Milano
“Nessuno tocchi Milano”. Ma ci sono voluti i black bloc per risvegliare la città
Rivisitando geograficamente Flaiano, un marziano che piovesse a Milano di questi tempi comincerebbe a chiedere in giro cosa è successo di così sconvolgente per vedere tutte quelle migliaia di cittadini che insieme e orgogliosamente scandiscono lo slogan #NessunoTocchiMilano. Gli risponderebbero, cittadini e negozianti del centro: «Guardi, caro il mio bel marziano, qui è successo quello che neppure lei, nel suo bel cyberspazio, avrebbe mai potuto immaginare. Sono arrivati nella nostra città i vandali, gente vestita di nero che voleva devastare tutto, che ha incendiato macchine, spaccato vetrine, buttato all’aria banche, che cercava solo il peggio e che non aveva veramente nessuna motivazione, come invece avevano le tante migliaia di ragazzi che sfilavano anche per motivi probabilmente validi. Hanno approfittato di Expo, perché Expo quel giorno si apriva proprio a Milano. E loro, anche dall’estero, sono venuti qui».
C’è da riflettere profondamente e anche con una certa schiettezza sui motivi che hanno spinto i milanesi a questo scatto d’orgoglio, a riprendersi la loro città, a scendere nelle vie e nelle piazze calpestate due giorni prima dagli infami. C’è da rifletterci soprattutto perché Milano è da molti e molti anni una città che sostanzialmente non dava in maniera così clamorosa un segno di sé, a cui non si riconosceva (quasi) più quello scatto di dignità che ne costituiva un tratto distintivo, la Milano di quel giorno plumbeo dei funerali di Piazza Fontana, per dire di un esempio straordinario e profondo. E a essere cinicamente schietti, è un riappropriarsi delle proprie origini anche un po’ forzato, visto che a cose fatte il bilancio delle nefandezze è sì pesantuccio – tra macchine bruciate, muri imbrattati e vetrine spaccate – ma francamente non epocale. La differenza, lo sappiano i poveri di spirito alla Salvini a cui un mezzo morto magari avrebbe portato qualche voto, l’ha fatta proprio la Polizia con una gestione impeccabile della piazza. Qualche mezzo morto, o qualche morto intero, avrebbe cambiato interamente lo scenario e invece oggi siamo qui a festeggiare l’orgoglio milanese. Non è un finale straordinario?
L’aspetto toponomastico di tutte queste giornate milanesi ha una sua forza e un suo perché. Gli incidenti più concreti sono accaduti nel pienissimo centro città, in quartieri molto borghesi, vicino a Sant’Ambrogio, a via San Vittore, all’angolo tra corso Magenta e via Carducci, case d’epoca molto belle, negozi di un certo pregio, residenti di un certo livello economico-sociale. La mattina successiva agli scontri ho fatto volutamente colazione da «Marchesi», una tra le pasticcerie storiche di Milano, da qualche tempo passata purtroppo nelle mani di Prada (notazione del tutto personale). Bene, naturalmente i discorsi non potevano che essere focalizzati su quello che era successo, ma al di là di qualche inevitabile boutade (signore sui 40: “Ma perché non li hanno messi tutti a San Siro, così potevano dire quel che gli pareva?”, signora sui 70: “Eh però, anche la polizia: non poteva mica mettere le gabbie davanti ai negozi per proteggerli?” ), si intuiva, al fondo, una voglia comune di piangersi poco addosso e di rimettere molto concretamente a posto tutto ciò che era stato distrutto. E infatti, residenti, volontari, uomini del comune, vigili del fuoco, il giorno dopo erano già sul pezzo.
Questa è stata una novità concreta. Il risveglio della borghesia, quella borghesia produttiva e liberale che negli anni fece grande Milano e che via via aveva dimenticato i suoi tratti migliori, di cui s’erano perse le tracce, e che era entrata in pienissima confidenza con la volgarità dei pensieri e dei mestieri, in piena assenza di sentimenti, atarassica. In una parola, morta. Dopo le devastazioni, un pezzo di borghesia si è risvegliata e come in un miracolo rovesciato ha trascinato con sé le parti da molti anni considerate migliori della città, le classi più umili, più solidali, sfilando insieme, innalzando le spugne. Alla ricerca di una radice che possa aver fatto scoccare una modesta scintilla borghese, non andrebbe sottovalutato il fattore Pisapia, che in qualche modo, da autentico borghese di sinistra, è riuscito a restituire un certo decoro alla città, tenendola lontana dagli scandali, offrendo all’esterno l’immagine di una certa solidità morale. Il risultato è che in un’occasione come questa, la borghesia ha deciso di farsi riconoscere in prima persona, opponendo senso della dignità a infamia. Per il sindaco, un finale di partita non indifferente. (Per la sua gestione puramente tecnica della città, poi la storia dirà).
Ma certo, una cosa andrà detta con chiarezza, nel giorno degli entusiasmi collettivi. Milano non è sotto attacco e paradossalmente dovrebbe ringraziare l’intreccio di un destino che quel giorno ha portato Expo e manifestanti sulla pubblica piazza della città perché ne potesse scaturire questo scatto di reni cittadino. Milano era in ampio debito etico e culturale con la sua storia, nella nostra città che è considerata la più europea d’Italia non c’è neppure un museo d’arte moderna e contemporanea di livello europeo, e per fortuna sta aprendosi una nuova, meravigliosa, fondazione Prada, ma sempre di privati parliamo, come del resto l’Hangar Bicocca. Milano non era città da molto tempo e forse oggi Biancaneve, baciata dagli infami rospi, ha faticosamente aperto gli occhi. Ma evitiamo un solenne protagonismo per cui anche in questo caso, come già nella sciagurata esecuzione del Palazzo di Giustizia, parlare di un “certo clima”.
Milano è ampiamente da ricostruire, anche nell’onestà intellettuale che le si impone. Per fortuna, tra entusiasmi onestamente fuori posto su Expo, abbiamo letto sul Corriere una seria intervista di Letizia Moratti, che da sindaco ottenne la vittoria della candidatura, la quale indica con nettezza il tradimento degli obiettivi primari: «Noi avevamo deciso di puntare sulla nutrizione mentre oggi ci si è maggiormente focalizzati sull’alimentazione. “Nutrire il pianeta” ha un significato molto profondo che tocca due differenti dimensioni: da un lato quella legata allo sviluppo sostenibile, alla biodiversità, alla difesa degli ecosistemi e della specie. Dall’altro, quello legata alla cultura attraverso la conoscenza delle storie e delle tradizioni dei popoli. In poche parole significa nutrire la mente e lo spirito».
Ne avevamo parlato appena venerdì, dopo la nostra visita a Expo.
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