Milano
‘Oltre il confine’, la prima folle guerra dei precari italiani
Igor Greganti fa quello che nessuno ha osato nei nostri anni della crisi. Fa scoppiare una guerra. Che poi, nemmeno minuscoli focolai di piazza si sono visti, a parte qualche forcone smussato. E quindi si valuti bene la portata della sua straordinaria impresa. Col romanzo ‘Oltre il confine’, restituisce alla generazione dei 30 – 40enni italiani quello che la crisi gli ha tolto: la possibilità di una trincea, quella linea di polvere e sangue negata da un’epoca che, con la moltiplicazione dei contratti, ha sigillato i precari in tanti vasi non comunicanti, un esercito frammentato e coi fucili senza canna verso la disfatta.
E’ una guerra assurda, che non ha nulla di eroico e anzi trasuda ironia e malinconia, stati dell’anima sottili poco affini alla retorica bellica. A cominciare dalla bislacca truppa in campo: Giuseppe Manna, 20 anni compiuti nel 2000 e già testimone di un processo al Presidente del Consiglio, il giornalista stanco Gianni Tristano, l’ex banchiere cinico Simone Fronte e il fragile Paolo Arco. La loro missione non è disarcionare un nemico, grande assente dell’età della crisi, ma portare una valigetta dal contenuto misterioso oltre il confine, mentre si sfaldano tutti i centri del potere: lo Stato, il clero, le industrie, le banche, i media e la giustizia. Dalle prime sommosse si era passati alla guerra civile dopo che il Presidente del Consiglio aveva annunciato la fine della crisi in “un’altra giornata in cui era davvero difficile trovare un lavoro”.
Quali parole usare per una guerra così folle? Greganti si cimenta in un’altra impresa. Abolisce il linguaggio sciatto e sincopato dei suoi coetanei, inventando unalingua vertiginosa e lenta, che si adatta meglio alla strada tortuosa percorsa dalla generazione precaria, costretta spesso a camminare sul posto, senza andare avanti né indietro, tanto si è offuscata la sua meta originaria (l’autore sembra chiedersi: ma poi, qual era?). Igor è anche poeta, e per questo non butta sul foglio nemmeno una parola se non ha un abito elegante e un suono tondo. “Così da una decina di mesi o forse più – è il passaggio in cui si racconta la crisi di Manna – aveva scelto di vivere soltanto per se stesso e di dormire in attesa dello sviluppo degli eventi. L’unico rischio che si era concesso era stato comprare i biglietti perdenti di due lotterieappena istituite, facendosi largo anche lui nel virus che accomunava signore intolleranti e stranieri dai denti d’oro”. Finché il rumore dei fucili non fa alzare la testa dal cuscino al giovane testimone del processo al capo del Governo che ai giudici era riuscito a dire soltanto: ‘Vi rendete conto che fine abbiamo fatto?’.
La combriccola protagonista del road movie, che passa anche per una chiesa, una locanda e un ospedale, trova approdo e svolta in un luogo che rimanda alla sala stampa dell‘”immenso, quasi bello e terrificante” Palazzo di Giustizia milanese in cui, durante la guerra, si vivacchiava in “un piccolo mondo di toghe imperfette, imputati che si bastonavano da soli e notizie senza lettori, mentre fuori nemmeno gli scontri ad armi in pugno avevano una direzione precisa”. Sarà un assurdo patto generazionale a indicare la direzione salvando i ragazzi che in trincea imparano il coraggio. A firmarlo un personaggio indimenticabile per chi bazzica i corridoi del Palazzo: il “barbuto” Francesco From, “l’ex influente cronista ribelle, ora valoroso nel non trascurare i migliori tratti dell’animo umano”.
Manuela D’Alessandro
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