Milano

Milano sociale: narrazione, chimera o possibilità?

19 Dicembre 2020

Negli ultimi anni abitare a Milano è diventata una enorme aspirazione sociale. Tutti, pare, vogliono Milano. Le possibilità che offre, la sua vitalità, la sua dimensione metropolitana e internazionale. Vogliono Milano i grandi fondi d’investimento, le semplici famiglie, i giovani del sud che a Milano hanno studiato, i benestanti e quelli che pensano di poterlo diventare; stando, per l’appunto, a Milano.

Ma, ci si domanda: Milano è ancora quella città “col cuore in mano”, capace di sedurre, attrarre, chiedere tanto e dare ancor di più, inglobando differenze e replicando opportunità? La risposta, seppur affermativa, non è netta.

Provo a dire perché.

Milano viveva – quantomeno sino all’esplosione della pandemia del virus Sars-Cov19 – quella pulsione polarizzante che caratterizza tutte le grandi città dell’occidente (o, meglio, di tutte le città in cui il Realismo Capitalista spadroneggia): per i “vincenti” sul campo della globalizzazione Milano è tutto quello che di buono si può immaginare; per i “normali” – ossia la maggioranza – le cose iniziano già a farsi più complicate; per i “soccombenti” la partita è persa: Milano per loro è impossibile.

Quando si tenne il seminario che ha portato a questo scritto il mondo pareva qualcosa di diverso. Milano, unica in Italia, pareva un treno in corsa – su un binario tutto in discesa – verso il ristretto empireo delle cosiddette “città globali”, tutte facciate splendenti e narrazione. Poi è arrivata, per l’appunto, la pandemia, che ha portato uno sconquasso mondiale.

Stando a Milano si può dire che la prima percezione raccolta dopo lo shock da Covid sia stata quella di un contraccolpo significativo su quel cammino; un deragliamento rovinoso dai binari della presunta crescita infinita. Ma, subito dopo, la narrazione e le aspettative di operatori e agenzie di comunicazione è tornata al galoppo sui temi noti: la città è richiesta. Tutti vogliono Milano, tutti cercano Milano.

Ci si chiede: è realistica tale prospettiva? E, se sì, produrrà una città migliore o porrà le basi per una città più diseguale? Dato per acquisito che le certezze ormai si sbriciolano nel tempo di un battito di ciglia, propendendo per la seconda opzione, penso si debbano porre alcuni temi; partendo da alcune discontinuità strutturali indotte dai recenti, obbligati, mutamenti.

In primis c’è – ad avviso di chi scrive – la questione connessa al “distanziamento sociale” e al lavoro cosiddetto “smart. Innanzitutto, come pare evidente ai più, le città potrebbero entrare – se già non ne sono entrate – in una severa fase di afasia con magari un effetto benefico alla fine della catena: meno gente, meno spostamenti, meno esternalità positive sull’economia urbana e, dunque, abbassamento dei costi indotti dalla rendita.

Quest’ultima è una possibilità, certo; ma – da quanto è dato sapere – la rendita immobiliare, soprattutto quella connessa alla residenza, ha tempo e pazienza. Prima di auto-erodere il vantaggio accumulato, in carenza di norme chiare finalizzate al suo depotenziamento, possono passare molti anni.

Ma c’è, sempre ad avviso di chi scrive, un altro significativo effetto che la pandemia ha avuto e forse avrà sulla dimensione abitativa: è l’effetto che l’”home working” – perché di questo si tratta, più che di smart working – potrà indurre sulla replicazione di disuguaglianze sociali ed economiche.

Tralasciando – solo per esigenze di sintesi – l’aspetto connesso alla dirompenza con cui la dimensione lavorativo/prestazionale ha penetrato la sacralità della sfera domestica, rifugio del sé individuale e familiare (con la demolizione di ogni barriera spazio temporale, compiendo un robusto salto di qualità rispetto alla pervasività del lavoro in ogni pertugio della vita biologica già tratteggiata da Byung Chul Han nelle sue opere*), si è assistito nei giorni del lockdown a una simpatica cantilena.

Questa nenia, riportata in ogni dove, diceva pressapoco così: “le persone hanno imparato a lavorare, fare scuola, divertirsi da casa e ne sono felici; si sono rese conto però che – alla moltitudine – serve più spazio, magari una stanza e un terrazzo in più con del verde attorno. E quindi vogliono cambiare casa!”.

Vero, certo. Peccato però che ci si è dimenticati di dire che a Milano – con la pressione della rendita e dei corifei che in ogni occasione la osannano, consciamente o meno – cambiare casa per ingrandirsi, soprattutto per l’ampia categoria dei “normali” ossia gente con redditi normali (che è spesso sinonimo di redditi bassi) è impossibile.

Qualche numero a sostegno di tale tesi: la RAL (Retribuzione Annuale Lorda) media a Milano per il 2019 è stata pari a 34.022 euro/anno**. Per 14 mensilità significa una RAL mensile di circa 2.430 euro. Se immaginiamo che i costi medi (comprensivi del nuovo e dell’usato) a Milano si attestano, secondo i rapporti OMI, a un valore di 4.150,00 €/mq, il conto è presto fatto. Per un minuscolo bilocale di 60 mq si sborsano, in media, 250.000 euro. Se ipotizzassimo che la persona con un RAL nella media volesse farsi un mutuo ventennale di 200.000 euro, al tasso dell’1,8%, avrebbe una rata di circa 1.000 euro. Pressoché il 50% della sua retribuzione lorda.

Ancor più insidioso è il tema degli affitti. In questo caso prendiamo ad esempio l’affitto massimo applicabile nella categoria del cosiddetto “ERS”, ossia l’Edilizia Residenziale Sociale. In questo caso il canone di affitto annuo è il 5% del valore massimo di assegnazione degli alloggi in edilizia convenzionata agevolata. Considerando tale valore massimo in circa 2.400 €/mq, otteniamo un canone di 120 €/mq anno. Traducendolo in spazio vitale significa che per il solito minuscolo bilocale di 60 mq l’affitto mensile netto è pari a 600 €/mese. Se aggiungiamo l’IVA – costo fisso se a locare è una società – arriviamo a 660 €/mese; se sommiamo spese risicate nell’ordine di 100 euro al mese arriviamo a un affitto – per una casa da existenzminimum 3.0 (60 mq commerciali significano circa 48 mq netti calpestabili) – pari a circa 760 euro al mese. 

Se lo compariamo, in questo caso, al reddito netto di un infermiere milanese – che è paria a circa 1.600 euro/mese*** – anche qui il gioco è fatto: per vivere in una gabbia di criceti per umani, ci si brucia pressoché metà del reddito. Definendo questa come risposta “sociale”. Non ci siamo, insomma.

Di cosa stiamo parlando? Di una narrazione che fa a pugni con la realtà.

E, sia chiaro, le ricette non stanno solo nell’ampliamento della dotazione di spazi comuni nei complessi – cosa meritevole e che deve diventare norma in una dimensione di collettività funzionale; serve una continua, trasversale, solida azione politica a sostegno di processi di riequilibrio delle naturali distorsioni di mercato.

Da un lato agendo su norme urbanistiche in grado di impattare significativamente sugli obiettivi, in una prospettiva di radicalismo responsabile che porti a contemperare gli interessi di tutti, con al centro la meta della costruzione di una città equa. Dall’altro facendo sì che le energie e le risorse pubbliche siano indirizzate senza indugi verso interventi a sostegno di progetti di profonda ristrutturazione edilizia e sociale dei quartieri di edilizia economica e popolare, lasciando l’edilizia sociale – nelle varie forme di social housing – alle autonome forze di mercato, facendo sì che vi sia una virtuoso reindirizzamento di parti di rendita verso risposte capaci di riequilibrare le disuguaglianze.

Una città più giusta non è solo interesse di chi crede in principi di uguaglianza e giustizia sociale. Una città più giusta ed equilibrata è interesse di tutti. Una città giusta è l’alternativa a una città assediata e militarizzata. Una prospettiva che nessuno, ne son certo, si augura.

*Si vedano, ad esempio, “Nello Sciame. Visioni del digitale”, nottetempo, 2015 e “Psicopolitica”, nottetempo, 2016.

**JP Salary Outlook, www.jobpricing.it.

***CCNL comparto sanità 2016-2018

Il presente testo è stato scritto per il libro “8 racconti per Milano. Verso un nuovo progetto di città.”, a cura di Paolo Galuzzi, Andrea Lavorato e Giorgio Vitillo, edito da Assimpredil Ance, dicembre 2020.

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