Beni culturali
Marco De Michelis: “Attenti al buonumore di Milano: il rischio è Venezia”
Docente (prima preside della Facoltà di design e arti/IUAV, ora in Bocconi), intellettuale, uomo di sinistra, protestante, veneziano, quattro volte fratello, tra l’altro di Cesare e Gianni De Michelis, Marco De Michelis è un incontro privilegiato e ricchissimo, che è valsa la pena fermare a un caffè per due lunghe chiacchierate sugli anni 90, la politica, la Chiesa e, necessariamente, il clan di famiglia. L’intervista è stata fatta due settimane fa ma, dopo il 12 novembre, non potevamo non tornare a chiedere a De Michelis un commento sul disastro di Venezia, con cui abbiamo deciso di aprire questo lungo pezzo.
CA: tuo fratello Gianni aveva orgogliosamente parlato del prototipo del Mose nel 1995, dandosi quell’anno come scadenza. Aveva detto “un momento storico per Venezia”. Dove siamo rimasti fermi secondo te?
MDM: Siamo rimasti fermi al punto di partenza che era il 1966, l’anno della “acqua granda”, che la notte del 12 novembre è stata quasi raggiunta. Da allora si potrebbe dire che sono successe cose negative: la popolazione è calata di due terzi fino a scendere sotto i cinquantamila; i turisti di sono quintuplicati fino ai venticinque milioni di adesso; il numero delle camere d’albergo è raddoppiato e triplicato se consideriamo anche i bed and breakfast; sono scomparsi i negozi di vicinato e sono cresciuti bar e ristoranti; sono apparse in lagune quelle grandi navi che cinquanta anni fa neppure esistevano; e, per finire, si sono ripetute ogni anno quelle acque alte perniciosissime che una volta erano rare eccezioni. Che dire? I sei miliardi spesi fino ad oggi per il Mose devono servire a far funzionare il sistema di protezione dalle maree: sappiamo delle corruzioni e delle bustarelle che hanno portato con sé; sappiamo che il progetto vecchio di cinquanta anni è sicuramente obsoleto e inadatto a fronteggiare i nuovi scenari climatici. Ma intanto le acque alte devono sparire!
CA: Arriviamo a Milano, dove tu vivi, da quanto? Dieci anni? Come la vedi?
MDM: Che mi sono trasferito qui da Venezia, sì, sono dieci anni. Ma ci ho sempre lavorato dopo che sono rientrato da Berlino alla metà degli anni ottanta. Milano oggi è una città di buonumore che condivide un momento positivo della sua crescita e della sua trasformazione. Il problema è che è così contenta che tutto le va bene che si è un poco dimenticata l’esercizio della critica e dell’autocritica soprattutto. Manca la profondità a Milano e manca un po’ di vera ambizione. A parere mio alcune cose vanno bene ma alcune cose non vanno bene.
CA: Che cosa non va bene?
MDM: Partiamo dal grande. Secondo me non è stata ancora affrontata al giusto livello il discorso sulla trasformazione centro/periferia. Il ridislocamento delle risorse. Siamo incastrati nel ragionamento del tutto ambiguo della ricucitura, che è il discorso proposto da Renzo Piano, dove in poche parole basta poco per risistemare le cose. Allora, è vero che ci sono anche delle operazioni non negative fatte con poco – a me va bene anche questa storia di dipingere i pavimenti di asfalto con una nuova grafica colorata, certo è meglio che farci dei parcheggi – ma è fuori di dubbio che il problema delle periferie non lo capisci, non lo affronti così. Si può agire solo portando le risorse economiche, i musei, i teatri, le grandi infrastrutture pubbliche, dal centro. Se guardi cosa è successo da noi, non siamo neanche riusciti a risolvere una questione che secondo me poteva essere straordinariamente efficace, come quella del Marchiondi a Baggio, un capolavoro assoluto. Una sua riqualificazione vera – che so? farci un centro sperimentale delle arti contemporanee, del design – questo sì avrebbe potuto significato, invece non si fa perché è periferia e non abbiamo nessun coraggio.
CA: Fondazione Prada la consideri periferia?
MDM: Ne avrei parlato a proposito delle cose buone. Fondazione Prada, Fondazione Feltrinelli, l’Hangar Bicocca, sono delle vere eccellenze ma torniamo al fatto che le cose più belle e più importanti a Milano negli ultimi anni le hanno fatte i privati. Ovvio che c’è anche quel margine di ambiguità perché Fondazione Prada porta con sé anche il fatto di essere un’operazione immobiliare, ma resta la consapevolezza che si tratta di un’operazione culturale di elevatissimo livello, che può competere con le esperienze migliori nelle migliori città del mondo. E qui torniamo a quello che non va bene a Milano: Milano spreca delle grandi occasioni, accettando il mediocre. City Life e Porta Nuova sono mediocri. Neanche in Indonesia fanno più cose di questo genere, una gated community per finti ricchi, con due dei tre grandi edifici (quelli di Hadid e Libeskind) orrendi. Le Varesine sono anche è un’operazione di serie B. D’altronde tutte queste operazioni nascono in una tradizione di destra, sono figlie di Ligresti. Il segno di ravvedimento ci sarebbe se la smettessimo di gloriarci di queste cose.
CA: Beh, allora siamo abbastanza caldi per parlare di San Siro?
MDM: Ecco, la dimostrazione che siamo lontanissimi da un’operazione di autocritica. Nessuna visione. Perché bisogna fare dei grattacieli, centri commerciali, in un contesto verde, residenziale, massacrando il tessuto minuto di quartiere? Ma soprattutto: tu non puoi fare un’operazione del genere se non hai pensato alla destinazione da dare al vecchio stadio. A Monaco quando hanno voluto fare il nuovo aeroporto, hanno pensato prima a un grande progetto intorno al vecchio e, anche simbolicamente, hanno inaugurato il nuovo solo dopo che il vecchio era stata avviato nella sua nuova destinazione. Cosa ce ne facciamo di tutti questi contesti rimasti sfitti dopo che un sacco di aziende, vedi Generali per esempio, hanno spostato migliaia di postazioni nei grandi grattacieli, lasciando vuoti i vecchi uffici in centro? Guarda che anche la storia degli scali ferroviari non mi pare sia impostata meglio. Si sa ragionare solo in termini di metri cubi di edificabilità e non considerando i bisogni della città. È quella che Saskia Sassen chiama la “finanziarizzazione delle città”: In questa prospettiva Milano diventa un “asset” finanziario. Non conta che tipo di città produce, neppure se e come questa città funziona e viene usata. Potrebbe anche rimanere vuota per anni: un grande palazzo vuoto può produrre più rendita di uno utilizzato.
CA: La bolla milanese, il brand Milano non nasce adesso però, è un processo che ha la sua storia negli anni 90, sbaglio?
MDM: Sì, però negli anni 50 e 60 l’identità storico politico culturale di Milano era molto precisa: una solida struttura industriale integrata in un altrettanto solido contesto urbano, attorno al quale vivevano artisti, intellettuali, architetti, case editrici, anche il teatro! La Milano di quegli anni potrebbe essere descritta come una struttura complessa con al centro la classe operaia che ne garantiva la crescita economica, ma anche una borghesia consapevole del suo ruolo sociale e una “intelligenza” che ne innervava la vita quotidiana. Negli anni ottanta-novanta, tutto questo pian piano si dissolve: alla fine non resta più niente di niente: la Milano da bere.
CA: Beh, c’era la moda. C’era il momento d’oro delle aziende di design prima del colpo della globalizzazione.
MDM: Forse c’era la moda: ma la città le era estranea e incapace di costruire quel sistema che ne avrebbe curato la evidente fragilità. A un certo punto, metà anni Novanta, l’assessore all’urbanistica di allora riceve in visita un gruppo di delegati di aziende pubbliche tedesche e mi dice di portarli in gita a Milano, a vedere qualcosa. Sai che non sapevo cosa diavolo fargli vedere? Non c’era nulla da mostrare se non le orride torri speculative di Ligresti o Milano due di Berlusconi. Alla fine siamo andati al QT8 vecchio di qualche decennio e poi al Gallaratese, dove tra l’altro ho fatto una pessima figura perché a mia insaputa ho trovato l’edificio di Aldo Rossi che stava cadendo a pezzi. Pensavano che li stessi prendendo in giro: invece non c’era niente di nuovo che meritasse una visita.
CA: Secondo te adesso la politica incide molto nella storia di questa città?
MDM: Beh, da alcuni anni, da quando ha vinto Pisapia, che ho votato, sia chiaro, stando in piazza fino alle due di notte a festeggiare, ma del quale mi manca la capacità di formulare una visione su Milano, il dibattito politico è stato piuttosto vivo in città. Sansiro, per dire, lo decide la politica. La faccenda degli scali ferroviari la decide il Comune.
CA: Ma chi sono “i milanesi”, esiste davvero una “milanesità laica e di sinistra” secondo te? Insomma, se Sala decidesse di ricandidarsi, lo vedresti bene?
MDM: Se Sala non riparte tra due anni, vuol dire che il disastro è irreparabile. Lui ha fatto bene, non ha fatto grandi errori e ha dato animo alla città. Sono molto positivamente colpito da quello che ha fatto. È il sindaco giusto per Milano. Ma deve approfittare di questa immagine positiva, per rilanciare una discussione coraggiosa sulla città e sui suoi problemi. Sulla cultura, per esempio.
CA: Ecco, la cultura come sta a Milano?
MDM: Ci sono qualche luce e molte ombre. Ci sono teatri, pubblici e privati, di grande vitalità. In particolare mi è sembrata geniale la scelta del Teatro Parenti di inglobare la piscina Caimi, con un progetto di Michele De Lucchi che trasforma il teatro in un luogo aperto che mescola cultura e tempo libero e che stringe un nuovo patto vitale con la città che gli sta accanto. Ci sono orchestre dedicate alla musica classica, prima di tutte quelle della Scala, anche se la gestione della successione del sovrintendente Pereira non è stata caratterizzata dalla auspicabile trasparenza e si è risolta in un finale piuttosto goffo. Resta solo una curiosità: se a Francia, Germania e Stati Uniti è consentito di sviluppare progetti di cooperazione con i paesi arabi, all’Italia e alla Scala questa possibilità è invece preclusa? Ci sono musei di eccellenza indiscutibile come Brera, diretta per lo più con sagacia e spirito intraprendente, e ci sono fondazioni private di valore internazionale come le già citate fondazioni Prada, Feltrinelli, il pirelliano Hangar Bicocca e le Gallerie del Novecento in Piazza della Scala; ci sono numerose e grandi università, pubbliche come la Statale, il Politecnico, Milano Bicocca, ma anche private come la Cattolica o la Bocconi, con decine di migliaia di studenti italiani e stranieri che costituiscono il terreno fertile di una moderna cultura urbana; e scuole dedicate alla formazione artistica e musicale, pubbliche come l’accademia o il conservatorio, e private come Naba o IED.
CA: Tu hai fatto importanti interventi come direttore della Triennale, penso all’atrio di Riva e alla Galleria della Aulenti, ma sei anche un grande conoscitore dell’arte contemporanea e poi sei un utente attento dell’offerta milanese. Non posso non chiederti un commento sulla situazione dei musei cittadini.
MDM: Tocchi un punto cruciale. Dunque, c’è dunque molto, a Milano, ma manca del tutto una strategia efficace. Per quale assurda logica, la produzione delle mostre temporanee è affidata a società private esterne ai musei, rinunciando a quello strumento potentissimo di scambio e di valorizzazione costituito dalla pratica di costruire le mostre a partire dalle collezioni museali? In tutto il mondo è così, al Louvre come al Metropolitan: le mostre integrano le collezioni, ne permettono nuove configurazioni e animano collaboarzioni e scambi con le istituzioni sorelle. Dentro ai musei esistono proprio quelle competenze professionale che consentono di concepire la mostra come un episodio, pur temporaneo, di una riflessione organica sull’arte. Mi si può certamente obiettare che le mostre milanesi sembrano incontrare il favore del pubblico che ne affolla generosamente le sale: ma all’obiezione si può rispondere che, di fronte alla curiosità e all’interesse del pubblico, è ancor più grave rispondere con prodotti dozzinali, mostre blockbuster prive di qualsiasi originalità e totalmente svincolate da qualsiasi rapporto con le collezioni permanenti, proprio quelle che le mostre dovrebbero esaltare e presentare sotto nuova luce. In quale città del mondo possiamo ritrovare un errore come quello del MUDEC, il bell’edificio disegnato da David Chipperfield, subappalatato a un gestore esterno capace fino ad oggi delle più banali e insignificanti proposte espositive. Che collaborazione può prendere forma sotto lo stesso tetto tra le collezioni etnologiche, le mostre blockbuster con un certo sapore esotico e un ristorante gloriosamente premiato con le tre stelle della eccellenza assoluta?
Da ultimo, dovremmo riflettere un momento. Milano non ha un museo di arte contemporanea: ospita molte delle più importanti gallerie d’arte italiane; vi si svolge ogni anno una importante fiera di arte contemporanea, certo minacciata dalla non lontana Artissima di Torino e da Arte Fiera ospitata a Bologna, ma purtuttavia Miart appare vitale e capace di sollecitare un pubblico vasto e di qualità; a Milano operano le grandi case d’asta internazionali e italiane soprattutto nel campo dell’arte contemporanea: dobbiamo continuare? Ricordare di nuovo le scuole, le riviste, le case editrici, le fondazioni e le associazioni private? E possiamo concludere ritenendo che l’offerta museale milanese presenti, con il PAC ospitato in una delle più belle “Kunsthalle” del mondo dovuta al genio di Ignazio Gardella, un’offerta adeguata all’importanza che la sperimentazione artistica assume nel panorama culturale odierno? Abbiamo poc’anzi ricordato la moda tra le caratteristiche identitarie della Milano del ventunesimo secolo: è possibile che Milano non possieda un museo della moda capace di fare i conti con la storia anche più recente del costume? Di raccogliere e conservare i contributi che designer e aziende hanno prodotto nel corso del secolo precedente? Di mettere in relazione la moda italiana con quanto viene inventato e prodotto nel resto del mondo? E, infine, Milano possiede da quasi un secolo la Triennale, una delle istituzioni più autorevoli e più prestigiose, dedicate non solo al design, ma in generale alle arti utili, alla capacità delle arti di dare forma alla vita degli uomini. Possibile che il museo del design costituisca una promessa continuamente riproposta ma mai del tutto onorata, se non con iniziative precarie e parziali? A che cosa dobbiamo oggi prepararci? Perfino forse a due musei ugualmente mediocri?
CA: E rispetto all’informazione? Al giornalismo? “Corriere” o “Repubblica”?
MDM: Io sono figlio della “Repubblica”, mi ricordo ancora il primo giorno che è uscita. Era il 1976. Tutta la mia generazione ha smesso di comprare “Il Giorno” e siamo passati a Repubblica. Poi pian pianino ho incominciato ad arrabbiarmi e per protesta coi vari direttori non leggevo più. Alla fine sono passato al “Corriere” che è tremendo e adesso con Cairo è persino peggiorato. Anche gli inserti culturali rispetto a dieci anni fa non valgono più niente. Io sono un vecchio PCI, leggevo tutti i giorni “L’Unità” e sostenevo che fosse il giornale più razionale del mondo perché lo leggevi in 24 secondi e avevi esaurito gli argomenti.
CA: Ecco, senti, visto che ne hai parlato tu, hai voglia di aprire infine l’album di famiglia dei De Michelis? Per esempio, come la mettiamo questa tua posizione politica di vecchio pci con Cesare e con Gianni?
MDM: Benissimo. Io e Cesare siamo stati amanti, amanti rissosi, come è giusto che sia. Vent’anni fa, quando ancora c’era mio padre, andavamo sempre a fare Natale nella casa di Falcade, un paesino nelle Dolomiti. Si arrivava il 23 sera, partiva un litigio bestiale in cui Cesare mi accusava di aver ammazzato personalmente 4 milioni di Kulachi; io lo accusavo di aver rubato anche la carta igienica, mia mamma si disperava, mio padre si arrabbiava.
CA: E i tuoi, politicamente, da che parte stavano?
MDM: Mio padre era più moderato di me, poi per via di Gianni hanno iniziato a votare i socialisti sono tutti diventati ferventi socialisti. Sai, Gianni era il più bravo di tutti, il più brillante, il primogenito, li aveva convinti facilmente. Per mia madre il rapporto tra Gianni e gli altri quattro figli era 8 a 1.
CA: Cinque figli, quattro maschi e una femmina, come te.
MDM: Sì, peccato che mio padre ci ha messo dieci anni a farli eio quaranta anni! Comunque noi tre piccoli eravamo tutti in area PCI, mentre Cesare, Gianni e i miei genitori erano socialisti. Giorgio, il quartogenito, per dire, da studente era un militante di avanguardia operaia. Gianni era un personaggio straordinario, ma il fatto stesso che io fossi comunista riduceva enormemente le opportunità per fare qualcosa insieme.
CA: Ma tu non sei stato comunista per opposizione a tuo fratello. O sì?
MDM: Io sono stato comunista perché sono stato uno studente sessantottino, con un corso normalissimo, iniziato con potere operaio. Il nostro punto di riferimento fin da studenti era Massimo Cacciari, che ha un anno più di me. Poi il gruppo si è rotto: Toni Negri è andato da una parte e noi “cacciariani” siamo entrati nell’area PCI.
CA: Torniamo a Gianni.
MDM: Con Gianni poco o nulla, anche se qualche occasione per un dialogo intelligente non è mancata.
CA: E tra Gianni e Cesare?
MDM: Un amore totale. Cesare politicamente era come Gianni, era anche stato assessore socialista a Venezia. Quando Gianni è crollato, la Marsilio ha avuto per più di un anno tre ufficiali della Finanza in casa. Alla fine erano diventati praticamente parte della casa editrice. E sai cosa hanno trovato? Niente, era tutto in ordine.Cesare è stato eroico. È riuscito a uscirne in piedi, rimanendo fedele a Gianni, per il quale aveva una tenerezza infinita. Fino alla fine
CA: Sappiamo che Gianni è morto dopo una lunga e dolorosa malattia. Invece la storia di Cesare è molto diversa, giusto? Anche per te, se capisco bene.
MDM: Beh, ci ha fregati quel maledetto. La fregatura è stata per chi è rimasto. Certo, aveva tenuto duro a un sacco di malanni e arrivato a 75 anni aveva il corpo di un novantenne. Ma ha vissuto bene lui, davvero: appassionatissimo, con la sua Cortina dove d’estate si ritirava con duecento manoscritti da leggere, e li leggeva tutti lui, sai, tutte le grandi intuizioni editoriali per Marsilio erano sue. E anche la sua ultima estate la ha trascorsa a Cortina, dove non usciva, rimanendose tranquillo a leggere alla sua scrivania. Se volevi vederlo dovevi andare lì e questo rendeva tutto divertentissimo perché alla fine ogni sera c’era una cena a casa di Cesare. I suoi amici erano Paolo Mieli, Gian Arturo Ferrari, Francesco Giavazzi, i migliori intellettuali della nostra generazione e le cene erano uno spasso perché si litigava a morte. Cesare era un cultore del paradosso e un amante della provocazione. E così, fino al giorno prima che morisse. Lo chiamo dal Canada: “Come stai?”, e lui: “Eh, come vuoi che stia? Non mi muovo, non posso fare niente ma ogni sera ho gente a cena, ci finiamo una bottiglia di whisky e discutiamo”. Ed è andata proprio così, 24 ore dopo, dopo una di quelle cene si mette a letto all’una di notte con un po’ di mal di testa e non si è mai più svegliato.
CA: E di Marsilio chi si occupa ora?
MDM: A Marsilio c’è Luca, mio nipote, che è molto in gamba. E ha fatto un accordo molto saggio con Feltrinelli. Che per noi a casa è stato ragione di grande divertimento. Inge e Cesare sembravano cane e gatto. Inge mi voleva bene solo per far dispetto a lui. L’ultima volta che ho parlato con lei era tutta arzilla perché non ci poteva credere che avevano firmato un accordo tra nemici. E poi in Marsilio c’è mia cognata, la moglie di Cesare, che Gian Arturo Ferrari dichiarò “la più brava redattrice del mondo”, che riportava il marito a più miti consigli quando Cesare sparava le sue provocazioni, lo sosteneva in tutto. Dopo la morte di Cesare ha sentito di dover tornare in Marsilio di cui è oggi la Presidente.
CA: E chiudiamo con Venezia. Era importante la famiglia De Michelis in città? Vieni da una famiglia nota?
MDM: Ma no. Intanto eravamo protestanti, e a Venezia non esisteva una comunità solida e importante come a Milano o a Torino. Eravamo una famiglia piccolo borghese, mio padre era un ingegnere, un uomo severo ma modesto, abbonato alla Fenice, grande lettore. Mia mamma era la vera star. Veniva da una famiglia umilissima, ma aveva due lauree, in farmacia e in chimica pura. Lei era Gianni: la più brava, ambiziosa, bella e aveva puntato tutto sul suo primo figlio. La notorietà della mia famiglia è nata poi, con Gianni. Eravamo noti, anche numericamente, solo a Falcade, dove c’erano un sacco di De Michelis, finché mio padre ha lasciato in eredità la casa di montagna proprio a Gianni che la ha subito regalata al suo unico figlio, perché la sua filosofia era quella di non possedere nulla: forse di vivere splendidamente, ma senza possedimento alcuno. E la storia di Falcade è finita.
CA: Quanto ha contato l’essere protestanti per la tua famiglia?
MDM: Tantissimo. Appartenere a una minoranza, consapevole, battagliera, solidale, motivata. Il mio essere laico oggi, fare scelte laiche, è proprio legato alla mia storia protestante. Quando avevo 16 anni e ho deciso di non andare più in Chiesa, a casa mia c’è stata una vera discussione pubblica: mio padre era figlio di un pastore, figurati, tutte le domeniche il rito era: in chiesa a San Marco, poi a comprare le paste e poi a vedere un quadro della storia dell’arte in una Chiesa Cattolica. Finché, a un certo punto, io ho litigato con San Paolo. Non è stata una scelta di disimpegno, ma di forte impegno biblico.
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