Milano
Calabresi: “Nella Milano post-Covid più spazi agli outsider, meno per i rentier”
Con Mario Calabresi ci vediamo immersi nelle ultime giornate di zona arancione di Milano. Passeggiamo nel freddo del Parco Solari, ora intitolato a Don Giussani, girando in tondo per un po’, come criceti. Lo aspetto mentre autografa un libro a un ragazzo – «non era per lui, ma per la sua mamma» – e la mente torna a cos’era la Milano prenatalizia appena un anno fa. Un brulicare di consumi ed entusiasmi, alla fine della più vorticosa crescita di immagine e valore che la città ha conosciuto, probabilmente dal secondo dopoguerra. Subito prima che il mondo si fermasse, l’ex direttore di Stampa e Repubblica era tornato a vivere nella sua città d’origine, dopo molti anni di trasferta. E davvero poco prima del baratro della pandemia, presentando il penultimo libro “La mattina dopo”, aveva incontrato la voce che lo ha guidato nella sua nuova storia, quella ritratta nel libro, uscito poche settimane fa, “Quello che non ti dicono”, dedicato a Carlo Saronio, vittima davvero dimenticata del terrorismo rosso e della violenza politica degli anni Settanta. Un libro in cui c’è tanta Milano, una città ora scomparsa – quella della grande borghesia che ne guidava le sorti – ora rimossa e lontana dai media, eppure sorprendentemente attuale, come quella delle periferie emblematiche, alla Quarto Oggiaro, dove preti attivisti e giovani idealisti si incontravano in territori di confine la violenza. L’ultimo libro è anche l’occasione per confrontarci con lo sguardo di Mario Calabresi sulla sua città, ora che è tornata a essere quella in cui vive.
Quali punti di contatto e continuità tra quella Milano e quella di oggi, che da poco hai ricominciato a vivere come tua?
Dopo molti anni di lontananza sono tornato a vivere nella mia città, a Milano. Dopo aver diretto la Stampa a Torino e la Repubblica a Roma, sono tornato. Mancavo, per varie ragioni, da oltre 15 anni, e ci sono tornato nell’estate del 2019.
Proprio nel momento dell’apogeo.
Esatto, proprio nel punto massimo di crescita, e prima della pandemia e del crollo. Anzi, tornando e trovandola così vitale l’impressione che avevo, quasi una paura, era che corresse troppo, che rischiasse di andare a sbattere. Ma vinceva comunque il senso positivo, di crescita, e anche un elemento in fondo nuovo per la città di questi decenni: c’era una fortissima energia giovanile, che si manifestava in startup, negozi, bar, imprese di ogni tipo. Una città molto dinamica, che sembrava davvero vivere altrove. Tanto che mi sono ricordato che, quando vivevo a Roma, sentivo spesso e volentieri l’esigenza di andare qualche giorno altrove, a Parigi, a Londra, a Berlino pur di cambiare aria e respirare il mondo. Quando sono tornato a Milano quest’esigenza è sparita. Perché sentivo di avere tutto qui, a portata di mano, mi sembrava che l’Europa fosse qui. C’era una quantità di cose nuove che prima non c’erano.
Solo che poi…
Poi è arrivato il Covid, una botta terribile. Una botta che prende tutte le città. Tanto è vero che tutte le città si stanno interrogando sul loro futuro, sul loro ruolo. Anche a New York c’è un dibattito simile, ad esempio. Ma poi lo vediamo tutti, attorno a noi: penso ad alcuni giovani professionisti con cui mi capita di collaborare, che sono tornati in Sicilia, in Puglia, in Veneto. Alcuni mi dicono: ho messo la fibra a casa, a Milano vengo quando serve, un paio di giorni al mese. Qualità della vita migliore, costi ridotti…
Milano è fondata su tutto ciò che oggi è vietato.
Vero, ma gli incidenti non sono per sempre, conta molto quanto durano, quanto incidono sulla vita delle città e delle società e quanto ne cambiano la direzione. La storia ci insegna questo. Io credo che esattamente come prima le città non torneranno, ma credo anche che questa sia l’occasione per ripensare le città in modo meno ansiogeno, ristabilire un rapporto più sano con l’idea e la pratica della crescita. Perché di una cosa abbiamo certezza: non tutti possono permettersi di stare altrove, per lavorare da lontano, in campagna. Chi può permetterselo? Chi già ha messo radici qua. Chi ha già un suo lavoro, un posizionamento.
Quelle radici che si mettono attraverso la socialità, e la socialità informale, esattamente ciò che oggi è pericoloso e vietato, eppure è l’ingrediente fondativo delle città.
Certo, è proprio questo il punto. E proprio per questo che sono sicuro che Milano ripartirà. Ho lavorato per la mostra sull’archivio fotografico Publifoto di Intesa Sanpaolo, presentata alle Gallerie d’Italia, sulla Milano del secondo dopoguerra. Quelle foto ci mostrano una città che sembra Aleppo, Baghdad. Una città che era solo macerie. Non siamo in quella condizione: abbiamo difficoltà, paura, paralisi, ma se siamo ripartiti allora possiamo anche oggi.
Questa differenza però poggia su un’altra differenza: quelle generazioni erano coscienti, per definizione, che si potesse ripartire da zero. Milioni e milioni di italiani erano a zero da generazioni peraltro. Noi, invece…
Sì, noi non abbiamo mai allenato la capacità di fare fatica. Credo che ci sarà però un protagonismo nuovo di tutti coloro che vengono da fuori: che siano di altre parti d’Italia, cinesi o africani. Si apre uno spazio per chi è più abituato a fare fatica. Questo è un momento favorevole per chi sa reinventarsi, pensare a cose nuove, e meno favorevole per chi è cresciuto potendo contare su una rendita di posizione.
Le nostre, in generale, sono state le generazioni più fortunate di ogni tempo, le nostre. Il massimo della fatica che molti di noi concepivano era il successo di un evento. Ora la pandemia ci obbliga a ripensare, a ridiscutere le ragioni del nostro stare insieme.
Ho studiato il dopoguerra e gli anni Settanta. Rispetto a quel tempo, mi sembra che manchi la forza di un establishment comunque credibile, famiglie forti che avevano una visione ed erano punti di riferimento per tutta la città. Questa dimensione è quasi del tutto scomparsa. Non ci sono più delle famiglie che si caricano la città sulle spalle, che discutono del destino del futuro. Ma io vedo in questa “assenza” un’opportunità, anche nel dovere di nuove formule che riempiano questi vuoti. La palla passa a chi oggi ha 40 o 50 anni: chi fino a ieri si è lamentato di essere tappato, oggi ha l’opportunità di prendersi la sua responsabilità. In ogni caso, Milano continuerà ad essere un luogo di opportunità che fa eccezione in un Paese che, purtroppo, di opportunità ne offre poche.
La politica si sta riattrezzando per questo nuovo tempo, o la pressione della nostalgia per il tempo che fu è ancora troppo forte?
In questo momento, a livello cittadino come a livello nazionale, non riesco a vedere figure e soggetti capaci di indicare una direzione. Chi vogliamo essere? Dove vogliamo andare? Mi sembra che sia raro trovare chi si sforza di dare queste risposte. Va detto, anche in questo Milano ci ha provato, a distinguersi in meglio, definendosi nei fatti e nelle scelte come una città europea, che resta agganciata a quella dimensione internazionale, attrattiva.
Solo che adesso la sfida sale di grado.
Ci vuole visione adesso, non basta più amministrare anche bene l’esistente.
Gli Anni Novanta avevano fatto di questa città un luogo di pestilenza, metaforicamente. Un bagaglio che ci tornerà utile, secondo te?
Quando sono andato via la prima volta, nel 1996, per andare a Roma, la capitale era una città vivace, mentre Milano era terrificante. Il crollo della prima repubblica non portò a Milano più civiltà, ma più chiusura, improvvisazione e provincialismo. Il dibattito era sulle zanzare. Eppure anche da quegli anni bui Milano si è portata dietro qualcosa di buono, qualcosa che la caratterizza in positivo anche oggi, e cioè la continuità amministrativa. A differenza che altrove, qui, chi vince le elezioni non sente di dover smontare tutto quello che è stato progettato prima, o di dover disprezzare tutto quel che è stato realizzato dalle giunte precedenti. Questa secondo me è la chiave vera del successo di Milano.
Questa continuità è in realtà anche oggetto di critica, soprattutto quando si nota una sostanziale continuità anche tra gli interessi rappresentati, ad esempio quelli immobiliari.
Certo, sicuramente è un modello che ha dei limiti. Però CityLife, Porta Nuova, Fondazione Feltrinelli, la zona della Fondazione Prada, Sarpi pedonalizzata… e potremmo andare avanti a lungo, ecco, quando vedo tutto questo non posso non vedere un dinamismo complessivamente positivo, e pezzi di città che lungo gli anni sono stati restituiti alla società e alla socialità, e che hanno generato valore per tanti, e non solo in termini economici.
Il problema è che adesso, e per un po’, questo non sarà più the place to be, e dovrà trovare un’altra chiave per stare al mondo.
Vero, ma vero anche guardandosi attorno, anche pensando a città a noi molto vicine geograficamente, che stanno a meno di un’ora di treno, beh, non è che ci sia molto da stare allegri. Non è che di place to be ce ne siano tanti in Italia, anzi.
Hai mai più ripensato all’ipotesi di fare politica?
A me la politica piace. Ma sono stati anni barbari, in cui la politica è tutta veleni, violenza, attacchi personali. Come mille altre persone ho pensato che fosse meglio e più utile per tutti fare cose fuori. Così è nata una mostra, un libro che parte da Milano. Quel che vorrei tornasse presto è la possibilità di sedersi attorno a un tavolo per pensare a cose nuove da fare, anzitutto a Milano. Quel che ci è stato tolto di più prezioso è proprio questo: la possibilità di incontrarci per far nascere cose nuove. Perché le cose nuove non nascono su Zoom o su Skype. Lì puoi gestire l’esistente, e meno male che c’è, ma per creare novità e inventare futuro dobbiamo tornare a incontrarci.
E adesso cosa farai, a Milano e da Milano?
Milano sarà la città di Chora, la nuova startup di podcast e narrative per tutti i tipi di piattaforme che ho fondato con Guido Brera e Mario Gianani. Un’avventura che scommette su un modo nuovo di declinare il giornalismo e il racconto, mescolando i generi e uscendo dai formati tradizionali. Abbiamo messo insieme un gruppo di dieci persone, in maggioranza donne e la città dove sperimentare e innovare non poteva che essere Milano.
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