Milano

Love me tender e la dipendenza da sesso in scena. Intervista a Shi Yang Shi

8 Giugno 2023

Dal 12 al 16 giugno, al teatro Elfo Puccini di Milano va in scena Love me tender, spettacolo teatrale dedicato al tema della dipendenza affettiva e sessuale. Al centro della vicenda Marco, un giovane come tanti, sensibile, bisognoso di riconoscimento e di affetto. Marco vuole essere amato, colmando un vuoto profondo che sente di avere dentro. Cerca conferme, non si ama e fatica ad accettarsi, decidendo così, più o meno consciamente, di trovare nel sesso una soluzione. L’affannosa ricerca di contatto, di vicinanza, lo espone però a una caduta sempre più profonda, al venir meno di un “senso” di questo suo cercare, al vuoto. Poco prima dell’abisso però Marco decide di chiedere aiuto, di provare a riallacciare un legame sano, di sincera prossimità con il mondo relazionale che lo circonda, di mostrarsi nella sua vulnerabilità e di tornare a interrogarsi sui propri desideri profondi, su ciò che dalla vita vuole e vuole essere. Uno spettacolo attualissimo nella sua crudezza, che a partire da un’indagine sul delicato rapporto con la sessualità, pone questioni urgenti per il nostro presente. La dipendenza che nasce da una privazione e dalla mancanza di un percorso affettivo completo è qualcosa che può coinvolgere diverse parti della nostra vita: il sesso, certo, ma anche il cibo, le sostanze, il lavoro, il consumo, i rapporti sociali. In un quadro dove tutto è possibile e concesso, dove l’appagamento immediato, senza responsabilità e senza limiti, di bisogni mai meditati o filtrati con un giudizio rispetto alla “bontà” della vera esigenza personale, Love me tender impone allo spettatore una riflessione sul significato delle relazioni, su ciò che ci definisce e caratterizza, su quello che, a prescindere da influenze sociali, affettive e familiari, chiediamo alla nostra vita.

Ne abbiamo parlato con il protagonista e co-autore Shi Yang Shi.

Love me tender affronta una questione di grande attualità, per molti versi ancora un tabù: quella della dipendenza emotiva. Dai rapporti segnati da stalking e molestie, per arrivare alle relazioni abusanti, sembra che sempre più persone non riescano a relazionarsi in modo “sano” e non dipendente con partner, amici, familiari. In molti si stanno interrogando sull’impatto che la pandemia, con le sue restrizioni sociali, ha avuto sul nostro modo di rapportarci con gli altri. Da cosa nasce il bisogno di affrontare questo argomento?

Il bisogno di fare luce sulla tematica della dipendenza affettiva, che è comune a tutte le dipendenze, e scegliere poi la dipendenza sessuale è nato nel 2021 quando ho coinvolto Renata Ciaravino per scrivere un testo insieme su queste tematiche. In quel momento eravamo ancora in piena pandemia, però entrambi eravamo interessati alla dipendenza affettiva e, grazie a una personale conoscenza con il professor Cesare Guerreschi di Bolzano, abbiamo potuto intervistare molti dipendenti dal sesso, che hanno raccontato le loro storie. Personalmente mi ha colpito molto come la popolazione MSM (uomini che fanno sesso con gli uomini) che ho conosciuto e intervistato in anonimato sia composta da eterosessuali, omosessuali, bisessuali (addirittura anche un prete). Abbiamo voluto raccogliere diversi elementi riguardo alle vite di queste persone e restituirle così anche nella loro vulnerabilità. Poi ci siamo fermati, non siamo medici, raccontiamo delle storie, ma rispettando i confini.

La pandemia ha sicuramente acuito alcune difficoltà relazionali già presenti nella nostra società, ma l’insicurezza, l’incapacità di gestire la frustrazione che nasce la da una mancanza, da un rifiuto, la confusione fra desiderio, bisogno e diritto sono problematiche che già da tempo abitavano il nostro universo relazionale. Si parla tanto di scarsa educazione alle relazioni: può essere questa una risposta alla crisi dei rapporti equilibrati?

La parola relazione è in questo fondamentale. Guanxi (io sono sinoitaliano), la relazione, è una parola fondamentale dicevo, in questo caso per quanto riguarda il contesto della dipendenza affettiva e sessuale, ma in generale anche a partire dalla relazione familiare, ovvero con la famiglia di origine, per poi passare a quella acquisita delle relazioni amorose. La famiglia di origine è piena di vermi, come dice la tradizione de I Ching, e spesso le persone non ricevono abbastanza amore incondizionato, così lo cercano come lupi affamati, lo cercano in tutti i posti e non importa quale sia la sostanza, il bisogno, il cibo di cui disperatamente hanno bisogno. Nasce così la dipendenza, che può essere legata a tutto: cibo, sesso, internet… Alla fine non riesci a reggere a quel senso di caduta che senti dentro, interiormente. La pandemia ci ha insegnato come i grandi cambiamenti non cambiano le persone, a meno che le persone non abbiano dentro un cambiamento vero che le modifica stabilmente. Ci ha mostrato anche una vulnerabilità, che come generazione non avevamo conosciuto, perché non siamo figli della guerra, e dobbiamo gestirla, anche dopo la pandemia. È una cosa asfissiante sentirsi come dei topi nella ruota nelle relazioni – della famiglia di origine così come in quelle acquisite – e non riuscire ad uscirne.

A prescindere dai percorsi educativi (che siano familiari o scolastici) esiste un tema di insicurezza personale, di mancanza di solidità del sè, che sembra sempre precario, sempre bisognoso di conferme e di un “altro da sè” in grado di riconfermare la nostra immagine nel mondo. Questo però si scontra con un portato culturale sociale che ci insegna quotidianamente, con messaggi più o meno espliciti, che “tutto è possibile” e che non esistono limiti. Ma se non esistono limiti e possiamo pretendere dall’altro tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sentirci completi non rischia  di crearsi un cortocircuito di dipendenza potenzialmente lesiva?

Assolutamente c’è un cortocircuito e noi lo raccontiamo. Io sono un quarantenne e la mia generazione o quella dei trentenni, dei cinquantenni di oggi, non ha conosciuto l’AIDS dal vivo come coloro che hanno perso amici negli anni ottanta. La mancanza di limite fa parte del nostro vissuto. Abbiamo percepito un limite durante la pandemia, ma oggi, nell’ordinario, non c’è nulla che blocchi il consumismo nel sesso e questo è tipico di una società capitalistica, in cui il rapporto col sesso è spesso pornografico. Nella nostra comunità gay è ancora un tema tabù, perché il bisogno di diritti, di acquisizione di diritti, ci porta a ricercare costantemente il godimento senza chiederci se questo è sano o meno. Se è quello che vogliamo o meno. E non c’entrano i diritti, ma è questione di sostenibilità della mente, che è collegata al corpo. Sono felice che Love me tender si possa leggere anche come acronimo, LMT, cioè il limite. Il limite segna il confine fra il cortocircuito e una vita sessuale soddisfacente e sostenibile nel tempo.

In questo contesto è difficile pensare che le relazioni possano trovare in loro stesse, nella bellezza del rapporto e dell’interesse autentico per l’altro – che sia sessuale o emotivo – un appagamento e una realizzazione. Le pressioni sociali poi ci impongono spesso di corrispondere alle aspettative che il mondo circostante proietta su di noi. Dobbiamo rassegnarci a corrispondere ai desideri e ai bisogni degli altri – talvolta espressi in termini quasi ricattatori, per quanto passivamente –  per essere appagati nel nostro bisogno di riconoscimento o è ancora possibile chiedersi cosa ci rende felici e cosa desideriamo? 

Verso la fine dello spettacolo c’è una domanda che Marco fa a sé stesso, una domanda retorica, che è “Come avrei potuto essere diverso?” ed è una domanda legata sia alle relazioni familiari, che alla sua storia personale: rispetto al giudizio degli altri, rispetto a quanto riesce ad “incassare” questo giudizio e le aspettative, i desideri più profondi e nascosti, la realizzazione del sogno… E rispetto a questo tema noi non andiamo a esaurire la questione della dipendenza sessuale e affettiva, ma raccontiamo attraverso la storia di Marco Hu come la sensibile ricerca di una persona possa essere universale e che ci possa ispirare per fermarci, dove possibile, davanti al dirupo, curarci eventualmente, chiedere aiuto. Non viviamo dentro le bolle e ci influenziamo in modo interdipendente, anche rispetto a questo aspetto problematico e alle possibili soluzioni.

E il teatro ci può aiutare in un percorso di maggior consapevolezza attraverso il rispecchiamento?

Il teatro è una scatola magica protetta (questo spettacolo è vietato ai minori di 16 anni) e ci permette di sciogliere un nodo esistenziale e malsano, di rappresentare il tipo di percorso che conduce a un certo comportamento, senza giudicarlo, ma dichiarando ciò che viene nascosto a sé stesso, ciò che gli altri stigmatizzano e giudicano. Il teatro funziona in questo caso come un laboratorio. Solo oggi in Italia nel 2023 parliamo di dipendenza sessuale in questo modo, in pubblico. Il teatro indipendente offre un’occasione di riflessione. L’Italia non sostiene la ricerca indipendente stabilmente, nel tempo, e quindi purtroppo (ma per fortuna nel nostro caso), dopo due anni un teatro importante come l’Elfo, che ha un pubblico interessato a queste tematiche, ci ha aperto le porte e noi possiamo raccontare una cosa che sta cara alla gente, ma che senza canali di distribuzione neanche il teatro riesce a raccontare. In questo caso la scatola magica sta per aprirsi e brillare e noi ne siamo orgogliosi.

LOVE ME TENDER
di Renata Ciaravino e Shi Yang Shi
con Shi Yang Shi
e la partecipazione di Marco Ottolini
regia Marcela Serli
produzione Nidodiragno/CMC / S.Y.S

Ph. Laila Pozzo

 

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