Milano
Da imbruttiti a piangina: cosa vi è successo, milanesi?
Non ho dovuto andar via da Milano, per sapere che era il top di gamma. Ogni città ha i suoi cantori fuori sede, c’è chi se ne parte senza conflitti, in pace col mondo, chi la mena con l’esilio, e chi, infine, si ritaglia la figura dell’incompreso. Per stare bene “almeno” come a Milano, ho scelto Roma, improbabile e slabbrata, ma ancora di una bellezza accecante. L’ultimo che ha vinto, qui in terra straniera, è stato proprio il milanese più imbruttito della storia, nostro zio Silvio, che ha portato i cagoni al potere per buoni dieci anni. Finita la pacchia del Caimano, come lo chiamava la buonanima del Cordero, Roma non si è più rialzata, come l’avessimo bruciata proprio noi milanesi. Che infatti abbiamo goduto. Morta la politica, le aziende editoriali hanno lasciato Roma, puntando solo su Milano. Sky, Mediaset, le redazioni dei quotidiani, tutte via. Hanno lasciato un tapino col microfono acceso davanti a Palazzo Chigi e stop. Milano ha incassato, mettendo dei muscoli sempre più smerigliati. Va ricordata subito una cosa, ai milanesi più dimentichi: la grande impresa a Milano l’ha fatta Giuliano Pisapia. Non avvertì nessuno, neppure Vendola, lui che era un indipendente in Rifondazione. Uscì un’agenzia: “Mi pare ci sia uno spazio, mi candido”. Gli telefonai: “Pensi che io sia matto?”, mi disse. Tutt’altro, risposi. Sapevo che un avvocato sveglio come lui, buonissimi clienti nella buona borghesia, ma estremamente consapevole delle necessità degli ultimi, avrebbe spaccato. Da allora, a Milano è un’altra storia. Ha vinto persino un destro come Sala.
Un giorno di molti anni fa, Cairo mi fece sapere che voleva vedermi. “Alle sette al Four Season”, una delle viuzze attaccate a Montenapo. Lavoravo in un quotidiano rivoluzionario, era Metro, di un gruppo svedese. Gratuito, notizie brevi, molte di servizio. Che scuola. Mi disse che l’idea gli interessava per farne uno analogo, ma sportivo, ci lavorò molto ma poi nulla. Quella sera fu divertente: il gruppo Cairo era appena sbarcato in Borsa e in cassa Urbanetto aveva un bel 200 fresco fresco. “Mi stanno offrendo di tutto in questi giorni, mi chiamano in continuazione, oggi mi hanno appena proposto la Fiorentina”. Sembrava molto divertito da tutto quell’interesse “spontaneo”, che pesava ovviamente per il valore effimero che aveva.
Ecco, ho ripensato spesso a Cairo e a quel giorno, assistendo alla centrifuga milanese di questi anni. Quando da ogni dove, e con il piattino lacrimevole in mano, con la preghiera “per favore, accettateci!”, entità di varia natura si presentavano sull’uscio della municipalità pietendo attenzione. Che fossero il salone di Torino, piuttosto che i Giochi invernali, che avranno nella montagnetta di San Siro lo zenit dello spirito olimpico. E moltissimo di altro. Ma insomma, le grandi braccia di Milano, che accoglie per definizione, si sono spalancate sin quasi a fratturarsi. Anche qua si tornerà solo per un attimo a un istante decisivo della storia di Milano, quel Primo Maggio del 2015, apertura Expo, quando i dannati spaccarono e bruciarono la città. Ancora gestione Pisapia. Il giorno dopo, dal basso, con un passaparola di enorme dignità, e soprattutto senza l’invadenza della politica, i milanesi uscirono dalle case con spugne e ramazze, pulendo le loro case. Restituendo il decoro perduto.
Passaggio commovente anche per un cinico osservatore. Fu lo scatto di Milano, che si consacrava a guida di un Paese. Tornai a Roma, che trovai intontita dalla bellezza del gesto. Sapevano perfettamente che sotto il Cupolone non sarebbe potuto succedere. Non tanto perché esistono cittadini migliori di altri, ciò è impossibile in natura, quanto per le nebbie e i porti che erano nati proprio in quei Palazzi del potere.
A un certo punto, tutto si azzera. Per un evento decisamente soprannaturale, quindi totalmente indipendente dalla politica, dalle politiche, dall’economia, dalle volontà personali e collettive. Il virus non ha trattato con nessuno. Ha deciso regole e condizioni. Tutti hanno sbandato, ma anche qui: l’epicentro in Lombardia non è il risultato di dissipatezze o irresponsabilità pregresse. Non esisteva una predisposizione lombarda. Dunque sarà utile sgombrare questo primo elemento dalle valutazioni possibili. E il giudizio sulle politiche messe in campo verrà dopo, quando i presupposti, sia critici che fattuali, avranno trovato capacità di analisi. Dopo tre mesi di guerra, purtroppo contiamo i caduti. Sono un’enormità. Ma non sono una colpa. Non possono essere una colpa, cristianamente parlando. Cercare dei colpevoli, significherebbe avere due “attori” consapevoli sulla scena, in modo da valutarne virtù e difetti. Ma uno dei due è inanimato, non si vede, non parla, uccide nel silenzio. Possibile che i lombardi, i milanesi soprattutto, non abbiano tratto questa profondità?
È abbastanza chiaro ormai, a Milano sentono di aver perso una verginità, quella condizione di onnipotenza che ha accompagnato questi ultimi anni. E si sono messi in difesa preventiva, sospettando dello sguardo assai poco indulgente dei “vicini di casa”. L’ecatombe ha prodotto un doppio, reciproco, sospetto: da Milano verso fuori, e da fuori verso Milano. Ma come ogni sospetto, qui non c’è un venticello, per cui lambiccarsi con le quattro stronzate della politica. Qui c’è stata un’ecatombe, una pandemia planetaria. E i sospetti, gli atteggiamenti più o meno sgradevoli, i cartelli appesi, il censimento delle seconde case, nascono da un istinto di sopravvivenza. C’è la vita in gioco, semplicemente. Poco nobile? Ovviamente. Ma vogliamo fare questioni di bon ton alla Lina Sotis? In queste ore, i milanesi alzano il loro muricciolo preferito; l’invidia sociale. In sostanza, dicono, l’altro Paese che non è la Lombardia, non aspettava altro che il nostro dramma per dileggiare, godere intimamente di questa disperazione collettiva, per dire: ecco, finalmente ci siete anche voi nella merda. Portabandiera sorprendente di questa bassa marea l’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, che così racconta ad Huffington Post: «Le posizioni sbrigative e sprezzanti contro Milano nascondono un’invidia sociale nei confronti di chi è stato sempre ritenuto migliore». Quindi De Bortoli certifica in maniera plastica un dislivello valoriale, c’è un’Italia migliore. E se c’è un’Italia migliore, facile scovare anche quella peggiore. E cosa si aspettassero, i milanesi, da questa “Italia peggiore”, era già ricompreso nel vittimismo di ritorno che hanno organizzato con lucidità: siamo accerchiati dal male, siamo le vittime designate di questa pandemia, piangiamo i nostri morti e non vogliamo la solidarietà di nessuno. Ma ci ricorderemo di voi, quando verrete a pietire qualche aiuto, un po’ il ragionamento elegante di Beppe Sala con la Sardegna.
Non è escluso che qualcuno goda per il dramma di Milano. Ma non è neppure escluso che più di un milanese si sia interrogato su come sia stato possibile che i terroni per la gran parte l’abbiano scampata. Questa è la vita, queste ne sono le dinamiche. Più o meno onorevoli. Altro è ragionare con lucidità, senza farsi trascinare da quel sottile piacere vittimista. C’è un tratto culturale, in tutta questa maledetta storia, che ai milanesi sembra apparire persino impossibile, oltre che insopportabile: è il pensiero che un evento esterno abbia potuto incunearsi in un tessuto ampiamente organizzato, che si credeva inattaccabile, lacerandolo disperatamente, senza la minima compassione, distruggendone elementi essenziali, strutturali, che facevano parte, essi sì, dell’impianto politico-sociale che era stato dato per vincente e come esempio virtuoso di buonissima amministrazione. È su questo aspetto che ameremmo sentire le parole sempre attente di Ferruccio De Bortoli. Perché un giorno ci sarà anche un dopo pandemia. Ci sarà da ritrovare ognuno una propria condizione. Arrivarci con un animo più pacificato è un obiettivo di legislatura.
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