Milano
Migranti di talento che fanno imprese (resilienti) in Italia
Quando si parla di capitale umano la narrazione ruota attorno a due refrain.
Il primo ci dice che l’Italia prima porta i propri giovani alla laurea e poi non riesce a trattenerli: l’emorragia di capitale umano qualificato è dato di fatto sotto gli occhi di tutti.
Il secondo ci dice che l’Italia non attrae capitale umano dall’estero e quando ci riesce i flussi in entrata sono concentrati su persone poco qualificate.
Se poi il focus è sui migranti che vengono in Italia, la narrazione è ancora più desolante.
La ricerca Building Better Business Resilience, che sarà presentata domani 14 ottobre pomeriggio a Milano ci dà buone ragioni per cambiare questo stereotipo.
Prendiamo il caso di Fayza Ismaeil, siriana con tre lauree, che parla otto lingue e fa l’imprenditrice a Milano. Nata in Siria nel 1988, ha girato il mondo, lavorando in Libano, Turchia, Malesia e Cina prima di arrivare in Italia nel 2014, dove ha rilevato una caffetteria e una pasticceria, oltre a impegnarsi come civil servant nell’associazione Sawa Onlus. È anche giornalista e autrice di due libri.
Oppure prendiamo il caso di Reas Syed, nato in Pakistan nel 1984 e arrivato in Italia nel 1993, al seguito del padre emigrato anni prima e che riesce a ricongiungere la famiglia. Reas è laureato in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano e divide con il fratello la leadership di Amico Servizi a Milano.
Le caratteristiche distintive dell’imprenditorialità dei migranti che decidono di mettersi in proprio nel nostro Paese, come nel caso delle esperienze imprenditoriali di Fayza e Reas, sono state messe a fuoco dalla ricerca Building Better Business Resilience, che si è concentrata nell’Area Metropolitana di Milano.
Le imprese di migranti sono più resilienti, ma non basta
In generale, le imprese di migranti sono leggermente più resilienti (32,9) di italiani e stranieri stabilizzati (31,7 seguendo la scala 0-40 di Connor e Davidson), cioè hanno una più elevata capacità di adattarsi e crescere, in caso di crisi interne o esterne all’impresa.
Le loro imprese, inoltre, dimostrano di avere una maggiore propensione alla crescita nelle aree più periferiche del territorio metropolitano (il 12,9% delle realtà localizzate nei Comuni con livelli di reddito più basso indica un aumento di fatturato, rispetto al 6% di quelle ubicate nei Comuni con livelli di reddito medio).
Emerge tuttavia un elemento di criticità.
Le persone migranti che fanno impresa percepiscono la presenza di minacce (interne ed esterne) per il business (93,2%) con livelli equiparabili a quelli di italiani e stranieri stabilizzati (93,4%), ma solo un terzo dei primi (35,4%) è in grado di formulare piani per affrontare le minacce, a fronte della metà dei secondi (52,9%).
È un segnale di potenziale debolezza, che suggerisce l’avvio di azioni formative a policy maker, rappresentanze datoriali e associazioni al servizio di migranti.
Commercialisti “per tutti”, poi “consulenti” oppure “family and friends”
A chi si rivolgono le imprese di migranti quanto devono affrontare problemi di gestione difficili o nuovi?
Solo il 12,8% ricorre a figure esterne all’azienda e quando lo fanno si rivolgono al (sempre presente) commercialista oppure al consiglio di familiari e amici. Tra le imprese di italiani e stranieri stabilizzati, invece, è molto più marcato il coinvolgimento di figure esterne per affrontare le criticità (50,0%) e quando succede si tratta di commercialisti (64,6%) o di consulenti direzionali e legali (rispettivamente 58,2% e 38,1%). È un dato che non sorprende, perché le affinità culturali e l’uso della medesima lingua facilitano la condivisione di esperienze e il trasferimento di conoscenze.
Supportare lo sviluppo di mediatori culturali d’impresa a specifici segmenti può essere un’azione per sostenere la già buona resilienza del sistema.
* L’immagine di copertina è un’illustrazione di Debora Guidi
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