Milano

Milano alla ricerca di progetti

27 Novembre 2018

testo scritto con Chiara Quinzii

 

La successione di tre episodi, che vedono recentemente coinvolta l’amministrazione comunale di Milano, ci racconta di un percorso che l’amministrazione stessa sta imboccando: un percorso con molti aspetti positivi, ma con risvolti che, forse senza volerlo, risultano piuttosto discutibili.

Proveremo, nel proseguo del testo, ad evidenziarli, considerandoli esemplificativi di un atteggiamento, a nostro avviso contraddittorio, tra volontà di modifica dello spazio pubblico e rinuncia al progetto urbanistico e paesaggistico.

Un parco, un sistema di piazze, una call per il futuro

Un parco, senza progetto

Agli inizi di Novembre i Comuni di Milano, Peschiera Borromeo e Segrate firmano un protocollo di intesa per dare vita al Grande Parco Forlanini, una estesa area verde che collegherà il centro di Milano all’Idroscalo. Ai tre comuni si aggiungono Parco Sud e Parco Nord, che metteranno a disposizione le proprie competenze tecniche di progettazione e gestione di aree verdi, all’interno di un masterplan approvato dalla Giunta milanese a Gennaio del 2016, nato dal confronto e dalla collaborazione tra Comune, associazioni, università, agricoltori e cittadini.

Un pezzo di Milano che da decenni attende una soluzione (nonostante esista un progetto esito di concorso internazionale vinto dagli studi di Joao Antonio Ribeiro Ferreira Nunes, Luca Baroni, Gonçalo Byrne nel 2002, che è andato perduto) pare avviarsi dunque verso un futuro realmente interessante, definendo un luogo capace di attrarre il fuori di Milano verso il suo centro e, viceversa, di spostare l’equilibrio, così ombelicale, del centro urbano verso la città dei movimenti metropolitani, che evidenziano come Milano, e il suo confine comunale, non siano altro che una barriera debole nel mondo di flussi che la attraversano quotidianamente.

Chi ha progettato, però, il nuovo Masterplan del Parco Forlanini? Qual è il progetto? Esiste un possibile racconto dell’essenza spaziale del nuovo parco?

Per quanto possiamo ricavare dai comunicati usciti negli ultimi mesi, non si riesce ad intendere qualcosa di più che non sia un tema di quantità, di dimensioni, di viabilità tecnica; anche i possibili gesti scultorei, che in un luogo aperto possono connotare uno spazio, come i ponti (si veda, per esempio, il Moses Bridge progettato da RO&AD architecten), sono affidati ad un operatore senza un core business nella progettazione di qualità dello spazio (dovrebbe essere Metropolitana Milanese a realizzare la passerella di attraversamento del Lambro: realizzare e, probabilmente, anche progettare).

Parco Nord e Parco Sud hanno “competenze tecniche di progettazione”? E’ possibile consultare un portfolio di progetti da loro sviluppati? (Nel sito del Parco Nord, alla voce progettazione, si possono esaminare documenti di questo tipo).

La nuova esperienza della Biblioteca degli Alberi (frutto di un concorso internazionale di progettazione indetto nel 2003) dovrebbe aver fatto capire che non esiste percorso positivo che non passi attraverso una progettazione di alta qualità, anche quando riguarda il verde urbano.

Il processo che porterà al Grande Parco Forlanini dovrebbe essere completato da un concorso di progettazione, con una giuria di altissimo livello, che possa trasformare un luogo non solo in una quantità (di verde, di percorsi), ma anche e soprattutto in una qualità (spaziale).

Senza dimenticare che, un anno prima della Biblioteca degli Alberi, venne appunto indetto un concorso che, come detto prima, ha visto la vittoria degli studi di Gonçalo Byrne, Joao Antonio Ribeiro Ferreira Nunes e Luca Baroni, ai quali, magari, si sarebbe potuto chiedere un aggiornamento del progetto (in un’ottica, molto sentita dal Comune, di oculatezza, risparmio e sfruttamento delle risorse esistenti).

Pois ovunque, o del non-genius loci

Alla fine di Settembre si inaugurano le piazze Dergano e Angilberto II, dopo un lavoro definito di tactical urbanism, che trasforma due snodi viari in aree pedonali, attraverso, principalmente, un intervento grafico (una serie di cerchi colorati dipinti a terra) e alcuni elementi di arredo urbano.

Grazie alla collaborazione con i cittadini, il Comune di Milano si impegna a ricavare spazi per uso pubblico sottratti ai flussi veicolari, nell’ottica di favorire la mobilità dolce negli spazi esterni della città. Un approccio che a Milano potrebbe essere definito come rivoluzionario, visto che la città, negli ultimi decenni, ha sempre concepito lo spazio esterno come il luogo del transito veloce (seppur lentissimo a causa del traffico) dei mezzi a motore, mettendo in secondo piano, metodicamente, ogni altro tipo di mobilità (si veda, per esempio, il progetto di sistemazione di viale Abruzzi, primo intervento su spazio pubblico della giunta Pisapia).

Gli esperimenti sulle due piazze hanno prodotto risultati positivi, riscontrabili sia nell’uso quotidiano che nel gradimento delle persone.

L’amministrazione richiede dunque di segnalare altri spazi simili su cui applicare il progetto delle Piazze a pois, come ormai vengono definite, in un’ottica di erodere piccole, ma numerose, quantità di superfici veicolari, creando una sorta di massa critica proprio grazie al numero consistente di interventi.

Questo, però, non può nascondere una questione importante: se il progetto è tale e quale, ripetibile, qual è la sua qualità? In che modo si relaziona con il tessuto esistente, che, anche in una piccola città come Milano, varia notevolmente da zona a zona, anche a brevi distanze?

Gli esempi della Design Week, che modifica radicalmente e temporaneamente la città con piccoli, ma sistematici, interventi, della durata di una settimana, raccontano che ogni luogo, ogni progetto, è diverso: mette in luce specificità, pre-esistenze, funzioni, ma, soprattutto, concept progettuali di incredibile varietà.

In una certa maniera, la Design Week mostra orgogliosamente i progetti, la loro storia, la loro narrazione (per scopi commerciali, forse, ma poco male): perchè non farlo anche quando si progettano gli spazi pubblici? Perchè l’Amministrazione pubblica non approfitta di un insegnamento che viene da uno degli eventi più interessanti ed importanti che la città vanta nel mondo?

Aver trovato una forma grafica ripetibile ha l’effetto paradossale di annullare il progetto, trasformandolo in una sorta di prodotto da applicare ad una superficie astratta qualunque.

Il timore maggiore, però, è su quanto succederà alla fine dell’esperimento: l’amministrazione si impegnerà a organizzare concorsi, magari per studi locali, per rendere definitive le trasformazioni? Questo impegno sarebbe una svolta radicale nelle vicende spaziali della città e darebbe un impulso fortissimo ai progettisti, che vedrebbero fiorire una mole ingente di possibili realizzazioni (seppur nella loro piccola scala).

Una stagione fatta di numerosi incarichi inediti, capaci di modificare il volto dello spazio pubblico milanese, costituirebbe davvero un immaginario di potenza adeguata per modificare il futuro della città, come per esempio fece la giunta Albertini, sotto la quale nacque (con tutti i suoi aspetti positivi e negativi) l’idea di Porta Nuova, capace di raccontare una nuova Milano oggi, a vent’anni di distanza.

Una call non competitiva, ovvero oltre il concorso di idee

A novembre il Comune di Milano, nell’ambito della revisione al PGT della città, pubblica una Call For Ideas, in cui l’obiettivo principale è quello di testare gli scenari strategici previsti dal nuovo Piano. Si invitano esperti, investitori, operatori, stakeholder delle comunità locali, etc., a presentare idee, proposte e suggerimenti che ricalchino gli obiettivi di Milano2030, con particolare riferimento al rapporto fra luoghi strategici della città e spazio pubblico.

La call non è competitiva ed è aperta a tutti coloro che desiderino contribuire alla discussione per migliorare il Piano durante il suo iter.

In un’ottica di stimolo alla partecipazione dei propri cittadini nel progetto di un immaginario futuro della città, la call cerca di coinvolgere anche quelle persone che fanno di questo continuo anelito alla progettazione del futuro urbano la propria professione.

Pare, così, che l’amministrazione comunale abbia inteso che la qualità del progetto, negli spazi pubblici, assuma una importanza non banale, anzi fondamentale e che quindi sia necessario l’intervento di professionisti qualificati.

Per questa ragione l’amministrazione chiede materiali ben organizzati, chiari, essenziali, come per un concorso.

La proposta potrà contenere:

  • Tavola, in formato A1 stampabile, orientata in verticale […] In alternativa alla Tavola è possibile presentare Video.
  • Relazione illustrativa, in formato A3 stampabile, orientata in orizzontale, per un massimo di n.5 facciate […]

Viene fornito il cartiglio […]

Questa call, però, non è competitiva, nessuna graduatoria, nessun premio, nessun incarico a seguire.

E’ l’evoluzione estrema dei concorsi: da processo virtuoso per la società, nel quale si premia e quindi si dà seguito al progetto migliore, siamo passati ai concorsi di idee, nei quali nessun incarico è previsto, ma viene premiato – di solito con pochi soldi – un concept.

L’ultimo passo è la richiesta di idee, senza discriminazioni di qualità, senza una graduatoria, senza, ovviamente, un rimborso economico. Eppure vengono chiesti materiali di assoluta qualità professionale: non a caso viene mostrato come esempio un progetto dello studio Citterio-Viel per Piazzale Loreto (anch’esso regalato? E’ una nuova procedura dei grandi studi, sull’esempio di Piano per il Politecnico di Milano e il ponte Morandi?), che presenta materiali (render, schemi) di estrema professionalità.

Può sembrare difficile trovare il risvolto negativo di questa call, data la sua richiesta di mettersi in gioco, di chiamare a raccolta i migliori progettisti della città, per costruire, attraverso un atto di volontariato, una raccolta di suggestioni ad uso e stimolo dell’amministrazione pubblica.

Ma chiedere a dei professionisti, che si trovano da anni in uno stato di difficoltà lavorativa estrema, di cedere il proprio lavoro gratuitamente, vuol dire sottintendere che il loro lavoro non vale niente, o che c’è così poco lavoro da fare che un progettista può dedicargli solo qualche ora nel suo tempo libero.

L’amministrazione, però, non sta chiedendo qualche riga scritta, uno schema, un inizio di concept: sollecita la produzione di materiali che richiedono ore, giorni, di lavoro di un team di persone qualificate.

Per questa ragione a questa call si potrà partecipare attraverso tre approcci:

  • con lo spirito del reale volenteroso, che vuole fare qualcosa di buono per la sua città, che però vedrà molto probabilmente annegata la sua voce in un mare di proposte e che non avrà certo ceduto il suo tempo e i suoi soldi per una piccola ONG incapace di sostenersi economicamente, impegnata ad aiutare un villaggio in qualche zona remota del pianeta;
  • con tatticismo, per far vedere di essere presenti, di aver sposato la causa, per poter poi vedere riconosciuto il proprio lavoro in altre forme;
  • con la possibilità di chi non ha bisogno di guadagnare per vivere, che può permettersi l’investimento economico richiesto dalla call stessa e di dedicare molto del suo tempo al volontariato verso la città.

In ogni caso l’approccio ci sembra di una ingenuità destinata ad essere tradita, o di una modalità di pensare un po’ cinica.

Il futuro immaginato dalla giunta Sala: uno scorcio parziale

In questi tre casi pare di riconoscere un percorso piuttosto chiaro da parte dell’amministrazione guidata da Beppe Sala: i semi gettati dalla giunta Pisapia (che provavamo a riconoscere un paio di anni fa) sono cresciuti, forse a tal punto da essere diventati degli elementi stabili nella gestione e progettazione della città.

Riconosciamo una continua ricerca della condivisione, che sfocia, in alcuni casi, in un incentivo alla partecipazione, che è, in effetti, il primo passo per un reale coinvolgimento della cittadinanza su un tema così sensibile come lo spazio pubblico. Un continuo flusso di informazioni sul progetto pubblico porta il pensare alla città ad un livello di quotidianità: in questa maniera, chi non fa della progettazione materia del proprio lavoro, trova uno stimolo costante verso la cura della propria città, una consapevolezza che lo spazio esterno sia lo spazio di tutti, che deve continuamente essere messo in discussione, innovato, reso confortevole e piacevole.

Questo lavoro sulla riduzione del traffico veicolare, sull’aumento del verde a scale piccole e grandi, sulla miglior definizione degli spazi dello stare in esterno, potrebbe segnare la vera discontinuità con le amministrazioni del passato e rendere questi temi l’immaginario chiave su cui lavorare nei prossimi anni.

D’altronde, anche solo questi piccoli atti, minimi, che rubano qualche posto auto o riducono leggermente le carreggiate veicolari, magari a favore del verde, sono a Milano degli atti quasi violenti (alla vista di una parte dei cittadini), ma sono necessari e, anzi, ancora troppo timidi, se vogliamo dare ascolto agli studi che confermano la pericolosità sanitaria di vivere in luoghi inquinati.

Il lavoro bottom up, il minimo quotidiano che diventa aspirazione più grande, l’effetto a tratti sconvolgente di pratiche non retoriche o enfatiche: possiamo forse dire che esiste un tracciato che via via si sta chiarendo e che sta portando Milano lungo alcuni tragitti che altre metropoli occidentali percorrono già da alcuni anni.

Ci sembra di leggere, però, in questo percorso denso di elementi positivi, un effetto che può essere dirompente e che forse la stessa amministrazione non si rende conto di perseguire con sistematicità.

Se leggiamo il risvolto delle tre situazioni, infatti, possiamo trovare un elemento comune: non dare valore al lavoro del progettista come problem solver, ovvero colui che, raccolte le istanze dal basso e dall’alto, riesce a darne una sintesi spaziale e progettuale forte e coerente, riuscendo a comunicare il progetto a tutti in maniera chiara ed innovativa.

E’ un effetto che si osserva nel caso del parco Forlanini, dove vengono coinvolti enti che non sono progettisti; oppure nelle Piazze a pois, dove il marchio grafico e la narrazione del processo sopravanzano di gran lunga le peculiari qualità spaziali del progetto e del luogo; o, ancora, nella call, dove, dietro la retorica della democrazia diffusa, si intravede la non-curanza verso il progetto. Ovvero, il lavoro del progettista serve (perchè ho capito che necessito di un progetto di qualità con materiali di presentazione di ottima fattura), ma non sono disposto a pagarlo.

E’ un atteggiamento che già si intravedeva nella giunta Pisapia, durante la quale molti progetti pubblici venivano redatti attraverso forme alternative rispetto a quelle più consone, come il concorso, ma che qui sembra acquisire uno status più stabile.

Leggiamo una sorta di mancanza di ambizione, in questo; come dire: già abbiamo fatto tantissimo per arrivare a questo risultato, perchè dovremmo aggiungere una complicazione rischiosa in più, qual è, per sua stessa natura, un progetto di spazio?

Avere una certa quantità di verde o di spazio pedonale in più, dovrebbe bastarci, perchè dovremmo desiderare che questa maggiore quantità possa essere anche elemento di qualità e innovazione spaziale?

Ci viene il dubbio che acquisire a titolo gratuito una serie di idee permetta all’amministrazione di avere le mani libere, di non compromettersi con la coerenza di un progetto, ma anzi, di poter usare, in tutto o in parte, spunti tratti da ogni singola idea, in un potpourri che non si sa chi possa districare con qualità. Il dubbio maggiore, però, è che l’amministrazione non voglia trovare le risorse per realizzare le trasformazioni necessarie e, per questa ragione, non sia disposta ad investire neanche nel progetto.

E’ chiaro che stiamo ora giudicando dei risvolti di fatti che hanno dei meriti: è probabilmente meglio avere un Grande Parco Forlanini non progettato, che il nulla che esiste ora, ma è come dire che devo sopravvivere e per questo mi sazio con cibo di bassa qualità, che forse prima o poi mi farà ammalare.

Milano dovrebbe invece immergere la visione del proprio futuro in obiettivi di grande ambizione: se vogliamo che la Milano del 2030 sia un luogo del vivere innovativo, una visione forte va impostata ora. E’ certamente più interessante che le trasformazioni spaziali della città siano esito di pratiche e azioni condivise ed innovative, ma queste non possono prescindere da un immaginario spaziale frutto del lavoro -ponderato, esteso, retribuito- di professionisti di grande qualità.

Il mezzo, forse l’unico possibile, rimane il concorso, che non premia il progettista, ma il progetto. Questo nonostante i concorsi non sempre portino a dei risultati eccezionali e spesso scontino dei percorsi propedeutici non corretti: pensiamo ai concorsi per tre edifici pubblici organizzati sotto l’amministrazione Pisapia (Padiglione per l’Infanzia, Centro Civico, Cavalcavia Bussa), che avrebbero potuto marcare una stagione di riscatto per l’edilizia pubblica milanese, ma che sono stati miseramente dimenticati, a causa di problemi che forse potevano essere risolti prima di indire i concorsi stessi; oppure al recente concorso per il Masterplan degli scali Farini e San Cristoforo, rivolto ad una fase del progetto confusa e probabilmente incapace di marcare il futuro delle aree stesse, anche perchè il concorso non porta ad un incarico per il vincitore (per non parlare dei rimborsi spese che rendono davvero difficile fornire quel progetto fortemente multidisciplinare che viene richiesto).

 

 

Nonostante tutto il concorso è l’unica pratica che garantisce un interesse pubblico.

E’ necessario allora che questa pratica diventi quella corrente in ogni singola modifica della città e ogni volta che si intenda immaginarne il futuro.

Servono, però, ricerche e piani che indirizzino i concorsi; servono studi preliminari ai concorsi; servono organizzazioni rapide e flessibili; servono giurie di alta qualità; servono risultati certi; servono incarichi sicuri e retribuiti correttamente.

Per questo l’amministrazione può, tra l’altro, sfruttare alcune risorse interne e, in particolare, una situazione che potrebbe far deflagrare, in positivo, il rapporto tra la città di Milano e il suo spazio pubblico: lo spostamento dell’Urban Center in seno alla Triennale.

Proveremo ad osservare questa situazione nel prossimo testo.

 

(immagine di copertina)

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