Clima

Nella piazza di Fridays For Future: “Hope is US, the people”

2 Ottobre 2021

“Hope is US, the people. Abbiamo il diritto di essere arrabbiati. Il cambiamento non solo è possibile ma è urgentemente necessario” ha gridato Greta Thumberg dal palco ieri pomeriggio.

È stata una settimana intensa, quest’ultima. È cominciata venerdì scorso con lo sciopero globale indetto da Fridays For Future. Martedì 28 si è poi aperta la Youth4Climate, conferenza sul clima di 400 giovani da 186 Paesi, organizzata dal governo italiano come evento introduttivo alla Pre-Cop26. E intanto un Climate Camp di quattro giorni (dal 30 settembre al 3 ottobre) al centro sportivo 25 aprile, occupazioni notturne di Piazza Affari, blocchi stradali. E tantissimi giovani, e tantissimi stranieri, voglia di confrontarsi, agire, esserci.

Ieri mattina l’appuntamento era alle 9.30 in Largo Cairoli, come tutte le manifestazioni dei liceali da che i milanesi si possono ricordare. E di liceali ce n’erano tantissimi, sorridenti, consapevoli, con cartelli e striscioni ironici, spesso in inglese. Dai soliti “There is no planet” B a “Il mio prof di latino sta bene pelato, il bosco no” o “Salviamo il mondo perché è pieno di fregna” (portato da tre ragazze). Nessun dress code, al contrario di molti movimenti: c’era di tutto. E in realtà nemmeno nessun limite di età. Infiniti liceali, sì, ma anche universitari e a salire, attivisti, associazioni, qualche anziano, qualche madre quarantenne con bambini. Niente camion, ma musica ce n’era e c’erano grida e la gente che guardava dalle finestre delle case e dagli uffici e veniva invitata a scendere a manifestare e rispondeva battendo le mani.

Si è camminato a lungo, passando per via dell’Orso, Piazza Affari, fino a Viale Monte Rosa, Portello, passando sotto il MiCo (Milano Convention Centre) dove si teneva la Pre Cop, ultima riunione ministeriale prima della Cop 26, che si terrà a Glasgow dal primo al dodici novembre.

 

Circa tre ore e mezza e sette chilometri dopo, il corteo, che ha contato intorno ai 50.000 partecipanti arriva in Piazzale Damiano Chiesa e cominciano gli interventi dal palco ed è prima il turno degli ospiti internazionali. Si parla in inglese senza traduzione, come in inglese erano molti striscioni, perché quella di Fridays For Future è una comunità ed è internazionale. Un ragazzo argentino, Martin, a partire dalla crisi climatica mette in discussione l’idea di progresso e Ivan, messicano, la collega a tutti i meccanismi di oppressione legati al capitalismo.
Vanessa Nakata, attivista ugandese del ’96, racconta gli impatti del cambiamento climatico sull’Africa, dalla crisi economica ai venti e piogge che si abbattono su Mozambico e Malawi, all’innalzamento delle acque. Racconta di contadini che nella loro vita non avevano mai visto disastri ambientali come ora, di case distrutte in Sudan, del sud del Madagascar divenuto invivibile, della Somalia senza cibo e della Nigeria senz’acque. Il cambiamento climatico, dichiara “non è qualcosa che ci aspetta nel futuro ma qualcosa che già ora distrugge le nostre vite. E chi è in prima linea a subirne le conseguenze spesso sono quelli che meno ne hanno responsabilità”. E viceversa. E conclude così: “Dicono che vogliamo dare voce a chi non ne (who are voiceless) ha ma ne abbiamo (we are not voiceless), abbiamo sempre parlato”. Parole dure, mature, informate e lucidissime, come quelle di Greta Thumberg che prende il microfono dopo di lei: “I politici fingono di avere soluzioni ma noi vediamo oltre le loro bugie”. E ci vedono benissimo, per questo non si fanno illusioni: “Questa crisi porta via già molte vite nelle zone più colpite. Il cambiamento viene da noi non dai politici del bla bla bla. Hope is US, the people. Abbiamo il diritto di essere arrabbiati. Il cambiamento non solo è possibile ma è urgentemente necessario”. E poi lo slogan, caldo e coinvolgente, che con un “noi” potente ci ricorda che dobbiamo essere tutti dalla stessa parte della barricata: “We are unstoppable another Word Is possibile”, perché “Non abbiamo bisogno di pacche sulle spalle da Draghi e dal ministro transizione ecologica. Non vogliamo pagare le conseguenze delle azioni dei ricchi”.

Un messaggio dall’Amazonia brasiliana, letto da una ragazza, parla di deforestazione, delle conseguenze che questo ha sull’atmosfera e sulle acque. Gli indigeni escono dalle foreste per dire che bisogna agire. Abbiamo 10 giorni da ora per fare girare questo messaggio e proteggere la Amazonia. Stand with Amazonia. Ed escono veramente perché arriva un giovane rappresentante indigeno. Comincia con un Buongiorno in italiano, qualche parola in inglese e prosegue in portoghese: “Siamo all’inizio della nostra estinzione, la nostra terra soffre. Chiamo tutti i giovani del pianeta puntare lo sguardo sugli indigeni e sull’Amazonia. Lancio una sfida ai giovani: aiutateci a proteggerci. Stand For Amazonia”.
Un ragazzo libanese racconta dei tentativi di pulire la costa dalle scorie dell’esplosione di un anno fa, ma anche di incendi, di morti, della corruzione e del colonialismo che impediscono di cambiare qualcosa. E guarda la gente davanti a sé con commozione: “Nel mio paese questo non si può fare, non c’è abbastanza libertà di espressione”.
Da Irlanda e Scozia, in due lanciano il colpo di grazia: ci dicono che si risolverà tutto con la Cop 26? “It’s bullshit”: “Ci sono state 25 cop e dove siamo ora? Non serve a nulla. Ma noi siamo pronti a muovere le montagne. We are going ti make history in Glaskow”.
Si finisce con due portavoce italiani, Michela e Jacopo: “Se qualcuno si chiede con chi bisogna parlare quel qualcuno siamo solo noi” affermano. E non solo. Sempre perché lo sguardo è lucido e senza illusioni, sempre perché “vediamo oltre le loro bugie”, commentano l’incontro di Youth4Climate chiedendosi: “Hanno detto che erano d’accordo con noi. Ma allora che bisogno c’era di manganellare i manifestanti?”.

Mentre si diradano gli interventi si dirada la gente, stanca, pronta a tornare, oggi pomeriggio alle tre, di nuovo in marcia. Non si dirada l’entusiasmo, si sente anzi la consapevolezza di un “noi”, che marca una linea fra i giovani in piazza e i politici rinchiudi al MiCo, fra Nord e Sud del mondo, fra i cittadini e le multinazionali che dovrebbero “pagare le bollette di questa transizione ecologica”. Un “noi” in cui sta il Libano, il Messico, l’Argentina, il Brasile, l’Africa tutta e ci sta chi era in piazza ieri, chi ha parlato dal palco e chi era sotto, ugualmente, perché nessuno è lì per prendere ridicoli riflettori e visibilità, è troppo urgente quello che c’è in gioco.

Bob Dylan aveva 23 anni quando cantava “Come mothers and fathers / Throughout the land / And don’t criticize / What you can’t understand / Your sons and your daughters / Are beyond your command / Your old road is rapidly agin’ / Please get out of the new one / If you can’t lend your hand / For the times they are a-changin’”, e ne aveva una trentina Fabrizio de André quando prometteva “Verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte”.

 

 

 

© Fotografie di Clara Pogliani

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