Immobiliare
Per rendere abitabili le città servono più s.u.v.
Chi sarà arrivato a leggere queste righe – non essendosi limitato a insultarmi con violenza per l’idiozia che avrei scritto se l’acronimo s.u.v. del titolo avesse il significato per cui è universalmente noto (Sport Utility Vehicle) – avrà dimostrato di essere quanto meno curioso. E chi insultasse senza leggere, in fondo, sarebbe egli stesso un idiota.
Infatti non è come sembra. E il cervello non me lo sono ancora trangugiato del tutto. Il titolo, ho imparato, genera interesse se non è scontato; in questo modo, magari, mi leggerà qualcuno in più. Perché il tema che qui voglio porre è concreto.
S.u.v., nella mia testa significa “spazi urbani vitali”; il titolo è quindi da leggersi così: “Per rendere abitabili le città servono più spazi urbani vitali”. Cosa voglio dire con ciò? Si tratta di uno slogan stupido o c’è qualche idea, dietro al giochetto di acronimia? Cercherò di spiegare cosa intendo, partendo da riflessioni agganciate alla concreta realtà milanese, alle possibilità qui innescabili e ai limiti a tale innesco. Procederò, per ragioni di sintesi, attraverso semplificazioni.
Il problema da cui parto è il seguente: è a tutti noto – urbanisti, specialisti, popolo e popolo bue – che l’atrofia del commercio di vicinato e delle attività al piede degli edifici ha subito violenti colpi. Prima è stata la grande distribuzione – spesso allocata con pianificazioni assurde e con concentrazioni irrazionali – a tagliare le gambe alle attività urbane non residenziali. Poi è arrivata la rivoluzione digitale, capitanata da Amazon che non solo ha armato il cane della pistola alla tempia delle attività di vicinato, ma sta puntando un bazooka anche contro la grande distribuzione (a tal proposito basti leggere della drammatica crisi della grande distribuzione in U.S.A.).
Allo stesso tempo la crisi immobiliare e, su un fronte schizofrenicamente opposto, il persistere della rendita fondiaria come fattore sottostante allo sviluppo/rigenerazione urbana, hanno generato affitti insostenibili per immobili al piede degli edifici e costi alti per la vendita degli stessi. Il risultato è sotto agli occhi di tutti: spazi dismessi, vetrine con carta da pacchi al posto delle luci, strade – spesso anche centrali – deserte.
Il commercio non è però l’unico elemento a cui guardare per riattivare gli spazi degli edifici più prossimi alla strada, ossia a quell’armatura pubblica che è elemento centrale dell’urbs, rispetto alla quale si misurano molti fattori di vitalità urbana: dalla sicurezza all’attrattività, dalla possibilità di sostare a quella di camminare, oziando con piacere.
Non mi occuperò qui degli spazi commerciali da mettere a reddito che restano vuoti; tanti fattori incidono: dalla fiscalità alle attese economiche di proprietà spesso concentrate e indifferenti alla cosiddetta vacancy. Mi occuperò di quello che si potrebbe fare mettendo a regime una semplice norma urbanistica che potrebbe vedere realizzarsi spazi convenzionati con affitti prossimi allo zero.
Quale è la strada? La via è stata già tracciata nel Piano dei Servizi correlato al P.G.T. del Comune di Milano, laddove si sancisce che un operatore – sia esso cooperativo o immobiliare – che convenzioni degli spazi al piede dell’edifico destinandoli a una serie di usi non lucrativi, vedrebbe questi spazi tolti dal calcolo della Superficie Lorda di Pavimento (in gergo tecnico s.l.p.).
Ai più questa cosa non dice nulla, ma a chi fa i conti con attenzione quando si accinge a operare sulla città e sulla rigenerazione urbana questa semplice norma dice molto. Perché toglierebbe in un colpo solo tali metrature dal giogo soffocante della rendita fondiaria, riducendo così significativamente l’impatto economico sull’operazione. Quando si realizzasse l’ipotetico intervento immobiliare, infatti, non ci sarebbe alcuna incidenza della rendita ma solo i costi di costruzione degli spazi che, seppur non indifferenti, possono essere più tranquillamente assorbiti in un’operazione.
Quale sarebbe l’esito? Sarebbe quello di avere, oltre a spazi collettivi di pertinenza condominiale (che restano spesso vuoti a causa delle strette spire indotte dalle patologiche dinamiche di condominio) degli spazi, gestiti dall’operatore e finalizzati a una serie di attività – commerciali, culturali o associative – in grado di fare pagare affitti irrisori anche per superfici ampie, rendendo addirittura possibili dei periodi ad affitto pari a zero per avviare le attività. Per esempio si potrebbe senza problemi applicare un affitto di 150 € al mese per 100 mq di spazio.
È chiaro che sarebbe necessario avere soggetti accreditati, una gamma di funzioni ben definite e un monitoraggio per evitare abusi sull’utilizzo di tale agevolazione. Ma in questo caso si potrebbero mettere in circolo – anche in aree periferiche – dei luoghi in grado di riattivare una relazione virtuosa tra strada e casa. In cui insediare sedi di associazioni culturali, di piccole attività artigianali, di laboratori innovativi o di spazi sociali, facendo leva sulla sostanziale neutralità economica dell’affitto.
Questa strada si può percorrere. Serve solo dare qualche elemento di certezza interpretativa alle strutture comunali che devono vagliare e autorizzare progetti, assumendosi importanti responsabilità, così da mettere in sicurezza l’attuazione di questa piccola innovazione rispetto a eventuali torsioni speculative.
Certo, si tratta di poca cosa rispetto alle grandi questioni urbane. Ma sarebbero dei piccoli passi che potrebbero creare presidi capaci di innervare di funzioni e di vita la strategica soglia che è il cosiddetto “piede dell’edificio”.
In questo modo, con più s.u.v. (spazi urbani vitali) disseminati nelle strade della città, le persone torneranno ad appropriarsi un poco anche di strade più marginali, divenendo, queste stesse persone argine al dilagare degli ingombranti S.U.V..
@Alemagion
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