Milano

Milano e una maschera da gettare

12 Ottobre 2016

La notizia è di ieri, ed è stata amplificata da più parti e in particolare da Sky Tg24: Milano ha superato Roma quanto a presenze turistiche. Molti di noi, compreso chi scrive, sono stati chiamati  a commentare e a giustamente valorizzare questo traguardo importante – e non casuale – raggiunto dalla nostra città. Milano, del resto, ha lavorato bene, nel corso degli ultimi anni, al potenziamento della propria capacità di attrazione, alla valorizzazione del proprio patrimonio artistico e culturale e in generale alla riqualificazione del proprio arredo cittadino nel centro città. Al contrario, le più tradizionali città d’arte italiane, ma più nello specifico le città che fin dal dopoguerra avevano goduto di ampi flussi di visitatori, si sono adagiate su posizioni di rendita che ne hanno minato la competitività; obbligandole talvolta, nel corso dei decenni, a competere sul costo anziché sull’offerta, con la conseguente esposizione a una concorrenza internazionale che altri luoghi, in tal senso, hanno potuto svolgere con difficoltà ampiamente minori.

Milano, peraltro, ha saputo valorizzare e attrarre segmenti di mercato come la moda, il design e anche la cultura che attirano turisti – soprattutto business – più consapevoli e più complessivamente attenti a quel che le città offrono (oltre che alla valorizzazione della propria attività).

Tutto bene, dunque? No. L’importanza del traguardo raggiunto è evidente; ma, ora che qui si è arrivati e ora che l’Esposizione è passata, si tratta di vincere (finalmente) la sfida forse più importante, e sicuramente più legata ai “tempi lunghi” della città e dei suoi cittadini. La sfida per colmare il gap, il doppio passo che è venuto a crearsi – nel corso dei molti anni di crisi – fra il centro (il centro città, le filiere produttive, i centri culturali) e la periferia. È infatti possibile affermare che mai Milano sia stata socialmente polarizzata come lo è stata in questi ultimi anni. In passato, lo sforzo profuso dalle grandi correnti di pensiero novecentesche (quella socialista e quella comunista, quella cattolica e quella del welfare in generale, e anche sicuramente dall’antagonismo sociale) e la loro sostanziale condivisione di almeno un obiettivo comune – il progresso culturale e sociale dei cittadini milanesi – hanno consentito alla città di avvicinare, anziché allontanare, le classi sociali. Uno sforzo che si traduceva dunque anche in una situazione reddituale nettamente migliore rispetto a tutte le altre province italiane, con una forbice fra Milano e le altre città che si restringeva in occasione dei boom economici e tornava ad ampliarsi nei momenti di crisi, a testimoniare una maggiore capacità di “tenuta” da parte del capoluogo lombardo. Una migliore situazione dal punto di vista del reddito da cui sono sempre derivati, naturalmente, maggiori consumi e maggiori risparmi, anche in una fase storica recente in cui il peso del costo “abitazione” (pari a oltre un terzo del reddito disponibile) ha contribuito a comprimere e soffocare altre tipologie di consumi. Ciò che ha anche storicamente consentito ai milanesi, infine, di disporre di risorse più grandi nei momenti di crisi.

Tutto questo, oggi, sembra essersi arrestato. Nel corso degli anni immediatamente prima e subito dopo l’Expo, la città ha mostrato di sacrificare le periferie alle esigenze del centro. Se ciò poteva essere in qualche modo giustificato all’interno di quella contingenza, appunto, ormai non lo è più. La situazione sociale nelle periferie non è rassicurante. Il centro città e – addirittura – il semi-centro paiono luoghi del tutto diversi. Emergenze come la casa, il lavoro e la coesistenza nei quartieri fra le diverse comunità (e fra i cittadini di antico, di recente e di nuovo insediamento) richiedono una risposta importante e immediata. Questa è la sfida, una sfida che non può essere ulteriormente posticipata e che chiama le classi dirigenti cittadine a una battaglia che non possono far altro che sapere, volere e potere vincere. Per la città, innanzitutto, e per qualificare veramente, e finalmente, il lavoro fatto in questi anni come un lavoro svolto per tutti e non per i soliti noti. Una sfida che può essere vinta a due condizioni: se le periferie saranno poste al centro dell’azione politica; se Milano sarà tenuta al riparo dagli scontri di potere nazionali.

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