Milano
Mainini: “La vita dentro un centro d’accoglienza va conosciuta”
Non è facile entrare in un Cas, Centro di Accoglienza Straordinario. Un centro in cui sono accolti i migranti che sbarcano in Italia. Noi siamo entrati nel Cas di Milano in Via Mambretti 33.
Qui sono accolti 225 migranti richiedenti asilo provenienti soprattutto da Somalia Eritrea e Centro Africa e 100 senza fissa dimora. A loro è offerto un luogo in cui dormire, pasti caldi, assistenza sanitaria e un orientamento.
Non è facile entrarci e visitarlo, scrivevo. Perché al suo interno ci sono uomini e donne, ciascuno con la propria storia. Esseri umani, non ancora maggiorenni in alcuni casi, che hanno vissuto settimane, mesi, anni d’inferno. Le loro condizioni psichiche, se ne parla molto poco, sono spesso precarie.
Ho voluto accompagnare, in visita al Centro, la consigliera regionale lombarda di Patto Civico, Daniela Mainini. Ha accettato di visitare la struttura di Via Mambretti in cui ad accoglierci abbiamo trovato Costantina Regazzo, direttore dei servizi di Progetto Arca, Nicola Skoff, responsabile del Centro di accoglienza di via Mambretti, Alice Giannitrapani, responsabile dei volontari di Progetto Arca, Domitilla Musella responsabile della comunicazione.
È stato un incontro in cui quello che è emerso è stato l’intenso bisogno che hanno, le persone che ci lavorano, di far capire quante cose sono state fatte e quante ancora ne rimangono da fare. È un bisogno. Un’ansia costruttiva di far capire. Di far comprendere la complessità del fenomeno. Ed anche la sua semplicità.
Mi colpiscono tante cose, ma due su tutte. Intanto i sorrisi di chi lavora nella struttura. E poi il rapporto con le persone che ci sono dentro. Si capisce che il vivere insieme, trasforma il gruppo in una collettività. E la collettività in una famiglia.
Daniela Mainini si siede, accolta nell’aula in cui s’insegna italiano, e prende appunti. Dialoga con Costantina. Ascolta tutti i ragazzi.
Cos’è emerso?
Intanto che Arca Onlus, che gestisce il centro in coordinamento con Comune di Milano e Prefettura, ha imparato a gestire la complessità. Anzi: in alcuni casi pensa come un soggetto autonomo che prova ad individuare le soluzioni ai problemi che si succedono.
Ascoltate quanto dice Costantina Regazzo
Intanto sfatiamo un mito nato grazie al “cosiddetto” giornalismo. Nella struttura non sono accolti solo i migranti che chiedono asilo ( e che a partire dal 2013 hanno considerato l’Italia solo una terra di passaggio per ricongiungersi ai propri cari all’estero nei paesi nostri confinanti) ma anche molti senza fissa dimora. Italiani, italianissimi; che il personale tratta come vecchi amici. Lo capisci subito che sono persone con difficoltà psicologiche, piegati non solo dalla crisi economica ma dal peso dell’esistenza. Qui trovano compagnia, trovano delle persone che gli parlano o che li ascoltano. Trovano la vita o il silenzio, un pasto caldo.
Dentro la struttura (l’avvocato Mainini non ha mai smesso di compilare fogli pieni di appunti) c’è una struttura sanitaria vera e propria con personale medico che cura i casi più gravi. Gli oncologici per esempio, o quelli meno gravi con malattie come la scabbia. È il terzo mondo che arriva da noi. Qui non c’è la TV. C’è direttamente quel mondo di cui per sommi capi senti parlare in televisione. Non solo malattie, comunque. Qui sono già nati venti bambini. La nursery fa registrare un bell’attivo. E quando ne parlano, tutti sorridono. È la vita che vince sulla morte.
Sono tante le cose che i ragazzi hanno voluto raccontare. Nicola Skoff per esempio mi ha colpito quando ha detto: “I Cas non sono un problema, semmai un’opportunità e le spiego perché. Si parla spesso di sicurezza ma chi abita questi centri è conosciuto dalla popolazione locale. Si genera un reticolo di conoscenze con la gente del posto. Per cui, quando arriva qualche volto sconosciuto e magari poco rassicurante, scatta un tam tam tra gli abitanti del centro e quelli che abitano fuori. Una forma di sicurezza endogena che contribuisce a rafforzare i rapporti.” Nella visita che abbiamo fatto nel centro, in cui per opportunità mi è stato chiesto di evitare foto e immagini proprio per il senso di ansia di cui sono pervasi i ragazzi, che si sentono ghettizzati, abbiamo visitato il reparto medico con il personale impegnatissimo nel prendersi cura di alcuni pazienti. C’è un clima là dentro, dove percepisci subito le emozioni. Solitudine: i medici lavorano e fanno quello che possono. Ma nelle ferite dei loro pazienti leggono l’idiozia di un mondo alla rovescia. Che uccide i suoi figli o li abbandona nel nome del profitto. Così quando arriva il giornalista che vuole raccontare, che vuole descrivere, cioè il sottoscritto, sei subito guardato con compassione. E non li biasimo. Al massimo chi scrive prova a mettere su carta o su una macchina digitale lo sforzo utopistico di chi crede nell’uguaglianza. Ma chi tocca quei corpi, tocca la carne viva delle nostre colpe, delle nostre miserie. E i giornalisti proprio non li può vedere. Al posto loro, penserei lo stesso.
Il viaggio continua. Passiamo alle camere da letto. Lunghe camerate dove ogni posto letto diventa un mondo: di ricordi e di aspettative. Infine le cucine, in cui un gruppo di egiziani lavora alla distribuzione del cibo e alla pulizia del locale.
Il lavoro. La casa. Sono questi i due temi preponderanti che ho lasciato volutamente in fondo. I ragazzi si adattano a fare lavoretti utili per il centro. Quello che cercano però è un’integrazione professionale. Qui imparano i primi rudimenti d’italiano. Il Cas ha necessariamente bisogno che si cominci a pensare a questi giovani come soggetti che diventino risorse per l’integrazione. Come mediatori culturali, oppure responsabili delle pulizie dentro centri come questi. Ma anche per quelle attività che sono state abbandonate da molti italiani.
E gli italiani senza lavoro? È il mantra adottato da chi gli stranieri li percepisce come un pericolo. Qui nessuno lo dice. Ma il calo demografico, i livelli di sterilità, l’ansia per il futuro che porta molti italiani a non far figli, hanno prodotto lo stato di cose presenti. Di quote di migranti c’è bisogno. Altrimenti è la statistica e la matematica a condannare a una progressiva miseria il nostro Paese. Di una migrazione però regolata. Controllata. Sostenuta. Qui dentro, dove i ragazzi sono in attesa di capire se avranno il diritto a restare e come, i giorni trascorrono. E anche senza volerlo si genera, ogni ora che passa, la coscienza di un cambiamento che coinvolge tutti. Ospitanti e ospitati. La consigliera regionale Mainini ha smesso di prendere appunti. Quando le allungo il microfono per intervistarla è quasi restia. Dopo essere stato qui, hai la coscienza che le parole soffiano nel vento. Ne cogli la leggerezza. Ti pervade un senso di pudore umano, profondamente umano, per cui quello a cui pensi non è a cosa dire. Ma a cosa fare. Subito.
Costantina Regazzo, Nicola Skoff, Alice GianniTrapani
Domitilla Musella e a chiudere l’avvocato Mainini
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