel momento chiedevano esattamente l’impresa, la sfida impossibile, persino contro la stessa politica. Pisapia stravinse su Boeri e poi sulla Moratti, votato anche dalla borghesia milanese alla quale, in fondo, apparteneva.
Mettiamo che Pisapia dica no, dunque. Vogliamo fare delle primarie ultradepressive tra Pierfrancesco Majorino, Emanuele Fiano e Maurizio Martina (non osiamo credere, infatti, che Renzi ne voglia candidare uno solo tout court)? Questo non solo non è pensabile, ma neppure risponderebbe a una logica polititica di profilo minimo. Se dall’altra parte i destri riescono a pensare a un candidato autorevole (lo so, sembra impossibile con Salvini leader del momento) la frittata è fatta, il funzionario Pd va sotto e Milano è persa. Certo, se uno dei nomi più accreditati è quello di Maurizio Lupi “che perderebbe anche contro il mio gatto” (cit. Berlusconi riferita ad Achille Serra quando anni fa aveva in testa di correre per Palazzo Marino), allora vince anche il primo piddino che passa. Ma se la destra dovesse avere uno scatto, pescando in modo sufficientemente intelligente, allora sarebbero dolori.
Un modo forse ci sarebbe per superare l’impasse. Un modo che presenta certamente dei rischi, ma che ha potenzialità notevoli. Aprire le primarie alla destra, liberarsi finalmente di quell’asfittica visione secondo cui “ci contiamo”, “è una giornata felice per la sinistra”, “le primarie sono un vero momento di democrazia” e potremmo andare avanti per altre venti righe di vuote espressioni. Le primarie del Pd sono un fallimento perché, appunto, sono “solo” le primarie del Pd. Per una città fondamentale come Milano, liberale e solidale, economicamente produttiva, questo schema non può valere, non può bastare. Proprio perché il sindaco di Milano è il sindaco di tutti i cittadini e, nella fase di post-Expo anche un po’ del mondo, il Pd si fa carico di sentimenti più larghi del semplice recinto di un partito. E dice ai cittadini milanesi: questa è la vostra giornata, siamo felici se verrete a votare i candidati del nostro partito, che a quel punto saranno un mix tra candidati unicamente a sfondo politico e candidati della società civile. E di quella lista, perché no, potranno far parte anche autocandidature, naturalmente se rispondono ai requisiti richiesti dal regolamento delle primarie.
Queste “nuove” primarie risponderebbero al senso alto di una città come Milano. E naturalmente abbatterebbero alla radice quelle sciocche paure di inquinamento del voto da parte della destra. Perché non chiedere a Matteo Renzi questo slancio?
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