Milano
Milano e il coraggio di cambiare
Dopo un periodo di espansione, la “macchina della crescita” che governa la città perde colpi e finisce sotto accusa. Milano risulta oggi più divisa, meno accessibile e meno capace di condividere il valore che genera. Le ricette che hanno accompagnato la crescita della città a cavallo tra Esposizione Universale e pandemia hanno oggi degli effetti imprevisti e indesiderati, in un contesto economico e sociale mutato. Abbiamo di fronte tre scenari alternativi: possiamo fare finta di nulla, sperando che passi la tempesta; possiamo tirare il freno a mano, interrompendo un percorso di crescita o possiamo provare ad adattarci ed evolvere. Per farlo però, abbiamo bisogno di trovare il coraggio di farci delle domande scomode, smontare e rimontare il Modello Milano dalle basi. Cambiare significa oggi ridefinire con chiarezza le priorità della città, mettendo al primo posto la produzione di benessere e qualità della vita per chi considera Milano il centro dei propri progetti di vita, la riduzione delle disuguaglianze e l’estensione delle opportunità. È tempo di rivedere in questa ottica tutte le principali progettualità della città, trovando un nuovo equilibrio tra interesse pubblico ed interessi privati, tra qualità della vita e attrattività. C’è un terreno di gioco tanto importante quanto significativo su cui applicarsi, che sintetizza simbolicamente il crocevia in cui ci troviamo: le Olimpiadi invernali del 2026. La classe dirigente politica milanese quasi non ne parla, se non in termini di cronoprogramma dei cantieri relativi agli impianti sportivi ed al villaggio olimpico. Ma non si ospita un grande evento internazionale solo per investire in infrastrutture. È il momento di chiedersi che ruolo possono avere le Olimpiadi per città, che benefici possono portare, quale può essere la loro funzione pubblica in termini di contributo all’evoluzione della traiettoria di sviluppo della città.
Milano, abbiamo un problema. Inutile negarlo.
“Proteggiamo i deboli o diventeremo una città solo per anziani agiati. È arrivato forse il momento di guardare in faccia i problemi, ragionare tutti insieme per arrivare a una sintesi decisiva per il futuro”. Quando a lanciare l’allarme è uno degli architetti più stimati in città, che più di altri ha contribuito a costruire, letteralmente, l’immagine di una città moderna e verticale, allora forse vuol dire che qualche cosa che non gira per il verso giusto c’è davvero.
L’intervista di Stefano Boeri a Repubblica dello scorso fine settimana arriva a valle di un biennio in cui si è via via sempre più dibattuto sullo stato di salute di Milano, mettendo a fuoco alcune delle criticità collegate al modello di sviluppo su cui si basa la città di Milano (per chi volesse approfondire, il consiglio spassionato è quello di iniziare con “L’ultima Milano, cronache dai margini di una città”, di Jacopo Lareno Faccini e Alice Ranzini, pubblicato da Feltrinelli nel 2021 e “Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo”, di Bertram Niessen, UTET 2023; qui invece il sunto di serie di libri e articoli utili per una più rapida rassegna delle questioni critiche).
Il modo in cui funzionano i media oggi non aiuta a creare un discorso equilibrato: vengono sovraesposte le voci più polemiche, si semplificano le argomentazioni, si ricerca una polarizzazione più marcata della realtà, si mescolano analisi e opinioni, dati ed aneddoti, pompando titoli urlati alla ricerca di click. Approfitto di questo spazio indipendente per articolare meglio alcune riflessioni che mi è capitato di condividere in alcune conversazioni pubbliche e private, negli ultimi tempi, per provare a contribuire in maniera costruttiva ad un discorso sulla città ormai non più procrastinabile (nota personale: guardando la cronologia di questo blog, riprendere a scrivere di Milano fa un certo effetto, dopo anni caratterizzati da cambiamenti di vita ed evoluzioni lavorative, passando dalla Lombardia alla Puglia e viceversa, dal settore pubblico a quello privato).
Una città divisa in due.
E dunque, come sta Milano oggi? Il problema è che non è possibile rispondere a questa domanda in maniera univoca, per due ordini di motivi.
Da un lato perché si registrano, allo stesso tempo, dati positivi ed incoraggianti (la ripresa dei flussi turistici, l’incremento dei valori immobiliari, il moltiplicarsi degli investimenti, l’apertura di cantieri sfidanti, il successo delle settimane della moda e del design, i numeri che fanno registrare concerti ed eventi culturali, l’interesse degli studenti internazionali per le nostre istituzioni educative) e segnali fortemente preoccupanti (l’acuirsi delle disuguaglianze in città, la diffusione di forme di lavoro povero, precario, con poche tutele e confini temporali, i prezzi degli affitti senza controllo, i dati preoccupanti relativi alla dispersione scolastica e al fenomeno dei neet, le problematiche connesse alla sicurezza stradale e alla scarsa qualità dell’aria, l’affievolirsi delle reti di prossimità, la carenza di spazi di socialità e cultura slegati da dinamiche di consumo, l’acuirsi di tensioni sociali e problemi di salute mentale, soprattutto per i più giovani, basta guardare i recenti rapporti curati da Fondazione Ambrosianeum e Fondazione Cariplo per farsi una idea).
Quel confine chiamato classe.
Dall’altro perché la risposta alla domanda “Come sta Milano oggi?” varia molto a seconda della prospettiva da cui si guardano alle cose. Dalla classe sociale di appartenenza, direbbe qualcuno. È indubbio che ci siano molte persone che vivano bene a Milano e che abbiano accresciuto il loro benessere in questi ultimi 10 anni. Milano funziona (ancora) molto bene per chi ha un buon lavoro (e per chi punta ragionevolmente ad averlo), per chi ha risorse economiche da investire e spendere (anche per venire in città a formarsi nelle ottime università o per provare a fare qualche cosa nuova), per chi ha rendite da mettere a frutto, per chi è capace di presidiare reti e relazioni che vanno oltre la città (e l’Italia), per chi è proprietario di casa e vede il valore della sua casa aumentare, per chi trae beneficio dai flussi in entrata generati da turisti ed eventi, per esempio. Non sono pochi a beneficiare dell’intensità economica della città. Ci sono però tanti altri che fanno oggettivamente più fatica, perché per loro risulta difficile se non impossibile stare al passo con l’innalzamento dei prezzi in città. E non si tratta “solo” di chi è più povero, di chi lotta contro delle difficoltà personali o familiari, di chi arriva in città da altri Paesi e si trova a cominciare da zero, dei lavoratori più precari (quanto si è parlato dei riders?), ma anche di chi ha un lavoro stabile ma retribuito relativamente poco (i giornali e la pandemia ci hanno fatto “scoprire” i guidatori di autobus e tram, i docenti scolastici, i lavoratori essenziali), di chi vede la propria famiglia allargarsi (magari nasce perché una nuova figlia, o perché i bambini diventano adolescenti), vorrebbe trovare una nuova soluzione abitativa ma scopre che non è più così facile farlo nel quartiere in cui ha vissuto nell’ultimo periodo di vita, magari anche investendo nella creazione di relazioni sociali che fanno bene, Per non parlare di chi senza avere le spalle coperte si trasferisce in città per studiare, iniziare la propria carriera lavorativa o provare a fare impresa e scopre che è molto più complicato del previsto. O di chi per ragioni economiche e di opportunità vive in Provincia e lavora a Milano, toccando con mano quanto queste due realtà si stiano allontanando.
Ascensore sociale inceppato.
Sono difficoltà queste che sono in una certa misura sempre esistite, è inutile negarlo. La sensazione è che si stiano acuendo. E che stiano portando una porzione di milanesi sempre più consistente ad essere espulsi dalla città, a valutare alternative di vita in altre città, scegliendo di andarsene. Per motivi economici ma anche perché alla ricerca di una migliore qualità della vità, di un migliore equilibrio. Riflessioni analoghe fanno un sottoinsieme di persone che valutano se valga la pena di trasferirsi a Milano. A pesare è anche il fatto che sull’altro piatto della bilancia, quello delle opportunità, l’offerta appare per certi versi sempre meno ricca. Le luci della città, lo stile di vita urbano, la promessa di divertimento e novità sono sempre attrattive. Ma che succede se poi in città si vive vale, si sopravvive a malapena o non ci si riesce a vivere proprio?
Per chi produce valore Milano? La carica di chi utilizza la città.
Come si spiegano le due facce di questa medaglia? Può la stessa città essere allo stesso tempo luogo di eccellenze, opportunità, lusso e libertà ed un contesto dove vivere è sempre più faticoso? Il punto da mettere a fuoco è che quando parliamo di attrattività della città e di qualità della vita in città non stiamo necessariamente parlando dello stesso universo di persone.
La platea di persone e soggetti che gravitano attorno a Milano non coincide con le persone che vivono a Milano. Anzi. Al netto di chi pendola su Milano per motivi lavorativi (categoria che siamo tradizionalmente abituati a “concepire”), la quantità di persone che gravitano intorno a Milano è nel corso degli ultimi dieci anni significativamente cresciuta per almeno 5 fattori tra cui: 1) il percorso di apertura ed internazionalizzazione che si è consolidato a partire dall’Expo del 2015, che ha generato nuovi flussi turistici ed economici; 2) eventi come la Brexit che hanno spostato organizzazioni e flussi di investimento da Londra ad altre città europee tra cui Milano; 3) le scelte di investimento della classe media italiana che, in un’Italia economicamente in crisi hanno valutato di puntare sulla tenuta del mercato nel mercato immobiliare milanese; 4) la diffusione dello smart working nel periodo post pandemia; 5) la crescente attrattività dell’ecosistema locale della formazione superiore (le università milanesi e non solo).
Milano ha in questi anni imparato ad attrarre e relazionarsi con un numero crescente di interessi e “city users”, che in proporzione ai residenti stanno assumendo un’importanza sempre più significativa (anche in termini di “attenzioni” che ricevono). Sono risultati questi frutto di scelte ed investimenti economici ben precisi fatti dall’ecosistema istituzionale milanese. Risultati di cui andare anche orgogliosi, invidiati da tanti altri contesti locali. Sono segno di un contesto sulla carta vitale.
La cinghia di trasmissione è saltata nel 2019.
Dove sta il problema, dunque? La questione è che negli anni più recenti sembra essersi determinato uno scollamento tra questo dinamismo e la sua traduzione in benessere per i cittadini milanesi. Se prendiamo l’andamento dei valori immobiliari in città come indicatore di riferimento per misurare l’attrattività della città, vediamo come negli ultimi 10 anni Milano abbia preso una traiettoria diversa da quella delle altre città italiane, acquisendo valore. Se però andiamo a guardare il rapporto tra i valori immobiliari ed il reddito pro capite in città (i grafici che vedete qui sotto sono elaborazioni di Filippo Celata, che insegna geografia economica alla Sapienza di Roma), ci accorgiamo che mentre i due indici sono cresciuti insieme nei 5 anni che vanno dal 2015 al 2019, a partire dal 2020 in poi le loro strade sembrano essersi divise.
Le avvisaglie di questo disaccoppiamento si registravano anche prima del Covid, ma questa tendenza sembra si stia rafforzando. Il motore economico della città è per certi (?) versi ripartito (anche freneticamente, a vedere i dati dell’ultima Design Week), ma sembra essere meno in grado di “scaricare” a terra il valore che si genera, rendendo meno chiari i benefici derivanti dal percorso di crescita che la città ha con tanta fatica intrapreso.
Il coraggio di farsi domande scomode.
Che vantaggi porta una maggiore attrattività economica di una città, se questa non si traduce in qualità della vita per chi ci abita? Che senso hanno miliardi di investimenti, se producono più disuguaglianze? Dove finisce tutto questo valore che comunque si genera? Chi lo “cattura”?
Come mai è più difficile condividere i benefici derivanti da un rinnovato dinamismo economico, proprio mentre la torta si allarga?
Milano deve avere il coraggio di rispondere a queste domande, di guardarsi allo specchio per capire cosa non sta funzionando come prima, correggere la rotta per trovare una nuova sintesi tra crescita ed inclusione. Anche in questo campo non basterà riprendere a “fare come prima”.
Gli indizi delle cose a cui prestare maggiore attenzione si stanno stratificando: su un virtuale banco degli imputati ci sono le dinamiche finanziarie e speculative del mercato immobiliare, i processi di rigenerazione urbana ed il sistema degli eventi. Dobbiamo evitare però di cadere in sommarie semplificazioni. Apprendendo a discernere, in ogni ambito, cosa contribuisce a generare valore pubblico e benessere collettivo e cosa invece stimola rendite e disuguaglianze.
È un lavoro che va fatto con impegno e urgenza. Non resta molto tempo per farlo.
Tre scenari possibili: fare come se nulla fosse, tirare il freno a mano, adattarsi ed evolvere. Su quale scommettere?
Al netto di mutamenti macroeconomici e geopolitici che ad oggi non è possibile prevedere, la città ha di fronte tre ipotetici scenari.
Uno. Fare come se nulla fosse, scommettendo che le difficoltà che la città sta attraversando derivano da fattori congiunturali ed esogeni. Tutto sommato non c’è molto da cambiare, le traiettorie di sviluppo che stiamo perseguendo funzionavano e torneranno a funzionare. Cerchiamo di fare il nostro lavoro al meglio e tutto si sistemerà. Di carne al fuoco ce n’è tanta in termini di progetti. Le cose gireranno per il meglio. Il rischio, se questa valutazione si rivelasse errata, è quello di proseguire (non si sa con quale velocità) in un verso che potrebbe portare a diventare una città più escludente, divisa, anziana e ripiegata (come sembra suggerire Boeri), anche più noiosa, poco interessante e meno capace di produrre innovazione (aggiungo io), nel momento in cui per espulsione e per effetto di sostituzione della popolazione ci dovessimo ritrovare ad attirare solo persone che si possono permettere di vivere in una città più costosa. Sapevate che su 10 cittadini milanesi, solo 4 risiedevano in città 15 anni fa? Un turnover significativo, un altro segno del dinamismo della città, che genera effetti che ancora non sappiamo pienamente valutare, in termini di diversità interna e “attaccamento alla città”. Se la maggior parte dei milanesi inizia a sentirsi un abitante temporaneo o un utilizzatore della città, chi avrà voglia di dedicarsi ad investire nella rigenerazione della sua infrastruttura politica e sociale? La città piattaforma potrebbe finire per diventare uno strumento di interessi altri da quelli dei suoi residenti.
Due. Tirare il freno a mano. Rifiutare quel che questi ultimi anni ci hanno portato, se si pensa che alla fine le cose che sono “arrivate” sono più problematiche che positive. Identificare altri obiettivi e altre priorità per la città. Capire come fare marcia indietro. Chiudersi, proteggersi, rivedere al ribasso la traiettoria di crescita della città, se non la si ritiene più desiderabile. Un’opzione difficile da concepire, se portata alle sue estreme conseguenze. Magari capace anche di generare consenso nel breve periodo, ma molto complessa da attuare sul piano pratico, soprattutto per quanto riguarda la definizione dei percorsi di sviluppo da perseguire, la loro sostenibilità, la loro capacità di generare progresso per una fascia significativa di persone.
Tre. Adattarsi ed evolvere, mettendo anche radicalmente in discussione le proprie ricette per lo sviluppo, trovando una nuova sintesi tra crescita e inclusione, adatta ai tempi che vivremo. Tra le tre, forse la via più stretta e complessa, perché comporta uno sforzo extra di analisi del contesto e di valutazione degli impatti di quanto si sta facendo ed una rinegoziazione di obiettivi, priorità e modalità di azione. Un processo che in parte già sta avvenendo (gli stimoli arrivati dal Forum dell’Abitare promosso dall’Assessore Maran per mettere a fuoco una nuova strategia per la casa ne sono la testimonianza), ma potrebbe portare frutti ancor più importanti se allargato a tutti i dossier principali che hanno a che fare con le traiettorie di sviluppo della città: Urbanistica, Promozione dello Sviluppo, Cultura, Ambiente, Mobilità per fare degli esempi.
Una nuova bussola: la qualità della vita di chi vive in città
La chiave del successo di questo terzo scenario, che personalmente considero quello più opportuno, interessante e generativo, sta nel ridefinire con chiarezza le priorità della città, mettendo al primo posto la produzione di benessere e qualità della vita per chi considera Milano il centro dei propri progetti di vita, la riduzione delle disuguaglianze e l’estensione delle opportunità. È su queste basi che si può valutare se, come e con chi rivedere le politiche e le progettualità della città (adattandole al mutato contesto internazionale e nazionale), chiedendosi, strategia per strategia, decisione per decisione, come è possibile massimizzare il contributo delle azioni messe in campo dalla Pubblica Amministrazione e come regolare e indirizzare gli investimenti privati in questa direzione.
Puntando a contenere il costo della vita in città, all’incremento dell’offerta di servizi pubblici accessibili a tutte e tutti (re-investendo sul trasporto pubblico, nidi, scuole, centri di aggregazione giovanili e spazi socio culturali), sulla qualità degli spazi pubblici e delle aree verdi (nei luoghi di vita ordinaria dei milanesi e non solo nei nuovi sviluppi futuri), stimolando la partecipazione dei residenti alla vita sociale e democratica della città e ponendosi l’obiettivo di connettere maggiormente le filiere produttive ed economiche locali ad i flussi di investimento internazionali, affinché qualificarsi e condividere una porzione maggiore del valore economico generato dalla maggiore attrattività della città.
Tanti di questi obiettivi sono già nel mirino del governo locale milanese (ci sono piani e progetti ambiziosi che lo dimostrano). Serve il coraggio e la determinazione per farli diventare la bussola di un nuovo paradigma di sviluppo, per costruire il consenso ed il contesto regolatorio necessario a dare le gambe ad un nuovo ruolo pubblico su scala metropolitana, reperendo al contempo nuove risorse da investire.
Dossier scottanti e difficili da affrontare
Ci sono ambiti di lavoro che a prima vista sembrano quasi impossibili da aggredire. Ancora di più di fronte ad un più marcato disallineamento politico con il governo regionale lombardo e con quello nazionale. Ma sarebbero evidenti i benefici che potrebbero derivare, per esempio, da una migliore integrazione di ATM e Trenord (per incrementare ed estendere gli orari dei servizi di mobilità offerti alla città metropolitana e alle province che confinano con Milano, rendendo la vita più facile ai pendolari e contribuendo ad alleviare la “febbre” del mercato immobiliare milanese), da una gestione più omogenea delle case popolari della Regione (in carico ad ALER) e di quelle del Comune (gestite da MM) e da una più incisiva regolamentazione di affitti brevi e contrasto alle rendite (rendendo meno conveniente, per i singoli, l’acquisto e il possesso patrimonio immobiliare non direttamente collegato alla soddisfazione delle esigenze di vita della propria famiglia). Per cui avrebbe senso sforzarsi di costruire una rete di alleanze multilivello. Facendo leva su quel che Milano può dare al resto del Paese.
Le cose che si possono fare
Ci sono però, in ogni caso e in ogni ambito, delle cose che si possono fare, per indicare anche simbolicamente una direzione ed affermare nuove priorità. E lo si può fare proprio a partire da quei temi che più sono accusati di “catturare” il valore generato dal dinamismo della città: rigenerazione urbana e attrattività.
Sul primo fronte, sarà fondamentale seguire passo passo l’implementazione dei tanti progetti di qualità presentati al recente dal Comune all’interno del “Forum Rigenerazione Urbana”, per assicurarsi che siano ancora attuali, attuabili e che producano il massimo valore sociale ed ambientale possibile per la città. È strategico creare consenso attorno al fatto che solo in una città viva e inclusiva si può generare una crescita condivisa. Un processo che per altro già sta avvenendo, con esiti alterni, rispetto a quanto ipotizzato per lo sviluppo degli scali ferroviari iniziando ad interloquire con FS Sistemi Urbani – chiedendosi se non abbia senso aumentare la componente di volumetrie destinate all’housing sociale – o rispetto alla vicenda di San Siro – in cui la discussione si è incagliata proprio sulla valutazione relativa al contributo che il progetto presentato darebbe alla città e al quartiere San Siro, oltre che alla solidità economica e alla competitività delle due società sportive. O come sta facendo autonomamente Intesa Sanpaolo, da un altro punto di vista, rispetto allo sviluppo del grande progetto di MilanoSesto.
Per quanto riguarda il filone attrattività, può essere utile fare il tagliando al paradigma delle Week, il sistema degli eventi diffusi nato per mettere a fattore comune promozione economica, turistica e culturale della città. Il meccanismo ispirato da FuoriSalone, Book City e Piano City soffre paradossalmente del suo successo. Il calendario si è affollato forse troppo e la partecipazione di parte della città sembra essere meno spontanea. Più lavoro e meno festa. Se da un lato è aumentata la consapevolezza del valore economico e turistico di queste iniziative, dall’altro densità e frequenza rendono per i milanesi gli appuntamenti un po’ meno rilevanti. E gli effetti sulla congestione della città in certi frangenti si fanno notare. Anche in questo caso si tratta di una “crisi di crescita”. Straordinario esempio di attivazione collettiva, e “week” sono utilizzate anche per provare ad “attivare” le zone meno centrali della città. Ma in un contesto mutato generano oggi discussioni ambivalenti, tutte da approfondire (come testimonia lo scambio su ArchPaper tra Andrea Bagnato e Joseph Grima e Valentina Ciuffi rispetto all’esperienza di Alcova). Allo stesso modo, proprio quegli operatori e quel pubblico locale che costituiscono la base su cui queste iniziative si reggono, appaiono frastornati da un motore che a tratti sembra andare fuori giri, percependo di ricevere forse minori benefici dal partecipare a questo gioco collaborativo (a fronte di una partecipazione generale che in alcuni casi si è fatta molto più popolare). E tempo di riprogettare anche questo modello.
Dove è finita quella spinta dal basso?
Ad affievolirsi o a venire meno, in questi due ambiti specifici ma non solo, sembra essere il contributo di quelle realtà associative ed imprenditoriali piccole e medie che in modo genuino ed appassionato avevano contribuito a rivitalizzare la città negli anni a cavallo di Expo. I motivi sono anche in questo caso tanti: in parte la loro spinta si è affievolita (la pandemia ha lasciato segni pesanti anche in questo senso), in parte il loro contributo si è diluito perché all’aumentare della strutturazione delle progettualità è diventato più affollato e più competitivo lo scenario di riferimento, in parte si è attenuato lo sforzo di coinvolgimento messo in campo dai soggetti istituzionali.
A paradosso si aggiunge paradosso, da ultimo, se consideriamo che in alcuni casi stiamo parlando delle stesse realtà che negli anni si sono sforzate di migliorare la qualità della vita delle periferie della città, rispondendo a bisogni sempre più pressanti, aprendo ed animando spazi ibridi di socialità, cultura e scambio. Lo hanno fatto con una tensione positiva tra impegno politico, attività di volontariato e imprenditoria sociale, che spesso le ha portate ad accettare di affrontare rischi più grandi di quelli che erano in grado di gestire, con esiti certamente da valutare con attenzione, ma appare ingeneroso ed eccessivo il fatto che sia oggi attribuita a loro la colpa di determinare processi di gentrificazione in quegli stessi quartieri in cui spesso sono state le prime a far qualcosa di utile, come ha fatto notare Federica Verona in un recente commento su Repubblica Milano.
La sensazione è che solo recuperando questa spinta dal basso sarà possibile affrontare con successo le sfide che la città ha di fronte.
Le Olimpiadi del 2026: da elefante nella stanza a banco di prova per un nuovo modello di sviluppo
Guardare in faccia a questa complessità non è facile, ma neanche impossibile.
Ed è ancora più importante farlo negli anni che accompagneranno il centrosinistra milanese verso la fine del suo terzo mandato consecutivo al governo della città. Per trovare obiettivi e battaglie attorno a cui ritrovarsi, rigenerandosi.
C’è un terreno di gioco tanto importante quanto significativo su cui applicarsi, che sintetizza simbolicamente tutte le cose di cui abbiamo parlato in questo articolo: le Olimpiadi invernali del 2026. La classe dirigente politica milanese quasi non ne parla, se non in termini di cronoprogramma dei cantieri relativi agli impianti sportivi ed al villaggio olimpico. Ma non si ospita un grande evento internazionale solo per investire in infrastrutture. È il momento di chiedersi che ruolo possono avere le Olimpiadi per città, che benefici possono portare, quale può essere la loro funzione pubblica in termini di contributo alla traiettoria di sviluppo della città.
Expo ha avuto senso perché ha contribuito ad un passaggio di fase di Milano. Ha dato il là ai processi di internazionalizzazione della città, ha stimolato una riflessione sui sistemi alimentari sostenibili di cui il Comune di Milano si è fatto capofila con il Milan Urban Food Policy Pact, ha restituito alla città una incredibile porzione di città pubblica con la riapertura della Darsena. Cosa possiamo dire oggi dei Giochi Olimpici invernali? In che modo potranno contribuire alle nuove priorità della città? In che modo potranno migliorare la qualità della vita delle milanesi e dei milanesi? Può un grande evento internazionale contribuire a rispondere a questi bisogni? Può contribuire all’evoluzione di un sistema sociale ed economico locale?
È urgente darsi una risposta presto, perché altrimenti si tratterà solo di una grande corsa verso un traguardo che rischia di generare pochi benefici o di essere addirittura controproducente, se non si troverà modo di invertire tante delle tendenze di cui abbiamo parlato.
Si tratta di una sfida doppiamente interessante, perché è evidente che per raggiungere obiettivi diversi, per produrre un valore diverso, non basterà replicare le stesse ricette che hanno funzionato 10 anni fa. Avremo il coraggio di riconoscerlo e reagire?
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