Milano
Near working, lavorare a 15 minuti
In tutto il mondo la modalità di lavoro che ci ha consentito di sopravvivere durante i lockdown è diventata oggetto di un acceso dibattito. Il potenziale di trasformazione dello smart working sull’organizzazione del lavoro, sia pubblico sia privato, e sulla stessa organizzazione sociale delle città, è apparso più evidente che mai. E come ogni processo di cambiamento gli esiti possono essere ambivalenti. Negli Stati Uniti c’è già chi preconizza l’avvento di una non desiderabile working from home economy. Nel caso italiano, oltre ai tanti osservatori che hanno enumerato i meriti dello smart working, non solo nella fase emergenziale, vi sono state importanti voci che hanno avvertito di possibili rischi, tra questi il Sindaco Sala. Molti altri, come il segretario generale della CGIL Maurizio Landini, hanno posto l’accento sulla necessità di bilanciare rischi ed opportunità, per via normativa e per via contrattuale.
Questo è l’approccio che più mi convince, perché ci sfida a mettere in campo politiche pubbliche e strategie aziendali in grado di esaltare gli aspetti di maggior vantaggio, a livello individuale e collettivo, e limitare quelli negativi.
I cambiamenti organizzativi, infatti, hanno generato importanti economie a favore delle aziende. Lavorando per obiettivi, è crollato il volume delle ore di straordinari; le teleconferenze hanno abbattuto i costi delle trasferte; in molti casi i buoni pasto non sono stati erogati; molte sedi in affitto sono state o saranno liberate. Questo valore deve essere redistribuito tra aziende e lavoratori ripensando i parametri di produttività ma anche ragionando su nuove forme di welfare aziendale, come il Comune di Milano sta facendo nel confronto con i sindacati sul POLA, il piano operativo del lavoro agile. Nel pubblico e nel privato questo esercizio di ripensamento dell’organizzazione del lavoro, del valore prodotto, della sua redistribuzione tra lavoratori e aziende potrebbe aprire ad una stagione di nuovo protagonismo e di nuove sfide per manager e sindacalisti.
Quanto all’impatto sulla vita della città, a Milano ci siamo resi conto della necessità di un passo in più rispetto alla situazione emergenziale della primavera 2020, quando – grazie a protocolli già validati – il lavoro confinato in casa si è rapidamente sostituito al lavoro in ufficio.
E’ così che per la prima volta ha preso corpo l’idea del near working. Una declinazione spaziale del lavoro agile, in cui il centro non è solo l’organizzazione aziendale, la sfida tecnologica e ambientale e nemmeno solo il benessere di lavoratrici e lavoratori, tutti elementi chiave che ci hanno guidato in questi anni e che continuano ad essere parte fondamentale del ragionamento. Con il near working si introduce un cambiamento di prospettiva, che vede al centro gli spazi della città, con le loro differenti funzioni, sempre meno statiche e più ibride, in rapporto tra loro e tra dentro e fuori il perimetro urbano.
Milano ha scelto, attraverso un documento di indirizzo pubblicato dalla Giunta e poi sottoposto alla discussione pubblica della città, di indicare l’orizzonte della “città a 15 minuti” come orizzonte strategico. L’idea è che la città debba mettere in campo diverse strategie di adattamento che agiscano su due dimensioni principali, il tempo e lo spazio. Il lavoro incide su entrambe le dimensioni. Può contribuire significativamente all’obiettivo della desincronizzazione degli orari della città, evitando gli spostamenti massicci di persone durante le ore di punta, e può aiutarci a centrare l’obiettivo della città policentrica, distribuendo diversamente il lavoro negli spazi urbani.
Nella città a 15 minuti si colloca quindi il near working, che vogliamo sperimentare anche attraverso la possibilità, concessa ai dipendenti del Comune di Milano, di svolgere la propria attività non a casa ma presso sedi decentrate dell’Ente, sedi in disuso o poco utilizzate da grandi aziende del territorio, o spazi di co-working. A questo scopo è stato attivato un protocollo con Assolombarda per l’utilizzo di sedi aziendali di terzi, e sono state mobilitate le sedi di coworking accreditate nello speciale albo istituito dal Comune qualche anno fa: in questo albo sono iscritti oltre settanta spazi diffusi nel territorio.
Il near working completa e rende più sicura e ricca la parabola dell’impresa di prossimità e il valore sociale, oltre che economico, degli esercizi di vicinato, artigiani e commerciali, la nuova manifattura, ecologica e sostenibile, i servizi pubblici e privati, il welfare territoriale. Oggi l’ibridazione degli spazi è un valore aggiunto, che si regge sulla sostenibilità dei servizi che vanno a convivere, sulla loro capacità di migliorarsi, grazie alla tecnologia e allo sforzo di innovazione sociale di chi li anima. Nei mesi della pandemia, a fronte del crollo del commercio nelle vie del centro, i negozi in periferia hanno sofferto meno e questa riscoperta del vicinato è un’eredità che dobbiamo coltivare.
Una simile sperimentazione richiede uno sforzo organizzativo e progettuale non banale, oltre alla condivisione degli obiettivi e delle prassi con le organizzazioni sindacali. Penso però che sia un percorso che valga la pena percorrere. Di fronte alla prospettiva di una working from home economy, noi proviamo a indicare la strada di una working near home economy. Almeno nella sua dimensione di strategia di adattamento, il lavoro di prossimità ci sembra un orizzonte più desiderabile perché consente di superare il confine del lavoro domestico, con tutte le difficoltà relazionali e strumentali già evidenziate, e ritornare a conquistare una dimensione collettiva della città e della relazione lavorativa.
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