Enti locali

Prima la casa o il lavoro?

29 Maggio 2024

Lo scorso 17 maggio al Politecnico di Milano è stato presentato il volume “Milano per Chi?” di Massimo Bricocoli e Marco Peverini (edizioni Lettera22).

Il libro è l‘esito di un programma di ricerca in materia di politiche della casa e di pianificazione urbanistica e contiene i dati e le elaborazioni prodotte da OCA – l’Osservatorio Casa Abbordabile di Milano Metropolitana.

Un assunto consolidato nella prassi internazionale indica che, per essere abbordabile, la spesa per l’abitazione non debba superare il 30% del reddito (Bramley)”.

L’abbordabilità della casa, vale a dire il rapporto fra prezzo degli alloggi e reddito, è sfavorevole soprattutto nelle aree urbane dove il costo delle case e degli affitti è più alto (e a Milano sappiamo che è molto alto).

Molte persone ormai lavorano per pagare l’affitto mentre per vivere devono fare affidamento su altre fonti di reddito, tipicamente i genitori o altre rendite. Le spese per la casa hanno un’incidenza sempre più elevata sui bilanci familiari  e rendono “disponibile” una quantità di stipendio troppo piccola.

In alcuni contesti urbani, dunque, la questione abitativa si dimostra  sempre più connessa alla questione lavorativa ed è  inevitabile, dunque, che la quantità sempre più scarsa di salario effettivamente disponibile finisca per incidere anche sul rapporto tra l’azienda e i suoi lavoratori e lavoratrici.

Sappiamo che le imprese  beneficiano della varietà e della scala degli assett di una città ricca di opportunità e servizi come Milano, ma al tempo stesso vediamo come esse subiscano un contesto che rende più precarie le condizioni economiche del proprio personale, con impatti significativi sulla capacità delle aziende di  reclutare nuove risorse e mantenerle in azienda.

Non possiamo non accorgerci che qualcosa di enorme stia accadendo, e in parte sia già accaduto, nel mercato del lavoro, specialmente nelle aree metropolitane.

Dobbiamo dirci che mentre un tempo l’accesso al lavoro, “l’essere assunto”, significava accedere alla possibilità di avere una casa, ora è vero il contrario: per poter accedere al lavoro bisogna prima avere la casa.

Tutto questo si traduce in una profonda mancanza di eguaglianza delle opportunità che produce l’espulsione dal tessuto cittadino dei soggetti meno protetti, perché privi di una famiglia di origine in grado si sostenere i primi anni di attività lavorativa.

E ciò, oltre a rappresentare una insopportabile ingiustizia sociale, priva il sistema produttivo di una parte potenziale di talenti che non riescono neppure ad arrivare alle fasi di selezione e, al contempo, incide sulla possibilità di arricchire le aziende con profili provenienti da contesti diversi.

Un esito paradossale in una fase nelle quali le aziende promuovono sempre più i concetti di Diversità, Equità, Inclusione (il citatissimo acronimo DE&I) alla ricerca di nuove modalità per attrarre e mantenere le risorse e migliorare la produttività.

Peraltro, la relazione con la disponibilità di un alloggio non è ancora sufficientemente indagata rispetto alla c.d. “worklife balance” che, secondo tutte le ricerche, supera ormai stabilmente la retribuzione tra i criteri di scelta del “place to work”. Quanto la richiesta di integrazione tra vita privata e lavorativa ha a che fare con la abbordabilità  della casa piuttosto che con altre dimensioni usualmente richiamate nel dibattito pubblico?

Questo stato delle cose ci interroga sul tipo di società che vogliamo essere ma, in taluni contesti lavorativi, ha a che fare con il tipo di società che siamo e che rischiamo di non essere più.

Pensiamo, ad esempio, alle persone che affrontano la prima esperienza lavorativa in una città diversa da quella di origine e sono ancora prive di reti sociali di sostegno. Persone che vengono da altri contesti territoriali per accedere ad attività lavorative con salari medio/bassi e che, di fatto, tengono in piedi i servizi pubblici delle città: tranvieri, macchinisti, operatori ecologici, insegnanti, dipendenti degli enti locali, assistenti sociali, ricercatori universitari, forze dell’ordine, ecc.

Già mettere sulla stessa riga professioni così diverse, un tempo considerate di classi sociali lontane, ci dice qualcosa sulle politiche salariali del nostro paese, altro aspetto del problema che coinvolge pienamente  anche  la  Pubblica Amministrazione, destinataria, peraltro, di una rappresentazione non felice che non ne favorisce l’attrattività.

In misura crescente, le aziende che impiegano quel tipo di lavoratori e lavoratrici, fanno fatica a reperire il personale proprio perché gli alti costi abitativi producono una selezione progressiva e spesso causano la rinuncia al trasferimento da parte di chi pure potrebbe contribuire al buon funzionamento delle città.

Fenomeni di questo tipo si sono già visti negli ultimi anni in altri contesti extraeuropei, come gli Stati Uniti ed in particolare la California con la fuga da città che negli ultimi 30 anni sono state considerate all’avanguardia sul fronte sociale, ecologico e dell’innovazione tecnologica.

In questa parte di Italia sembra si sia “smarrita la stessa strada”.

L’impossibilità di reperire personale per alcuni tipi di aziende di interesse pubblico può significare una progressiva diminuzione delle capacità produttive: meno corse dei tram, meno treni per il traposto locale, meno assistenti sociali, meno asa e oss negli ospedali. Nelle aziende private significa meno risorse umane, meno competenze, ambienti di lavoro meno “diversi”, minore competitività.

È, dunque, quanto mai necessario superare l’idea che le politiche abitative e quelle lavorative siano disgiunte. Al contrario, le une sostengono le altre e viceversa. E se è così, è necessario che il sistema produttivo e le istituzioni pubbliche trovino al più presto modalità e forme per integrare le rispettive strategie, per ridare equilibrio alle opportunità di chi è in cerca di futuro e tranquillità a chi il lavoro ce l’ha ma rischia di non poterselo più permettere.

 

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