Milano
Ma davvero Milano è solo un’invenzione dei neoliberisti?
Il libro di Lucia Tozzi L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023) propone una critica pesante alle politiche attuate a Milano nel passato decennio e, in particolare al suo proporsi come città attrattiva per la finanza internazionale e per una nova generazione di cittadini nomadici. Col risultato di diventare la città dei ricchi e per i ricchi. Di tutto questo, giustamente, si è discusso e si sta discutendo.
Ma L’invenzione di Milano è anche una riflessone sulla città, vista come terreno di scontro e incontro tra interessi immobiliari, politiche pubbliche e innovazione sociale. Le note che seguono lo discutono da questo particolare punto di vista. Pertanto, non sono una recensione del libro in tutti i suoi diversi aspetti. Né sono una riflessione su Milano, e le sue trasformazioni. Sono invece un contributo alla discussione sull’innovazione sociale e sul suo ruolo nell’epoca del neoliberismo dominante (considerando Milano come caso emblematico di questo ampio fenomeno).
Prima di farlo però vorrei ringraziare l’autrice: proponendo il suo modo di vedere le cose, mette me, e tutti quelli che in questi anni hanno cercato di stimolare e supportare l’innovazione sociale, fuori della nostra usuale zona di comfort. Infatti, in un’ideale divisone del mondo in buoni-cattivi, irrilevanti-rilevanti, chi si occupa di innovazione sociale è abituato a sentirsi nel quadrante dei “buoni ma irrilevanti” (e, pertanto, è abituato a sforzarsi di dimostrare la possibile importanza delle cose buone che propone e che fa). Il libro di Tozzi, invece ci sposta decisamente in quello dei “cattivi e rilevanti”. Cioè di quelli le cui azioni hanno un peso notevole, ma nella direzione sbagliata. E quindi nel quadrante di quelli veramente pericolosi. D’altra parte, poiché a questo tipo di collocazione non siamo abituatati, il libro ci obbliga a guardare con altri occhi quello che abbiamo fatto e stiamo facendo: una posizione scomoda, ma utile per argomentare le nostre idee da nuovi punti di vista.
Convergenze e divergenze. Non conosco Lucia Tozzi ma, da quello che scrive, credo che, al fondo vogliamo la stessa cosa: delle città e, in particolare una Milano, in cui il vivere meglio sia anche il risultato di una riduzione delle diseguaglianze. Una città che non sia una città dei ricchi e per i ricchi, ma una città in cui stiano meglio tutti, a partire dai più fragili e poveri. Concordiamo anche sul fatto che in questi anni, nel suo insieme, Milano non sia andata in questa direzione, che il numero di fragili e poveri sia aumentato e che le loro condizioni di vita siano peggiorate. Siamo anche d’accordo che l’innovazione sociale ha avuto un ruolo importante. Ma, su questo punto, il mio giudizio è opposto al suo.
Per tutta la lunghezza del libro l’autrice continua a rimarcare quello che per lei è “la profonda, strutturale complicità dell’universo dell’innovazione sociale e culturale nei processi di implementazione della rendita e di concentrazione della ricchezza … Una complicità in parte volontaria e in parte inconsapevole, ma in entrambi i casi socialmente devastante” (p168). Questo giudizio coì negativo dipende dal fatto che, secondo Tozzi, l’innovazione sociale ha svolto e svolge un duplice ruolo. Il primo è di attivare risorse sociali per rigenerare aree urbane difficili e, così facendo, innescare processi di gentrificazione cui si collegano manovre speculative più vaste. Il secondo ruolo, più subdolo, è quello di rispondere ai numerosi progetti di rigenerazione urbana proposti da comune, regione e fondazioni varie. E, così facendo, de-politicizzare i problemi, assorbiere in questi progetti le migliori energie sociali e consumarne la potenziale conflittualità in sfiancanti attività partecipative e collaborative. Al contrario di Tozzi, io penso che l’innovazione sociale abbia introdotto nella pratica e nella conversazione pubblica modi di essere e di fare basati sulla partecipazione, la collaborazione, la cura e la prossimità. Cioè sulle idee portanti di una società che tenda ad essere, al tempo stesso, equa, resiliente e sostenibile.
Beninteso, nel dare quest’interpretazione positiva dell’innovazione sociale occorre anche saperne vedere i limiti. Che dopo due decenni di esperienze sono ben visibili. E sono attinenti la durata nel tempo dei suoi risultati e la sua difficile estensione nelle fasce più deboli e fragili della società (chi fosse interessato, può leggere, per esempio, l’articolo che ho scritto con Michele D’Alena, lo scorso aprile per CheFare: Oltre i limiti dell’innovazione sociale: servizi pubblici collaborativi?). Ma, a mio parere, la considerazione di questi limiti non modifica il giudizio di fondo. Dà invece uno stimolo per superarli e delle indicazioni su come farlo.
Com’è possibile che, osservando lo stesso fenomeno e concordando, credo, su ciò che si vorrebbe ottenere, Tozzi arrivi a conclusioni opposte a quelle che di chi come me in questi anni l’innovazione sociale l’ha promossa e sostenuta? A mio parare, ciò deriva dal fatto che, come criteri di giudizio, adottiamo delle idee diverse su alcune questioni di fondo e, in particolare, su quello che è e dovrebbe essere il ruolo degli enti pubblici che, di qui in poi chiamerò “il Pubblico”.
Di che Pubblico parliamo? Concordo con Tozzi che l’innovazione sociale, tra le altre cose, mette in discussione l’idea di Pubblico costruita nel secolo scorso. Il che può farla avvicinare alle politiche neoliberiste e all’attacco che esse hanno portato a tutto ciò che è pubblico. Ma questo modo di vedere le cose è, a mio parere, fuorviante perché, in realtà, la ridefinizione del ruolo del Pubblico proposta dall’innovazione sociale e quella fatta dal neoliberismo vanno in direzioni del tutto opposte.
Il malinteso è iniziato molti anni fa, ed ha avuto il suo apice nel 2010 quando David Cameron e i conservatori inglesi modificarono la posizione tipica della destra neoliberista (e sintetizzata da Margaret Thacher, negli anni ’80 del secolo scorso, nella famosa frase There’s no such thing as society, alludendo ad una società fatta solo di individui), inventandosi la proposta della Big Society. Così facendo, Cameron e i suoi sembravano aver scoperto le risorse di una società di persone organizzate in gruppi attivi, e sembravano dire: “bravi, fate voi, così lo stato può fare sempre meno”. Poi, come si è visto, c’è voluto poco per scoprire che questo era un bluff. Che per dare spazio alle risorse sociali serve un Pubblico molto attivo e presente. Così la Big Society, come proposta politica della destra neoliberista, sembrava tramontata. Ma, secondo Tozzi non è stato così. L’idea è evoluta dando luogo da un neoliberismo nuovo, che oggi si presenta in una forma “avanzata”: quella in cui non chiede al Pubblico solo di ritirarsi per lasciare libero sfogo all’energia del mercato, ma di essere invece, attivo nel favorire il privato. Un privato che, nel modo in cui lei ne parla, include in un’unica grande categoria volontariato e grandi investitori, imprese sociali e grande finanza.
Poiché questo punto mi pare quello fondamentale, riporto qui una lunga citazione tratta dal libro, quando l’autrice, riferendosi a Milano, descrive questo nuovo ruolo del Pubblico come il risultato della “metamorfosi, innescata da Pisapia e rinforzata dal primo mandato di Sala, dai residui del welfare state di stampo keynesiano all’innovazione sociale, con un radicale ribaltamento delle priorità. In nome del principio cardine dell’innovazione sociale – cioè che il welfare non debba più avere nulla a che fare con l’assistenzialismo, reo di “rendere passivi” i cittadini che ne usufruiscono, ma al contrario debba offrire strumenti di self-empowerment, di attivazione culturale, o meglio ancora di imprenditorialità “dal basso– il Comune ha spostato soldi ed energie politiche dall’assistenza più o meno diretta agli abitanti che vivono in condizioni di disagio abitativo ad attività di animazione e alla creazione di nuove start up, rispettivamente attraverso il Bando delle Periferie e la Scuola delle Periferie, strumenti creati nel 2017” (p 140)
Secondo me, Tozzi ha ragione quando scrive che l’innovazione sociale ha al suo centro l’idea di self-empowerment. Ed è vero anche che il Pubblico, a volte, ha allocato dei fondi per sostenerla. Però, per lei, questa è la prova che Pubblico e innovazione sociale sono complici “nei processi di implementazione della rendita e di concentrazione della ricchezza”. Mentre per me il giudizio è opposto: la rigenerazione del tessuto sociale della città che quest’innovazione produce è importante per le diverse ragioni di cui dicevo all’inizio. Ed anche perché, per queste stesse ragioni, essa genera culture e pratiche (di collaborazione, cura e prossimità) che, per loro loro natura, sono in opposizione a quelle neoliberiste (su cui si basano anche l’implementazione della rendita e la concentrazione della ricchezza).
Quindi, secondo me, se oggi vi sono delle politiche pubbliche che sostengono quest’innovazione sociale (riconoscendola come generatrice di occasioni di partecipazione e collaborazione), ciò va giudicato in modo positivo. E, similmente va accolta positivamente l’idea di un Pubblico che oltre ad erogare i necessari servizi, intesi in senso tradizionale, supporti anche la capacità delle persone di collaborare alla soluzione di problemi collettivi. E, così facendo, di produrre nuovi beni comuni e nuove forme di comunità. Detto questo, anche per me non va affatto bene se il finanziamento a queste nuove attività cresce a scapito dei necessari servizi pubblici tradizionali. E quando ciò avviene, come in effetti sta avvenendo, dobbiamo opporci con forza affermando che i due terreni di intervento del Pubblico sono entrambi importanti (e che non c’è ragione di pensare che, se gli investimenti aumentano sull’uno, debbano necessariamente diminuire l’altro).
Politiche pubbliche e sistemi complessi. In questa discussione, partecipazione e collaborazione sono due termini e due pratiche fondamentali. Essi hanno a che fare non solo con il come si risolvono degli specifici problemi, ma anche con la rigenerazione della democrazia e con la capacità di navigare nella complessità.
Prese sul serio, partecipazione e collaborazione sono infatti convergenti con l’idea di Pubblico che si riorganizza in forma distribuita, cioè portando servizi e potere decisionale vicino ai cittadini. E, così facendo, si configura come un insieme di sistemi socio-tecnici capaci di vivere e operare nella complessità senza esserne travolti.
Oggi sappiamo infatti che la visione riduzionista, quella in cui si immaginava uno stato che, idealmente, tutto sapeva e tutto controllava, non può funzionare perché un sistema complesso non può essere controllato: non c’è una cabina di regia da cui tutto può essere visto, diretto e pianificato.
Viceversa, sappiamo che navigare al meglio nella complessità implica di decentrare non solo i sensori ma anche gli attuatori. Il che significa, anche e prima di tutto, cedere del potere, dal centro verso al periferia.
Ovviamente, una volta presa questa strada, occorre che il passaggio di poteri non sia dal Pubblico verso altri grandi centri di interesse privato, come invece predica, e spesso riesce a mettere in atto, l’ideologia neoliberista. E come Tozzi teme che succeda, o meglio come vede succedere. Da parte mia direi che di certo ciò può accadere e, di fatto, sta accadendo. Ma sta a noi impedirlo: se, quanto e come ci si riuscirà dipenderà da tanti fattori. Tra cui la qualità delle politiche pubbliche che riusciremo ad immaginare e a mettere in atto. Trattando di questo tema, ad un certo punto l’autrice parla dei Patti di collaborazione con i cittadini (una ben nota pratica, iniziata a Bologna e esportata poi con successo in molte altre città, tra cui Milano).
Va ricordato che essi hanno come retroterra è una molteplicità di attività molecolari portate aventi in autonomia da gruppi di cittadini e associazioni. A partire da queste esperienze, e considerando le difficoltà incontrate dai loro promotori, l’idea dei Patti è emersa come un modo per attivare delle risorse sociali e da far durare nel tempo le loro iniziative. Per questo, a mio parere, sono un ottimo esempio di come innovazioni sociali e politiche pubbliche possano incontrarsi generando delle innovazioni socio-istituzionali capaci di far fiorire nuove iniziative e consolidarne i risultati. Creando così forme di “normalità trasformativa”: situazioni in cui diventa localmente normale ciò che in altri luoghi e a livello più ampio non lo è affatto. Modi di essere e di fare che risolvono problemi locali e, allo stesso tempo, creano i presupposti per cambiamenti sistemici più vasti.
Al contrario, rispetto a questi stessi patti, Tozzi scrive: “Ma la privatizzazione più insidiosa è quella dovuta al proliferare dei Patti di collaborazione e alle sponsorizzazioni, fatti passare per una generosa pratica di cura di pezzi di spazio pubblico da parte dei cittadini: in realtà si tratta di convenzioni agili tra privati e Comune in cui un condominio, un’azienda o un gruppo di abitanti può letteralmente appropriarsi dell’aiuola o del giardino di fronte al palazzo, recintarla, e in alcuni casi stravolgerla del tutto” (p170). Certo, potrebbe succedere. Ma anche no. Anzi, per fortuna, spesso non è così: come tutte le attività umane anche i Patti possono perdere per strada il loro significato originale e degenerare in qualcosa che assomiglia a ciò che, giustamente, preoccupa Tozzi. Ma, se questo avviene, è appunto una degenerazione dell’idea iniziale. E sta a noi cercare di non farla succedere.
Un terreno contendibile per la democrazia e l’azione politica. In effetti, se il Pubblico si ridefinisce come un ente capace di fornire non solo servizi, ma anche opportunità di partecipazione e collaborazione, si apre un terreno di confronto politico in cui, in teoria e in pratica, può entrare chiunque. Per esempio il grande capitale finanziario. Come sta succedendo e come giustamente denuncia Tozzi. Io penso però che, malgrado questo, cioè malgrado questo rischio, questa ridefinizione del Pubblico vada vista come una conquista: l’apertura un nuovo terreno per la democrazia e l’azione politica. Un terreno che, malgrado le forze in campo siano diverse e con diversa potenza, mi pare contendibile.
Però, per accettare questa tesi, cioè per riconoscere la potenziale contendibilità di questo terreno, occorre prima di tutto avere un’idea della politica diversa da quella che il libro di Tozzi propone. Anche se non mi pare che sia mai scritto in modo esplicito, l’autrice sembra sostenere l’idea che il mondo si divida tra buoni e cattivi. Che gli unici buoni siano i movimenti antagonisti. E che l’unica attività politica praticabile per chi voglia opporsi al neoliberismo dominate sia quella che questi movimenti possono mettere in campo lottando per i diritti (nel caso specifico, per il diritto alla città, nelle sue diverse declinazioni pratiche).
Anch’io penso che l’esistenza di movimenti che rivendichino il diritto alla città sia fondamentale. Ma credo anche che essi debbano interagire con altre iniziative politiche senza le quali rischiano di essere (come troppe volte si è visto) dei fuochi di paglia. In questo quadro si pone anche l’intreccio di relazioni che collega tra loro movimenti, politica delle istituzioni (cioè l’iniziativa del Pubblico) e politica del quotidiano (cioè, nel nostro caso, gli effetti dell’innovazione sociale).
Rispetto a quest’ultimo punto, si può osservare che l’azione del Pubblico può essere più o meno ostile o favorevole alle politiche del quotidiano messe in campo dall’innovazione sociale. A Milano, per esempio, è successo che, spesso, il Comune ha avuto un atteggiamento favorevole e di supporto. Su questo concorda anche Tozzi. Solo che, anche su questo punto, il giudizio che ne dà è opposto al mio. Lei sostiene infatti che il sostegno del Comune all’innovazione sociale abbia indebolito il ruolo del Pubblico come erogatore di servizi uguali per tutti. Ed abbia invece favorito iniziative che, in ultima istanza hanno deviato verso faticose attività di collaborazione quelle energie sociali che, altrimenti, avrebbero potuto dar vita un nuovo movimento antagonista.
Come ho già detto più volte, a me pare che, che questa sia una lettura sbagliata. O meglio, che sia riduttiva e miope. Riduttiva perché vede il farsi della città come un solo progetto: quello dei grandi investitori, con gli attori in campo divisi nelle due squadre di quelli che vi portano acqua e di quelli che vi si oppongono. Ma le cose non sono così. Infatti, i sistemi complessi (e una città è certamente un sistema complesso) evolvono sulla base di una molteplicità di spinte e controspinte. In essi, certamente, alcuni soggetti hanno più potere di altri, ma nessuno ha il controllo totale. E dal loro confronto e scontro si generano diversi campi d’azione per la politica. Quello di cui qui stiamo parlando è quello generato dall’interazione tra pubblico, privato e innovazione sociale. Il giudizio che ne dà Tozzi è che, inevitabilmente, il più forte (il Privato) piega gli altri due (il Pubblico e l’innovazione sociale) al suo servizio. Ma, a mio parere, come sto cercando di argomentare, non è così. O meglio, non è solo così.
Inoltre, come dicevo, il modo di vedere le cose di Tozzi mi sembra miope perché non riconosce che l’innovazione sociale ha portato nella conversazione pubblica delle idee importanti. Come, per esempio, quelle di città della prossimità e di welfare di comunità. Certo, queste idee, di per sé, non sono ancora in grado di riorientare l’intero sistema. Mi pare però che siano sufficientemente forti da far convergere nuove pratiche, nuove politiche pubbliche e nuovi movimenti per il diritto alla città, E, così facendo, rendere i nuovi terreni di confronto di cui si è detto, se non proprio favorevoli, almeno realisticamente contendibili.
A questo punto, forse, Tozzi potrebbe dire: bravo, ma nel frattempo Milano è la città dei ricchi. Si ma, visto come vanno le cose al mondo, forse questo sarebbe avvenuto lo stesso. Forse, l’innovazione sociale, lungi dall’essere strumento dei grandi interessi immobiliari, è l’unica forza che ha contrastato un fenomeno che si sta presentando a scala globale. Forse, se coltivata, ha in sé le potenzialità per combatterlo. E forse di vincerlo, se le politiche del quotidiano che può mettere in atto convergeranno con quelle di un Pubblico capace di svolgere il suo nuovo duplice ruolo e di un movimento politico per il diritto alla città che sappia diventare ampio e incisivo come i tempi richiedono.
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