Milano

Maran (PD): “Primarie, strumento fondativo, non una minaccia”

6 Dicembre 2022

Il desiderio di intervistare Pierfrancesco Maran nasce a inizio estate dopo aver partecipato alla presentazione del suo libro “Le città visibili. Dove inizia il cambiamento del Paese“, lo contatto a ottobre e dopo un paio di tentativi riusciamo a fissare l’intervista, proprio due giorni dopo la candidatura di Majorino alle regionali per la Lombardia. L’intervista ovviamente parte da lì, dalla situazione PD per arrivare a parlare di Milano e di come sta cambiando la città.

Da dove deve ripartire il PD in questa corsa alle regionali?

La formula che ho utilizzato nel mio percorso oramai da due mesi è: “cominciamo da capo.” Bisogna riavvolgere il nastro, tornare allo spirito originario, che metteva al centro una prospettiva veramente ampia. Continuo a pensare che bisogna mantenere un afflato maggioritario, il Partito Democratico e tutto il centro sinistra non funzionano se espellono i dissensi, come è accaduto prima con Bersani e poi con Renzi e Calenda. Come nella tradizione dei democratici americani e dei laburisti, i partiti di centro sinistra devono riuscire a rappresentare al loro interno sensibilità e culture politiche diverse e, tramite processi democratici e trasparenti decidere di volta in volta qual è la voce principale da presentare ai cittadini. Credo che la rottura di processi democratici interni, dove le primarie da strumento fondativo sono diventate una minaccia, “se non vi mettete tutti d’accordo facciamo le primarie”, e non sono utilizzate come modello di decisione preponderante, sia uno degli elementi che giustificano e consentono un allontanamento di altri pensieri, che invece si sarebbero potuti cimentare in un confronto interno.

Da invocare le primarie al ritiro della candidatura, cosa è successo?

Non mi sono ritirato, resto anzi convinto che se le primarie si fossero svolte avrei anche potuto vincerle. Non posso tuttavia che prendere atto che hanno cancellato la competizione. Purtroppo è in corso una fase di chiusura che impedisce un ricambio basato sul consenso popolare e quindi i candidati vengono nominati, preservando un sistema. Castagnetti dice che è così che le correnti tengono in piedi il motore della giostra, e non ha torto.

In cosa appoggia Majorino e in cosa non è d’accordo?

Abbiamo sempre lavorato insieme, ci conosciamo da molti anni, pur rappresentando modi diversi di intendere il centro sinistra. Majorino ha una grande capacità di parlare ad un orgoglio di sinistra e di allargare il campo verso persone che non sono andate a votare, non trovando una proposta solida e soddisfacente. In una situazione di bassa affluenza come quella a cui si è ridotta la politica e quella che probabilmente ci ritroveremo alle prossime elezioni regionali, verosimilmente ancora più bassa delle politiche, motivare un elettorato che desidera un’alternativa alle destre è fondamentale. Penso di poter dare una mano muovendomi verso chi è indeciso tra un voto per il cento sinistra, per il terzo polo, per il non voto: dare un’idea dell’esistenza di una squadra coesa indubbiamente aiuta. E’ il senso di una squadra ampia che, lavorando insieme, può creare una vera alternativa a 28 anni di destra.

La Lombardia non è Milano, quali sono i punti più difficili da affrontare?

La Lombardia ha le dimensioni di un medio Paese europeo, è chiaro quindi che esistono tante Lombardie diverse e non semplificherei in un Milano VS non Milano. Esiste una grande area metropolitana che afferisce a Milano e di cui fa parte anche la Brianza e il Lodigiano, in pratica la vecchia provincia di 20 anni fa, non condivido la tesi che il centro sinistra vince nelle città e perde nelle province lontane. Il problema di fondo è che il centro sinistra non riesce a vincere in questa grande Milano che contempla tutto l’Hinterland e anche la Brianza e potrebbe essere considerata una grande città da 3,5 – 4 milioni di abitanti.

Per vincere in Lombardia dobbiamo presentarci con l’idea di vincere in questa grande area metropolitana da 4 milioni di abitanti e nei comuni capoluogo esterni, come già facciamo. Esiste poi una difficoltà strutturale in aree extra urbane per molte ragioni. La sinistra funziona meglio là dove vi è innovazione e ad oggi l’innovazione si è concentrata soprattutto nelle città, e funziona meglio dove c’è integrazione, mentre è noto che i temi migratori hanno colpito maggiormente le piccole comunità rispetto ai grandi centri urbani che li hanno saputi assorbire in una misura migliore.

Alla fine ci sarà una coalizione?

Lo schema che vediamo oggi con i tre candidati penso che sarà quello definitivo. Non so dire se ci sarà la possibilità di integrare nella coalizione i 5Stelle, ma in tal caso non bisognerà perdere di vista un messaggio di sviluppo e di coesione sociale, se si troveranno dei punti programmatici condivisi. L’opposizione alla giunta Fontana-Moratti era stata compatta a partire da Azione fino ai 5Stelle, senza particolari distinguo, in Lombardia si poteva procedere anche con una coalizione che tenesse in piedi tutte e tre le opposizioni. Non sarei politicamente preoccupato per un estensione della coalizione, sarei preoccupato se questa si portasse dietro temi che non sono stati affrontati in Lombardia e che avrebbe poco senso mettere sul tavolo oggi. Pensiamo al tema dell’impiantistica sui rifiuti e della raccolta differenziata, sui quali la nostra regione, anche in virtù delle politiche urbane fatte dai comuni e dalle società energetiche vicine ai comuni, hanno creato un contesto ottimale e virtuoso.

Fontana o Moratti, qual è l’avversario più temibile?

I numeri sono chiari, il problema è battere Attilio Fontana. Non penso che Letizia Moratti possa concorrere per la vittoria, credo che nelle ultime settimane si sia fatto un racconto non rispondente alla realtà. Letizia Moratti ha una coalizione di partenza che ha preso il 10% alle regionali, quella di Fontana il 50% e la nostra il 30%, per quanto possa avere una capacità espansiva non vedo possibilità per cui possa concorrere per il primo posto e mi colpisce molto il fatto che trovo molti più interlocutori nel centro sinistra che ci raccontano che sarebbe utile votare la Moratti per battere Fontana, ma non ho sentito voci significative dal centro destra che si spostano verso la Moratti. Il tema politico è: si è spostata la Moratti dal centro destra da sola o si sta portando dietro un pezzo significativo di elettorato? Personalmente spero nella seconda ipotesi perché il modo in cui Majorino può puntare alla vittoria delle elezioni è immaginare Fontana sotto il 40%.

Torniamo a Milano. Riqualificazioni di quartiere, ecosostenibilità, città a 15 minuti, gentrificazione, ma intanto le case e gli affitti continuano ad aumentare, proponendo un modello di città lontana da chi abita fuori dalla cerchia e in periferia. Quale soluzione?

È Il vero problema di tutte le città europee di successo, sono città fortemente attrattive al punto di spostare l’economia dal lavoro alla rendita finanziaria immobiliare. È un fenomeno globale che ci preoccupa parecchio, perché le città funzionano se tutte le categorie sociali ci possono vivere, se non espelle né i poveri nè la classe media. Oggi abbiamo un grande problema relativo al potere di acquisto della classe media e dei lavoratori. Penso che la strategia che stiamo tentando di improntare, anche sul modello di altre grandi città con problemi analoghi, come Parigi, Berlino e Amsterdam, è spingere verso mercati della casa paralleli, c’è un libero mercato difficile da controllare, ma bisogna aumentare la quota di edilizia popolare e di social Housing, cercando di arrivare intorno al 30%. Noi lo facciamo senza una strategia nazionale, Parigi lo fa con delle leggi dello Stato che impongono questo obbiettivo alle aree metropolitane entro il 2030. Progetti nati oramai a inizio millennio, con grandi investimenti di risorse pubbliche e regole urbanistiche, che accompagnano questa strategia.

In Italia, dai tempi di Amintore Fanfani, noi non abbiamo una politica della casa degna di questo nome, ma solo investimenti a spot o sostegno all’acquisto della casa con i mutui o con le ristrutturazioni che beneficiano del 110%. Questa oggi non può più essere la leva principale delle aree metropolitane, dove il turn over degli abitanti è importante, dove aumenta il costo di acquisto, ma almeno può essere un investimento, invece gli affitti crescono in maniera molto significativa al punto da rendere difficile la vita di studenti e lavoratori. La strategia oggi a cui dobbiamo tendere è che tra ERP, case popolari, mondo cooperativo e social housing possiamo dire che il 17% dei milanesi vive in case a prezzi fissati dal pubblico, bisogna lavorare per arrivare al 30%. Noi stiamo mettendo alcuni segnali, aree come l’ex macello destinate al social housing, la terza edizione di Reinventing Cities che ha identificato sei aree tutte per l’edilizia convenzionata in affitto, iniziative indubbiamente importanti, ma questo sforzo richiede ulteriori politiche pro attive da parte delle istituzioni e forse anche nell’individuazione di un bonus affitti strutturale, come aveva proposto il centro sinistra in campagna elettorale.

Come integrare il bisogno sociale di una città come Milano al modello che la città stessa sembra rincorrere?

Andrebbe immaginato un modello più largo della città, abbiamo assistito ad una fuga dalla città in particolare dagli anni ’70 agli anni ’90, che era anche un rigetto del modello di vita urbano, quindi la ricerca di una vita nel verde, di spazi più larghi. Oggi ci troviamo di fronte ad un allontanamento dalla città, non per scelta di vita, ma per ragioni economiche.

Credo che questo possa comportare un’estensione dei luoghi nella vita urbana. Da un lato servono migliori infrastrutture, le metropolitane si stanno allargando, la rete ferroviaria può diventare un’alternativa, l’obiettivo è mantenere un modello urbano, per farlo abbiamo bisogno di creare modelli urbani più estesi. In questi anni abbiamo impostato una crescita delle infrastrutture culturali nelle aree periferiche della città, come il conservatorio a Rogoredo, l’Accademia della Acala a Rubattino, Brera che va allo Scalo Farini, il prossimo passo è immaginare strutture culturali che si collocano nei comuni di prima fascia, che diventano sempre più parte di una città che ha tra i suoi pregi e i suoi difetti quella di essere comunque molto piccola, allora noi possiamo passare da una città che oggi ha 1,4 milioni di abitanti ad un percepito di una città di 2,5 milioni di abitanti, ben collegata dal punto di vista del trasporto pubblico come lo è già in larga parte, ma anche dal punto di vista degli elementi attrattivi. Se facciamo questo togliamo anche un pò di pressione abitativa dal capoluogo, la distribuiamo e creiamo opportunità più diffuse. Sono molto curioso di verificare quale sarà l’effetto dell’apertura di Mind, con le facoltà scientifiche e le sue sedi che dimostrano, forse per la prima volta, la nascita di un centro urbano a 10 km da piazza Duomo e come questo può diventare un polo che dialoga positivamente, con i comuni di Bollate, di Baranzate di Rho, di Arese e di Pero, dimostrando che Milano diventa complessivamente più estesa. Cento anni fa il Comune di Milano si è espanso inglobando dei comuni e oggi potremmo dire che si espande una vita urbana spostando e allargando opportunità.

Cosa pensa del percorso nazionale che porta alle primarie di febbraio?

Sono molto preoccupato perché oggi è difficile garantire la tenuta di una comunità che non vuole essere iper identitaria, stanno crescendo i partiti personalistici e tematici che però poi faticano a restare uniti. La storia del Partito Democratico si poneva invece l’obiettivo di creare delle condizioni larghe, per diventare una seria alternativa di governo. Queste primarie e questo congresso devono dimostrare che si crea una leadership individuale con un percorso collettivo intorno, che non sia quello correntizio che si è visto fino ad oggi e che, non solo non escluda e non espella chi non lo ha votato, ma che addirittura si allarghi a tanti cittadini che si sono allontanati. È una sfida davvero affascinante e complicata, ma necessaria. Guardiamo a quello che è accaduto lo scorso 25 settembre, con poco più del 40% dei voti la destra si è presa una delle più larghe maggioranze della storia del Paese e questo nasce dal fatto che se le opposizioni sono tre e frazionate non solo è finita così il 25 settembre, ma finirà così anche in futuro.

Le sembra davvero una strada sufficiente a perseguire l’apertura alla società annunciata?

La strada non è mai sufficiente per definizione, credo però che se uno non inizia a percorrerla in un certo modo non si arrivi lontano. Spesso si parla di modelli, io non credo tanto nei modelli ma credo nei metodi. Nelle politiche urbane noi siamo riusciti negli anni a presentare dei metodi che sono stati inclusivi, anche tra realtà diverse, certamente a Milano, dove comunque fino al 2010 era impensabile immaginare una vittoria della sinistra. C’è stata, invece, ed è stata una vittoria che nel corso degli anni ha dimostrato volti e modi diversi, pur continuando a vincere, è quel senso di capacità di includere pensieri diversi. Può essere una volta più riformista, una volta più di sinistra, ma tutti si possono riconoscere in quella comunità, sia che la guidi Pisapia sia che la guidi Sala, Renzi o Letta, in tutti i casi abbiamo vinto. Ci sono anche altri modelli estremamente interessanti, pensiamo a cosa è successo a Verona solamente qualche mese fa o come la regione Puglia si sia dimostrata un grande laboratorio del sud, passando da Nicky Vendola a Decaro e poi a Emiliano. Ci sono dei modi di stare insieme che consentono a tutte le identità differenti di riconoscersi in un percorso che li vede protagonisti, credo che sia questo il modo con cui si ritorna ad essere competitivi. Dire “mai con qualcuno” è l’anticamera del fatto che poi governeranno gli altri.

Chi preferisce tra Bonaccini e Schlein?

Per mia cultura politica mi sento più vicino a chi ha una grande esperienza amministrativa, anche perché ti dà un modo di porti ai problemi che è quello che ho sempre sentito mio. Credo che per fare politica serva una forte carica valoriale, ma che se i valori e gli ideali non diventano cose concrete restano fini a se stessi. Chi si confronta e si misura con il consenso, con il colloquio costante con le persone, che non si sentono vicine alla politica, ma che ti chiedono di risolvere i problemi, mi crea sempre una maggiore vicinanza.

Ha mai pensato di candidarsi anche lei?

In realtà già in queste settimane sto facendo una cosa a cui non era abituato, mi sono sempre concentrato sulla fase amministrativa dei progetti, sul fatto che la mia idea di società dovesse diventare il modo in cui provo a trasformare e a migliorare la città che ho l’onore di governare. Negli ultimi mesi ho cercato di affiancare a questa attività una presenza maggiore nel dibattito politico, perché provo una profonda insoddisfazione per il modo in cui il Partito Democratico si è chiuso in se stesso. Non sono così idealista dal pensare che non ci debbano essere delle correnti nelle strutture organizzate, ho ben chiaro che in strutture complesse queste possano essere degli elementi normali, ma se diventano così asfissianti da impedire il fatto che nasca una proposta politica credibile per i cittadini, ecco che quel sistema va affrontato e necessita di un impegno maggiore. Per questo mi sono inserito maggiormente nel dibattito politico, perché oggi la politica è così chiusa da non consentirci nemmeno di provare a far bene il nostro lavoro nelle città. Da qui a prendere in considerazione un impegno nazionale penso che ci siano figure che ci hanno lavorato più a lungo e che lo possano fare meglio di me.

 

 

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