Milano
Open, social, autoprodotto. L’altra faccia del design nordeuropeo
Il Salone del Mobile è in via di conclusione, e ancora una volta Milano (l’Italia) si è confermata la capitale (la terra) del design. Attirando una moltitudine non soltanto di designer, architetti, artisti, creativi e curiosi, ma investitori e imprenditori. Lo scafatissimo CEO di una delle più dinamiche PMI manifatturiere italiane, parlando off the record con Gli Stati Generali, dice: «Vai alla Design Week e capisci che il design è uno dei pochi asset che può davvero rilanciare questo paese. E non sono il solo a pensarla così, qui». Ma mentre il mondo indugia ancora lo sguardo sulla metropoli ambrosiana, cosa bolle in pentola a più alte latitudini?
Nei paesi nordici, complici anche una tradizione social(democratica) ancora vitale, e l’influsso del pensiero progressista di stampo anglosassone, esercitano il loro fascino concetti di sapore californian-bostoniano come – ma l’elenco non è certo esaustivo, ça va sans dire – sharing economy, open innovation, Makers, co-creation, open source, Do It Yourself (DIY, ossia il fai-da-te). E infatti è qui, magari in loft di zone industriali recuperate o in confortevoli spazi di co-lavoro del centro, che fioriscono nuovi generi di design. Tecnologici, inclusivi, sociali, consapevoli, autoprodotti. A volte utopici, spesso sorprendenti.
Mikaela Assmundsson è lecturer all’Università di Göteborg, presso il dipartimento di slöjd (educazione artigianale). Lavora inoltre come fashion designer presso il brand di moda Les Fables, che si occupa anche di slow fashion, e punta sulla sperimentazione, incluso l’utilizzo di tecniche di stampa 3D. «Il design ha decisamente una dimensione sociale. È sempre stato il riflesso della nostra società, e perciò cambia nel tempo in base ai mutamenti della nostra cultura – spiega –. Guarda per esempio al fashion design: un bel numero di teorici ha riconosciuto che noi parliamo attraverso i nostri abiti, dicendo tutto di noi: dalle origini familiari allo status sociale, dal genere alla sessualità».
Il design ha una potente capacità di unire o dividere. È sociale per natura. «Per esempio, considereremmo ancora le persone in carrozzina disabili se avessimo disegnato le nostre comunità in un modo diverso? In futuro credo che daremo più importanza alla dimensione sociale del design. In Scandinavia si vede già qualche segno di questo, con studenti di design che sviluppano progetti con valori emozionali o tattili. Viviamo in un’epoca digitale, ma smaniamo un’autentica connessione con i manufatti e le persone». Per i suoi lavori si ispira alla natura, la Assmundsson, come tanti altri architetti e designer scandinavi (si pensi, tanto per citare un caso molto recente, alla torre di legno per il birdwatching progettata dall’architetto norvegese Lars J. Berge). E da esperta dell’uso di attrezzature digitali, ha una buona opinione dell’open source: «dà flessibilità non disponibile nei prodotti chiusi».
Certo, i progetti open source non sempre si concretizzano, ma nonostante questo lei è positiva sui fablab, che sono «ottime nel riunire persone con competenze disciplinari diverse. Io credo che lavorare insieme in questo modo sarà un punto di svolta per molte comunità in futuro». Ovviamente i fablab funzionano solo dove c’è una forte cultura del lavoro di gruppo, e la convinzione che la creatività possa avere una componente di genio collettivo. Ad esempio nei Paesi Bassi, dove ci sono 32 fablab; spazi che operano con successo, grazie a una diffusa cultura dell’open design. Merito, come racconta un articolo scientifico di qualche tempo fa, tanto dell’intraprendenza dal basso tipica della società aperta olandese, che dei finanziamenti statali.
Sempre da Göteborg Johnny Friberg, a capo del dipartimento di design dell’Accademia di design e mestieri dell’Università, spiega: «Non soltanto il design può avere delle dimensioni sociali, ma sono convinto che le implicazioni sociali siano cruciali per il design contemporaneo. E mi piacerebbe anche problematizzare la nozione di design come “risolutore di problemi”. Il design crea tanti problemi quanti ne risolve. Secondo me, il design opera come portatore di significato e può cambiare il contesto in cui esiste. Ciò significa che i designer hanno grandi responsabilità».
Ancora, vale la pena dare spazio a «metodi produttivi alternativi, e a un approccio di tipo multidisciplinare al design. Ciò genera accessibilità ed estensione. Il design come tema non è statico, oggi ha tantissime interpretazioni ed è in costante evoluzione. Ciò è inevitabile e, a suo modo, al contempo buono e cattivo. Buono quando promuove la diversità e lascia entrare in campo più competenze e persone con esperienze e interessi diversi. Ma appunto, può anche diventare problematico, se la nozione di design va ad incorporare ogni cosa, perdendo focalizzazione e giustificazione».
Insomma, luci e ombre. Va bene essere open, social, contaminati, ma con juicio. Per tornare alle nostre latitudini, illuminante a questo proposito la riflessione di Venanzio Arquilla, docente della Scuola di design del Politecnico di Milano: «La dimensione più professionale del design come pure la democratizzazione degli strumenti progettuali, quindi dei software, sta generando questo fenomeno dell’open design, che mostra una certa discordanza con i valori culturali del design italiano. Nell’open design si ritiene che una cultura della condivisione porti a creare qualcosa di qualità. In Italia però la sua diffusione è limitata, perché da noi esiste una grande cultura del design, e quindi l’open design viene percepito quasi come in contrapposizione al design italiano nelle sue mille sfaccettature».
Si dice open design, e subito si pensa ai Maker, o al mondo della digital fabrication. Ma le connessioni tra open design e aziende tendono a essere deboli, osserva Arquilla. «Da un lato le aziende faticano forse a interpretare il fenomeno, con la sua natura non commerciale; dall’altro c’è poca capacità, da parte di chi aderisce a questa visione, a generare valore per il mercato. Basti pensare alla difficoltà con cui anche le buone idee generate dagli autoproduttori o dai designer emergenti approdano al mercato, le volte in cui riescono ad approdarvi. E per l’azienda è difficile investire, nell’assenza di una dimensione consolidata».
In ogni caso, la maniera nordica di immaginare il design riesce a farsi strada anche nel nostro paese. Ad esempio, nelle assolate Murge. Pugliese per esempio è Pecore Attive, realtà creata da un ingegnere e creativo pugliese, Filippo Clemente. Alla base dell’azienda, l’idea di usare la lana delle pecore del territorio (a rischio di scomparsa) per fare scarpe, pantofole, zaini, borse e montature per occhiali. «Tutto è nato quando, alcuni anni fa, mi sono appassionato al mondo del design di prodotto legato al riutilizzo dello scarto di processi produttivi, ispirandomi ai paesi nordici, dove è da cinquant’anni che si fa questa cosa. E infatti quando ho iniziato la materia prima, ossia la lana delle pecore, mi veniva proprio regalata. Oggi non è più così ma l’obiettivo non è commerciale, quanto avere una ricaduta sul territorio, incentivare l’allevamento delle razze ovine autoctone, rinnovare una tradizione».
Per Clemente la parola design è più legata al processo che al prodotto. «E nel processo si trova la dimensione dell’innovazione sociale. Nel mio caso io metto in contatto un mondo, quello della pastorizia, che è sempre stato considerato un po’ chiuso, con il mondo dell’artigianato, della manifattura. In questo modo competenze diverse iniziano a collaborare, ed ecco che si riusano gli scarti, e che si salvaguardano specie autoctone in via di estinzione». Una vittoria per tutti, indubbiamente. Il vello di una pecora che si pasce anche di borragine, timo e ruta, storicamente rinomata, finisce accessorio in qualche boutique di New York o Shenzhen.
Come Filippo Clemente, pure la designer ravennate Milena D’Acunto ha una laurea in ingegneria. E anche lei ritrova nel design una dimensione social e open molto forte. Ecco perché collabora con le scuole (al pari di Clemente), e dialoga da sempre con il mondo dell’artigianato e con altri tipi di sapere. «La contaminazione dà molta più forza alle idee. Io tendo a seguire la parte progettuale e ideativa, poi mi appoggio a persone e strutture con competenze e macchinari giusti. Ad esempio per realizzare un manufatto a forma di balena, in legno, molto grande, mi sono dovuta appoggiare a un mobilificio artigianale vicentino che avevo conosciuto a un evento di open design a Vicenza». Anche questo è design.
Immagine di copertina: Göteborg, Pixabay
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