Benessere

Muoversi a Milano: il meglio è nemico del bene

11 Gennaio 2024

È morto un altro ciclista a Milano, investito da una macchina, un’altra morte di merda, senza senso, che a me come padre fa venire gli incubi e che soprattutto riapre ancora una volta il dibattito.

Sono tutti incazzati a Milano: i ciclisti, che si sentono dei bersagli mobili; gli automobilisti, che sono diventati un pericolo da contenere; gli utenti dei mezzi pubblici, che hanno conosciuto aumenti assai rilevanti del biglietto, qualche contrazione della qualità del servizio e la strombazzata introduzione dei tornelli anti portoghesi, perfettamente inutili dal momento che i portoghesi passano lo stesso. Il primo dato politico, difficilmente controvertibile, è che con le politiche sulla mobilità l’amministrazione comunale è riuscita a fare incazzare uno spettro di cittadini così ampio da andare da chi parcheggiava la fuoriserie in via Montenapoleone a chi ideologicamente va in bici anche con la neve, compresa la maggioranza delle persone che sta nel mezzo.

È il frutto, amarissimo ma difficilmente evitabile, di aver costruito una narrazione prima di aver almeno scavato le fondamenta delle politiche, o quantomeno aver commisurato le parole e le promesse alla distanza delle braccia che le dovevano realizzare: la città che cresceva impetuosamente, un po’ bulimica nel voler essere turbocapitalista ma gentile, piena di nuovi grattacieli ma verde, brulicante di attività ma così lenta da muoversi in bicicletta, e che andava solo in avanti, sorridendo. Quella narrazione non funziona più, la realtà ha bussato ed è entrata con le sue scarpe sporche, con le impronte degli autotrasportatori che hanno vinto il ricorso al TAR contro i sensori per i mezzi pesanti o con quelle degli automobilisti che continuano a entrare in Area B, inzaccherando il tappeto indiano.

Se devo pensare alla dimostrazione più plastica di un’idea sorridente e setosa, senza inciampi, di governo della città che è rovinosamente naufragata non mi viene in mente esempio più ficcante di Corso Buenos Aires e dell’idea, tanto tenera quanto ingenua, che bastasse tirare due righe per cambiarne la mobilità, secondo quell’urbanistica tattica che fa così tanto fine della storia, in cui tutti sono così d’accordo che basta il pensiero e una striscetta colorata e il mondo cambia per il meglio. Adesso, in quel costoso esperimento di gettare il cuore oltre l’ostacolo, ci sono dei bei cordoli a delimitare gli spazi, che forse si allargheranno o forse no, in un “d’ora in poi” che fa smadonnare tutti. Anche la città a 30 all’ora, molto più annunciata che vista (certo perché ci sono mille ostacoli, ma c’erano anche quando ne parlavano brandendo la bacchetta magica), oggi sembra soprattutto una pezza a colore, che farà scontenti tutti: i ciclisti perché tardiva e gli automobilisti perché aumenterà ulteriormente il traffico. Sarà poi l’ennesimo provvedimento virtuale, perché non ci sono abbastanza vigili per farlo rispettare, come non ci sono per sanzionare chi va troppo forte, chi parcheggia sulle ciclabili o fa il cretino con le due ruote, compreso il numero crescente di rider che circola su biciclette elettriche taroccate e palesemente illegali.

Non è tanto una questione di capacità di governo, e certamente l’opposizione che riporterebbe le auto in Duomo come nei film di Pozzetto non ha un’idea credibile di governo della complessità, ma di visione e nervi abbastanza saldi da cavalcare la comunicazione e non esserne cavalcati, finendo come oggi ad essere vittime del sistema di aspettative, enormi e non di rado confliggenti, che si sono sollevate calciando sempre di più la palla in avanti per essere “i più tutto di tutti”, anche meno andava bene.

Milano, soprattutto nell’estensione microbica dell’area del Comune su cui si è deciso di concentrarsi (non era obbligatorio, essendoci un’area metropolitana), non può essere contemporaneamente la città che non dorme mai e il paesino dove si va in bicicletta a fare la spesa, la capitale del glamour più spendaccione e la città inclusiva: Jannacci e Briatore non vanno d’accordo nella pratica. Si va quasi sempre in quest’epoca disgraziata per pezze a colore e per visioni un po’ più lunghe, che però devono quantomeno essere realistiche e coerenti, senza cianciare di ambiente e tagliare i glicini per fare in una città consumatissima l’ennesimo grattacielo.

Mettano, gli amministratori, un secondo la vibrazione ai social e si fermino le iperboli: Milano è la città più moderna, dinamica e competitiva d’Italia (questo per distacco) e tale deve rimanere, accompagnando attraverso politiche ponderate e senza strappi isterici processi di modernizzazione che cercano il miglior compromesso tra sviluppo e inclusione, tra dinamismo e qualità della vita, tra auto e biciclette, tra capitalismo che mangia e ambientalismo che preserva.

Sapendo che quello che si afferma e promette andrà fatto e implementato e che, purtroppo, in una città così veloce accadono anche eventi orribili come la morte di un poveretto che stava tornando a casa e che dire ogni volta “mai più morti” non potendolo realizzare suona beffardo e inaccettabile.

Si faccia e si dica meno, ma si faccia meglio, per favore.

 

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