Milano

Milano: anime e visioni

22 Aprile 2018

Uno come me
scarpe bianche come me
abitava le ringhiere a nord della città

PFM Maestro della voce

Milano con il sole è ancora più bella. Toh guarda, anche a Milano fioriscono le piante, ah ma a Milano ci sono anche dei bei monumenti. Alcuni famosi in tutto il mondo.
Che bello, c’è il bike sharing, il car sharing, il coworking, i fighetti, il calzino corto, il risvoltino, i tatuaggi, le barbe, i piercing, le montature degli occhiali alla Elton John, i colori sgargianti e le camicie bianche, le banche, i produttori di cultura, le università, una visione smart, il bello, la qualità e l’eccellenza; siamo in testa alle classifiche dei posti da visitare, ci ricordano quanto è bello viverci insieme a i suoi sarti e i suoi industriali. Concita che, forse, vorrebbe viverci ma, ahi lei, vive a Roma e chennesa. Però, come sono bravi a Milano. Milano è viva.
La Milano della borghesia delle cognate (dopo quella dei cognati), una di governo e l’altra di lotta (una con Silvio, l’altra col subcomandante Marcos). Ma anche quella dei fratelli che lo stesso giorno sono in tv, uno a parlare di povertà e l’altro di ricchezza (il bosco verticale non è uno posto per impiegati, direi). Milano è una città che è diventata policentrica (City life, Darsena, Gae Aulenti). Lo skyline si è arricchito e al Duomo, al Pirellone, alla Torre del parco e a quella Velasca ha aggiunto il palazzo delle Regione, quello Unicredit, quello Allianz, quello Generali e poi arriverà quello di PWC. Tutto bello, tutto con il brand.

Policentrismo del benessere, la città con il reddito più alto si è dimenticata delle periferie, al plurale, ma che nella narrazione, da Sala agli uninominati, sono trattate come un moloch senza identità. Le periferie, che se non ci viene il Papa, nessuno si vuole ricordare che esistono. Eppure sono vivissime e c’è sempre dello stupore se qualcosa di buono arriva da lí, ed è in larga parte “autoprodotto” e senza logo. Al contrario, Renzo Piano tra le case popolari è stato solo un effimero colpo di marketing, nulla di più.

Milano ha deciso di ripartire dai primi (i ricchi) e non dagli ultimi: la famosa visione Albertini, tutta fondi e fondazioni.
I quartieri popolari sorti negli anni sessanta e settanta (ma anche l’Umanitaria di Moise Loria di inzio novecento) hanno tutti un teatro e una biblioteca come ce li hanno gli oratori. Il sacro e il laico. C’era l’idea del diritto alla cultura, all’aggregazione, forse non al bello ma almeno al sapere. Adesso quelle zone sono quantomeno trascurate dall’amministrazione, che si ricorda di loro solo quando si devono cercare voti.
Allo stadio andavano tutti insieme, i posti erano di due o tre categorie. C’erano i popolari e i distinti. Due aggettivi che, diventando sostantivi, facevano di San Siro uno dei cuori pulsanti della città (ora ci si va in tubino nero). Oggi lo chic è un valore, a prescindere. Il design è vivo, è uno degli apostoli della resurrezione post industriale della città, solo di una certa parte della metropoli, però.
Al Giambellino la moda e la zona Tortona (distante solo 5/6 fermate di tram e una di treno) sono echi di un altro mondo. Di un’altra visione della vita.
Milano accoglie e non le importa da dove vieni, ti offre molto di quello che ha di buono, il lavoro, gli ospedali, i parchi, il pragmatismo, il famoso tessuto socioeconomico. C’è chi riesce a prendere poco e ci sono quelli che si sono presi tutto e che ti spiegano la loro filosofia: quella di instagram con i selfie dai palazzi di Libeskind o Hadid, con le quotazioni in borsa e che vivono nel loro mondo dorato (e recintato).
Anche per quello, la città, in questo momento, piace e si vende bene.
Una città, però, non deve solo vendersi, deve far sentire bene sia chi la abita tutti i giorni, sia quelli che ci arrivano per morderla e godersela durante le manifestazioni come le settimane della moda o il Salone del Mobile, sia a chi fa la coda al Pane quotidiano e dorme sotto i portici di via Vittor Pisani (anche a -10°) o a coloro che non escono mai di casa per la paura che gliela occupino.
Milano ha molte anime ma ci si ferma sempre a quella che piace alla gente che piace, adagiandosi sul gioco facile del guardate come siamo fighi, noi che abbiamo capito tutto. Ragionare così però significa non avere memoria di che cosa è Milano.
Dall’altezza dei grattacieli milanesi (come sulle spalle dei giganti di Newton) si può vedere meglio cosa succede in basso o più in là delle mura spagnole, questo esercizio però non lo fa nessuno. Il glamour sembra bastare e avanzare.
Milano dovrebbe cercare di tornare a essere più popolare. Perché, diciamo la verità, a furia di contarcela su, con l’outfit moderno montato su uno chassis da cumenda ganassa, finiremo per stare sulle palle al resto di Italia.
Milano si ama tutta tutta, dalle ringhiere a nord della città al pennone della Madonnina. E si ama sempre, non a pezzi o a giorni alterni.

Foto di Andrea Cherchi

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