Cibo
Margherita era una stronza: difesa non richiesta della pizza gourmet
Caro Mattia,
Ma te la ricordi bene la Margherita di cui parli in questo articolo? Sei sicuro? Perché a me sembra di no. Quella ragazza, di cui mi sono invaghito già da piccolo, la ricordo certamente con simpatia. Ma ho anche bene in mente come quella fanciulla semplice, spensierata e genuina di cui favoleggi diventasse spesso un bel po’ stronza. Margherita (da Milano, s’intende, non altre) era una stronza anche se non si faceva chiamare Marghe.
Certo, la trovavi un po’ dappertutto anche allora, qualche volta ti andava bene ed era pure in forma, buona. Ma molto più spesso ti si presentava davanti sciatta e malvestita. Talvolta fredda, spesso distaccata, come una mozzarella che, manco si trovasse in un piatto di Massimo Bottura, “vuole diventare” gomma (riuscendoci). E quante, quante volte, le sue intemperanze ti tormentavano tutta notte, a rigirarti nel letto sperando che il lenzuolo diventasse un fiume da cui dissetarsi?
Che poi, diciamoci la verità. Se si sentisse la mancanza di quella Margherita lì, davvero e non per un gioco snob, sarebbe semplice rendersi conto che costei è ancora largamente maggioritaria in città. Questa è la prima delle obiezioni che lievitano spontaneamente quando sento le sempre più frequenti lamentazioni contro la ricercatezza gastronomica, contro il “gourmet”. E’, ancora, una piccola minoranza dell’offerta. Però irrita come se fosse l’unica opzione disponibile.
Essendo quello che si scambia su Facebook con Mattia Carzaniga “i consigli sulle nuove pizze cittadine”, mi permetto di giocare a fare quello piccato, punto sul vivo, dal suo articolo. Perché irrita la minoritaria, seppur crescente, voglia di proporre cibi più raffinati? Io dico che è perché al mangiar bene bisogna pensarci. E invece siamo indolenti. “Un tempo si andava in pizzeria e basta”, scrive ancora Mattia: e quindi? Dobbiamo davvero concederci solo di essere pigri, di mangiare e basta, senza farci troppe domande? Io penso invece che dovremmo abbracciare gioiosi l’idea che non esista nulla che meriti di più il nostro pensiero, il nostro impegno, il nostro tempo, la nostra concentrazione di quello che mangiamo.
E non è solo – anche se basterebbe pure con avanzi da doggy bag – perché effettivamente quello che mangiamo definisce quello che siamo. Ci fa stare bene o male, ci fa bere due litri d’acqua di notte o ci fa dormire placidi, tornando alla pizza. Ma soprattutto perché è un gioco divertentissimo, potenzialmente infinito, con cui trastullarsi.
La moda della cosiddetta “pizza gourmet” non solo non è maggioritaria, ma offre qualche possibilità di scelta in più rispetto a prima. Così chi preferisce una pasta più consistente e lievitata, da usare quasi come un piatto su cui deporre dei prodotti un po’ ricercati, sarà felice da Berberè. Chi, come il Carzaniga, la troverà solo una focaccia farcita, potrà rifarsi con i profeti della pizza napoletana sbarcati in città, che si chiamino Sorbillo o Starita. Gente che peraltro ha ben poco a che fare con la presunta fighetteria di questa moda: quello che si propone in quelle pizzerie altro non è che un prodotto tradizionalissimo e popolare. Chi sogna invece di far diventare la pizza un piatto di lusso, si troverà benissimo alla Taverna Gourmet, chi preferisce di contro la semplicità e pizze con pochi, ma squisiti ingredienti, diventerà un appassionato di Marghe. Chi vuole un po’ di tutto questo, troverà in Lievità un porto sicuro. Dove sta il problema?
Forse il problema sta nel prezzo, ok. E’ vero, a Milano mangiare costa tanto, diciamo pure troppo. Ma siamo proprio sicuri che sia colpa dei maledetti gourmet, fighetti infingardi dal portafoglio gonfio? Ho i miei dubbi. Anche perché, ribadiamolo, i ristoranti di Milano, che sono in grande maggioranza troppo cari, sono invece solo in piccola parte “gourmet”. E poi la pizza costava nettamente di più all’ombra della Madonnina anche quando in città c’era solo la Margherita di cui ha nostalgia Mattia. E non sarà prendendosela con quelli a cui piace mangiare bene, e anche darsi qualche aria da connoisseur, che caleranno i prezzi, i quali dipendono invece molto di più dagli affitti esorbitanti dei locali commerciali a Milano e dalle tasse sul lavoro che si devono pagare in questo paese.
Divagando, ma nemmeno troppo: qualche tempo fa, un’altra persona che ho tra i miei contatti Facebook pubblicava una foto di uno scaffale dell’Esselunga. Lamentandosi per la quantità di farine che le veniva offerta ed esclamando: “Io volevo solo della farina!”. Io non capisco, giuro, non capisco. Perché mai dovremmo essere messi in difficoltà dalla possibilità di fare scelte più articolate, più informate, più attente? Se si desidera proprio “solo della farina”, la si troverà, non è stata messa fuori legge, né fuori commercio. Anzi, nella maggior parte dei negozi e dei supermercati, si continua a trovare quasi solo quella.
In altri, ancora troppo pochi in realtà, si offre invece l’opportunità di comprendere che non tutti i grani sono uguali, che il glutine non è solo il nemico pubblico numero uno, che la macinatura del grano cambia in modo sostanziale la farina che ne deriva, che basta un piccolo sforzo per divertirsi molto, ma molto di più a cucinare e a mangiare. E a mangiare la pizza, peraltro: capire qualcosa in più di farine, aiuterà pure a comprendere quanto sia delicato un impasto e quanto valga la pena premiare quelle pizzerie che, con buona pace di quella noiosa di Margherita, raccontano in modo eloquente di cosa sia fatto il proprio.
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