Milano
Piccolo Teatro Grassi occupato: uniti per riformare un settore allo sbando
Al Piccolo Teatro di Milano, i lavoratori dello spettacolo riuniti ormai da quasi un mese non chiedono riaperture.
Sull’onda dell’Odeon a Parigi, del Mercadante a Napoli, del Verdi a Padova, il Piccolo Teatro Grassi è stato occupato il 27 marzo. La data aveva una valenza simbolica: giornata internazionale del teatro, che Franceschini aveva incautamente proposto per riaprire. Anche il luogo è simbolico: una settantina di anni fa, finita da poco la guerra, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, due giovani intorno ai 27-28 anni, osservando il Palazzo di Carmagnola che una volta era stato un cinema e ora da parecchio tempo era vuoto e in disuso, avevano deciso di tirare un calcio al portone, erano entrati e avevano poi avuto il permesso del sindaco Greppi di farvi un teatro.
Così, in questo 27 marzo 2021, alcuni lavoratori dello spettacolo hanno fatto irruzione nel palazzo nuovamente vuoto. Vi hanno trovato il neo-direttore Claudio Longhi che si è mostrato più che aperto al dialogo, disponibile a concedere il teatro tutti i giorni dalle nove del mattino alle nove e mezza di sera fino a che le condizioni pandemiche permetteranno questo utilizzo.
È un’occupazione sui generis perché, oltre a esserci stata fin da subito l’approvazione del direttore e ora anche la partecipazione di molti dei lavoratori, nessuno lì sta protestando per l’attuale chiusura dei teatri né per aver messo il teatro in fondo alla scala delle priorità, nessuno reclama riaperture se non in condizioni di sicurezza (per altro la stagione, in ogni caso, sarebbe quasi finita e quel che poteva esserci in programma spesso è stato già cancellato), non si fanno spettacoli all’aria aperta del chiostro, non si cerca il coinvolgimento del pubblico. Si rispettano le regole, massimo sessanta persone per volta e se no si sta fuori ad ascoltare dalle casse o si partecipa via zoom agli incontri.
L’obiettivo non è contestare, ma riformare un settore allo sbando attraverso una procedura legislativa che inquadri tutto. L’interlocutore è lo Stato, sono le istituzioni.
Tecnici, attori, teatri stabili e compagnie si incontrano nell’ampio chiostro di via Rovello 2 per confrontarsi in una sorta di grande riunione di famiglia, in cui si approfitta del tempo sospeso del Covid per sedersi ad affrontare dissidi e incomprensioni di una vita, fino a sciogliere tutti i nodi. “Le lotte di solito si sfaldano per mancanza di tempo e di coesione, si rivendica l’importanza delle compagnie o degli attori o dei tecnici. Questa volta non ci si è chiusi fra gruppi, si è cercato il consenso e l’adesione di tutti e anche di mondi che hanno una parte di responsabilità rispetto alla situazione in cui ci troviamo. Sono passati qui enti, assessori e fondazioni lirico sinfoniche, che poi sono quelle che si prendono la maggior parte del Fus (Fondo unico per lo spettacolo)” spiega Marco Linzi, direttore del Teatro della Contraddizione.
Si tratta di redigere insieme una proposta sensata di riforma dell’intero mondo dello spettacolo (che comprende non solo il teatro ma anche allestimenti di fiere, concerti, eventi).
Il vero problema in Italia è che questo settore non è mai stato inquadrato per quello che è: invece di avere una legislazione ad hoc, viene, nelle sue varie caratteristiche, assimilato a qualcos’altro di già esistente, di più comprensibile in un mondo in cui ancora se si dice “Faccio l’attore” ci si può sentir rispondere “Sì, ma che lavoro fai?”.
La questione della sicurezza, racconta Francesco Citterio, fonico e tecnico delle luci, ne è un esempio: “Ci sono fasi in cui il teatro diventa cantiere e legislativamente viene equiparato a un cantiere edile! Ma ci sono tempistiche diverse e non permettono le stesse norme di sicurezza, la sera si deve andare in scena e non c’è ritardo che tenga”.
“Questo aspetto”, spiega ancora, “nell’anno appena passato è emerso in maniera deflagrante rispetto alla questione fiscale. Si tratta di lavori basati sulla discontinuità, sull’intermittenza, devono essere regolati in modo che il funzionamento sia uguale per tutti e permetta a tutti in un caso come questo di accedere ad eventuali ristori. Tutte le attività spettacolistiche dovrebbero essere associate al fondo pensionistico dei lavoratori dello spettacolo, invece ci sono allestitori con la partita iva che versano i contributi in fondi che non sono dello spettacolo, disperdendoli. Deve esserci un circuito unico in cui tutti versino i soldi in modo da poter poi pagare l’intermittenza a chi in un certo momento è casa perché sta studiando un copione o un software per il suono o sta aspettando il prossimo ingaggio”.
Fra le varie proposte, c’è quella di abbattere i costi del lavoro: “si tratta di un’impresa fallimentare di per sé, ma con un’utilità sociale, per questo lo stato si dovrebbe far carico di coprire quei costi”, commenta Marco Linzi, e aggiunge: “si dovrebbe discutere di perché i teatri abbiano bisogno di finanziamenti statali”: ne hanno bisogno perché (e se) non si tratta di intrattenimento. “Ma non si arriverà a parlarne questa volta, bisogna prima partire dalle regole di accesso e del lavoro. Da qui però potrebbe poi nascere un discorso su qualità, funzionalità e rapporto con lo Stato”. Intanto c’è da vedere cosa accadrà una volta pronto il documento, se sarà possibile farsi davvero ascoltare: “ci vorrà una presa di posizione, un’azione politica, non spettacolare”.
Nel frattempo però un’accelerazione c’è stata. In seguito all’occupazione del Globe a Roma, il ministro della Cultura Dario Franceschini ha convocato un tavolo per il 22 aprile, domani, a cui saranno presenti associazioni di categoria e soprattutto, aspetto più importante vista la natura delle richieste portate avanti dall’occupazione del Piccolo, sarà presente il ministro del Lavoro Orlando.
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