Milano
Piccolo viaggio nel Lazzaretto da “La mia Milano” di Angelo Gaccione
Vi proponiamo una lettura dal volume: La mia Milano, Meravigli 2023, pagine 224, euro 17,00
A vederla ora, sovrastata dai palazzi moderni a dieci piani e più, in Largo Bellintani, con le macchine che vi parcheggiano davanti sul lato di via Lazzaro Palazzi e fra i rumori del traffico da quello che affaccia verso il viale Tunisia, si stenta a credere che questa minuscola chiesa di impianto seicentesco, sorgesse al centro del Lazzaretto di cui non è rimasto nulla, se non quel poco visibile in via San Gregorio. Fa impressione pensare che questa chiesa voluta dal cardinale Carlo Borromeo e realizzata fra il 1580 e il 1591, si trovasse all’interno di quel luogo di sofferenze e fosse protagonista della grave pestilenza del 1630, quella raccontata nel suo celebre libro dal Manzoni. La stampa di Marc’Antonio Dal Re ce la mostra posizionata al centro dell’enorme quadrato del Lazzaretto quattrocentesco racchiuso fra le sue belle mura in cotto e circondato da colonne. Si nota la sua forma ottagonale (un rimando chiarissimo all’ottavo giorno, quello della resurrezione del Cristo, del trionfo sulla morte, dell’eternità) con le arcate tutte aperte e visibile da ogni lato, affinché gli appestati potessero vederla dalle 228 celle e assistere alla celebrazione della messa. Non c’è altro, nell’incisione, attorno ad essa, e appare ancora più minuscola con tutto quello spazio vuoto. Oltre le mura si vede un’altra chiesa, forse la vicina San Gregorio, con una porzione di terreno cintato di pertinenza della stessa; poi a perdita d’occhio solo campi, a dimostrazione della natura agricola di un contesto che rimarrà tale fino alla metà dell’Ottocento.
Ai milanesi è nota col come di San Carlo al Lazzaretto (affettuosamente San Carlino, per le sue ridotte dimensioni) ed è stata progettata da Pellegrino Pellegrini: il Tibaldi, com’è universalmente conosciuto. Nel corso della sua lunga storia ha subìto rifacimenti e ristrutturazioni, ma non le sono state risparmiati anche degrado, offese, abbandono. Nel Settecento se ne voleva addirittura fare una “bottiglieria”, ma per fortuna l’Ospedale Maggiore che ne aveva l’amministrazione si oppose. All’epoca della Repubblica Cisalpina i francesi occuparono il Lazzaretto e fecero della chiesa un Altare della Patria, deprivandola dalla sua funzione religiosa. A metterci le mani fu chiamato il Piermarini; al posto dell’altare fu collocata la Statua della Libertà e sulla cupola un tripode da cui si levavano i fumi dell’incenso. Qualche anno dopo arrivarono russi e austriaci e per la chiesa andò ancora peggio. Per quasi tutto l’Ottocento fu adibita a stalla, a fienile, fino a quando tutta l’area occupata dal Lazzaretto non fu acquistata nel 1881 dal Banco di Credito Italiano, per una delle più succulente speculazioni immobiliari. Per sua fortuna (della chiesa, intendo), le fu risparmiata la sorte del Lazzaretto; il compratore si era dovuto impegnare a non abbatterla visto il valore di monumento storico. La vicina parrocchia di Santa Francesca Romana non si fidò e mettendo assieme la generosità dei donatori, l’aiuto dell’arcivescovo, di quello di alcuni anonimi mecenati e dell’impegno, a titolo gratuito, dell’ingegner Luigi Robecchi per la ristrutturazione, il parroco Giovanni Mazzoleni riuscì ad acquistarla. È grazie a tale sforzo che è stato possibile salvare questo simbolo del Lazzaretto, della Milano della peste. Non ha una buona acustica, ed i concerti che ho avuto occasione di ascoltarvi non mi hanno soddisfatto del tutto: ma come lamentarsi? È già un miracolo se la possediamo, ed a me fa tenerezza. Sembra un po’ stordita per quanto le è stato costruito intorno, e deve anche difendersi dai tangheri che non si fanno scrupoli. Non sono pochi i luoghi dove sorgono monumenti storici civili e religiosi, trasformati in bivacchi.
Per capire che cos’era il Lazzaretto e poterne immaginare le proporzioni, le stampe dell’epoca che ci sono state lasciate in memoria non bastano. La veduta fotografica del 1882 che compare su diverse pubblicazioni, realizzata dall’alto di uno dei caselli daziari di Porta Venezia, è poca cosa. L’enorme quadrilatero aveva il perimetro di un chilometro e mezzo e occupava l’area compresa tra Corso Buenos Aires, il viale Vittorio Veneto e le attuali vie san Gregorio e Lazzaretto. Leggendo il Manzoni, mi sono sempre immaginato il via vai di monatti con le carrette cariche di contagiati, i lamenti, le grida, le finestre serrate al loro passaggio, il suono dei campanelli, i banditori, l’oscurità. Del luogo preciso però non riuscivo a farmene un’idea; ignoravo come fosse fatto il Lazzaretto e in particolare dove si trovasse questo punto della città a quel tempo. Era fin troppo naturale, io leggevo Manzoni da una distanza geografica abissale, ma mi stupii non poco quando arrivato a Milano per i miei studi, mi accorsi che in pochissimi sapevano identificare i contorni con precisione o ne avevano una conoscenza approfondita. È proprio vero: la cancellazione di ciò che è esistito in un luogo, finisce per cancellare il luogo stesso. La trasformazione trasforma a tal punto da eliminare ogni memoria. Forse è per questo che gli scrittori sono necessari. Io inviterei ad essere molto più indulgenti di quanto si è stati, anche nei confronti dei pittori di paesaggio, dei vedutisti e dei pittori della natura. Un’analisi accurata del celebre dipinto del pittore inglese John Constable: Litorale vicino a Brighton, ha di recente svelato notizie preziosissime ai vulcanologi. Non riuscivano a spiegarsi dove l’artista avesse preso quei colori presenti sulla tela, fino a quando non sono risaliti ad una rovinosa eruzione che dall’Asia aveva sparso i suoi fumi e le sue polveri fino all’Inghilterra.
Nato con lo scopo di isolare gli ammalati e proteggere le città in caso di epidemie, il Lazzaretto nella Venezia del Quattrocento veniva designato con il termine Nazareto. Prendeva il suo nome dall’isola di Santa Maria di Nazareth dove era stato creato un luogo adibito a questo scopo. Un luogo di quarantena forzata in attesa di vedere come si evolveva la malattia. In genere funzionava da anticamera della morte. Non è corretto invece il riferimento al Lazzaro di Betania per la derivazione del termine Lazzaretto, come sostengono alcuni. Dal “Vangelo di Giovanni”, e precisamente dal paragrafo 11 in cui si parla della sua resurrezione, sappiamo soltanto che Lazzaro era morto già da quattro giorni quando Gesù giunse in Betania, e non si fa alcun riferimento alla causa della sua morte. Il Lazzaro “coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi” è invece quello del “Vangelo di Luca” (16, 19) che va a bussare alla porta del ricco epulone. Sono andato a rileggermelo perché non ricordavo se i versetti contenessero la parola peste. Si parla genericamente di piaghe, di sicuro provocate dalla lebbra. Il paragrafo 17, versetti 11,19, narra infatti di dieci lebbrosi che Gesù incontra e guarisce. Gli ammalati di lebbra venivano regolarmente rinchiusi nei lazzaretti. Nell’Europa medievale e giù fino a tutto il Seicento, non si facevano distinzioni e non si aveva alcuna conoscenza delle epidemie che decimavano le popolazioni. Si credeva che la peste fosse diffusa dagli untori o che fosse un castigo divino. Enormi processioni venivano organizzate durante la peste a Milano per impetrare la grazia, contribuendo in tal modo ad una maggiore diffusione. Incredibilmente invece, il Lazzaretto di Milano, non il primo, quello realizzato a Cusago verso la metà del Quattrocento, ma quello fuori della Porta Orientale, fu ideato, progettato e in parte anche finanziato*, da un notaio il cui nome era Lazzaro Cairati, mentre la direzione dei lavori fu affidata a Lazzaro Palazzi. Nel nome il destino: è proprio il caso di dirlo.
Se non avete mai letto I promessi sposi perché ve lo hanno reso antipatico gli insegnati, e vi siete persi l’attacco del capitolo XXXV, rimedio io: “S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichio, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso”. Un altro diverso brulichio, un altro mutato frenetico ondeggiamento, pervade oggi quelle contrade. E una peste nuova, moderna, le ha invase: è la peste del traffico perenne, del rumore continuo, della fretta, del consumismo.
*Il grosso del denaro fu ricavato dalla vendita dei beni che il conte Galeotto Bevilacqua aveva lasciato all’Ospedale Maggiore. Seimila furono i ducati ottenuti da impiegare allo scopo.
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