Cibo
“Lockdown no more”, il ritorno
Non era necessario che quello stato delle cose terminasse, perché anche l’indifferenza e il silenzio, quando durano per anni, finiscono col costruire equilibri, cioè situazioni da cui un certo sistema, che può arrivare a essere l’insieme della vita, non ha ragione di muoversi. A meno che l’esercizio di qualche forza indipendente non arrivi a rimetterlo in moto. E che questa forza fosse il campanello che suonava alle sei e mezza di una sera di mezzo autunno io non lo immaginavo, anche perché da qualche tempo immaginare non mi interessa più.
“Paladar Marconi?” A chiederlo era una lei bionda sui quarant’anni, ferma davanti alla porta con un uomo al fianco e una bambina in piedi tra loro. Una famiglia, penso io, e certamente stranieri, vista l’esitazione a parlare dei due adulti, resa evidente da uno scambio di sguardi rapido e incerto, come a interrogarsi su chi dovesse cominciare. Era stata poi la donna a dire quelle prime due parole, con cadenza indefinibile, mentre lui in jeans e giacca a vento azzurra continuava a guardarmi con la forma del sorriso impostata sulla faccia. La bambina, intanto, mi fissava dal basso con uno sguardo appuntito, seria come lo sono sempre i bambini di fronte agli estranei; avrà avuto 12 anni, in gonna di lana rossa e stivaletti beige imbottiti, indossava anche lei una giacca a vento. Verde però, ma di un verde più chiaro rispetto a quello dell’anorak di nylon che portava la madre. I tre mi ricordavano tanto le immagini di famiglie della DDR negli anni Settanta, per cui non potevo non provare qualcosa di morbido e familiare nell’averli di fronte.
“Yes, Paladar Marconi”, le rispondo,“but, momentarily locked down”. Questa da marzo 2020 era diventata la risposta per tutti. Prima per legge, anzi decreto, e poi per svogliatezza ero diventato “momentarily locked down” indefinitamente. Lo ero per Chinese Whispers l’organizzazione a cui Paladar Marconi appartiene e che ha continuato a scrivermi per gli aggiornamenti sulle parti del mondo dove guadagnavamo associati e su quelli che ci lasciavano, oltre che per segnalarmi possibili clienti. “Momentarily locked down” lo ero per i viaggiatori sostenuti dalla tenacia imperscrutabile del passaparola, che hanno continuato a frequentare Milano e chiedermi per posta, segreteria telefonica ed email di mangiare qui. “Momentarily locked down” lo sono diventato anche per i frequentatori di casa che uno a uno, hanno cominciato a perdersi nuovamente nelle proprie estraneità, compresi quelli che avrei voluto trattenere.
“Momentarily locked down”, però, non bastava alla donna che avevo davanti che con sguardo, tono e un poco di inglese, mi parlava assertiva da una regione di confine tra la supplica e lo stupore. “Lockdown no more in Norway. Lockdown no more in Italy”, ha detto, segnalando così che erano norvegesi, mentre intanto mi porgeva l’A4 ripiegato che aveva tenuto tra le dita fin dall’inizio. Il foglio senza busta era una lettera firmata da Girolamo, un insegnante di matematica milanese che dalla pensione girava il mondo in maniera itinerante. A ogni accredito del mensile aveva cominciato a percorrere un pezzo di strada e di vita, attraversando un tratto alla volta interi paesi e continenti. Un modo per viaggiare economicamente più efficace in Asia rispetto, per esempio, al Nord America, ma con un poco di esperienza nel destreggiarsi tra le righe delle possibilità di trasporto e accoglienza, praticabile quasi ovunque. A Milano dove non aveva più una casa era da allora tornato poco e solo per rivedere una figlia ormai adulta; in quelle occasioni era venuto al Paladar fino a diventare una ricorrenza non frequente, data la vita che conduceva, ma così sistematica che per approssimazione lo potrei definire un amico.
“Caro Gerineldo,” scriveva nel suo corsivo chiaro, “spero tu stia bene, benché io non abbia più tue notizie da quando gli impegni ti impediscono di rispondere a me, così come alle persone che ti mando. Riceviamo tutti l’email preimpostata, “We apologize for… but the Paladar is momentarily locked down… Eccetera”. So però con certezza che sei ancora lì. E del resto dove potresti essere altrimenti? La tua Mariamedusa è ancora una ragazza. Nel dubbio ho chiesto a Lia, mia figlia, di passare sotto casa tua tra le sette e le otto di sera, quando avrebbe potuto; nei miei ricordi era l’ora in cui uscivi sul balcone a fumare il sigaro e guardare il cellulare. E’ venuta tre volte in due mesi e l’ultima ti ha visto. Senza chiederti niente di altro e sapendoti lì ti mando Petter, Renate e la piccola Ingrid e te li mando direttamente con queste due righe in mano, certo che li accoglierai. Sono una famiglia di viaggiatori ai margini, come me e la maggior parte dei clienti di Chinese Whispers: curiosi, creativi, con pochi soldi, sempre a toccare da ogni parte i posti che visitano o a cercare conferme di suggestioni nate da libri e film. A casa dei Pedersen, tempo fa, trascorsi i ventiquattro giorni tra un arrivo e una ripartenza e da allora intratteniamo una corrispondenza regolare. Sono brave persone, per la metà del mio soggiorno mi hanno ospitato gratis in cambio di lezioni di matematica per Ingrid che in matematica era già bravissima. Parlano solo norvegese. Abbine cura, Girolamo.”
Benché non infastidito, non ero per niente a mio agio. Apprensione, ecco, provavo l’apprensione di quando precipito in situazioni ineluttabili, in cui devo fare qualcosa che è stata consueta, ma che ho smesso da molto di fare. Li mando via? E se comincio, come comincio? Soprattutto, che senso avrebbe avuto? Me lo chiedevo senza retorica di fronte allo sforzo involontario e un po’ tentacolare di una specie di amico per riportare in vita il Paladar, e in considerazione, lo ammetto, della tenerezza che provavo per questi tre norvegesi il cui aspetto mi riportava nell’immaginario agli anni di Willy Brand. Era inutile lamentare la sfrontatezza di Girolamo che pur non cucinando, non poteva non avere la coscienza di quanto fare da mangiare richieda programmazione, anche minima. Inutile anche lamentarmi di questi Pedersen che benché colpevoli di un’improvvisata che anche in Norvegia verrebbe considerata inopportuna, non potevano essere tenuti in attesa le ore necessarie alla preparazione di una vera cena. Inutile era soprattutto farmi prendere da preoccupazioni di stile, frigo vuoto e voglia di lasciare un segno. Erano semplicemente viaggiatori alla ricerca, nella specifica circostanza alla ricerca di una cena che fosse un frammento di verità sul luogo che visitavano, compatibile con i pochi soldi che avevano. E allora non mi è restato che indicare loro la sala in fondo al corridoio e mentre per encomiabile abitudine nordica si toglievano le scarpe prima di entrare e accomodarsi, ho raccolto le giacche a vento, per poi passare subito in cucina a improvvisare un aperitivo con gli avanzi del sabato precedente: tre pezzetti irregolari di pane con qualche acciuga a testa, un pugno di mandorle tostate in forno e da bere una bibita senza zucchero alla bambina e due mezzi bicchieri di bianco aperto da tre giorni per i grandi. Prima di lasciarli metto i telecomandi della TV e delle piattaforme di streaming in mano a Ingrid e dico loro, “about one hour to the dinner. Give or take”. Poi vado a cucinare.
Il menù è semplice per necessità, potendo contare solo sulle eccedenze della cena di sabato, tra ingredienti cotti e crudi, e sulle spezzature della solitudine di quando cucino e non c’è nessuno a mangiare, per cui poi congelo la maggior parte di quasi tutto. Quindi strisce di melanzana in scapece, di qualche giorno fa, pomodori confit conditi, da fare sfruttando il mezzo chilo di datterini che ho in frigo, e mezzi paccheri con la crema di pomodoro e parmigiano, facendo affidamento su un sugo di puri perini che avevo in freezer. Mi sembrava una proposta onesta ed equilibrata e non dettata unicamente dalla mancanza di alternative. Oggi che non si ragiona più a primi secondi e contorni, la pasta si presta come piatto unico in qualsiasi cena e le verdure come sfizio di accompagnamento possono precedere, seguire o esserci allo stesso tempo. E poi loro erano norvegesi e questo in fatti di cucina li rendeva inconsapevolmente più liberi, curiosi e tolleranti.
Pomodori Confit Conditi. Di sicurissimo effetto visivo e quando si azzeccano i pomodori giusti e l’equilibrio tra i pochi ingredienti, i confit sono anche seducenti al palato. Ho dovuto cominciare da loro che richiedono fino a due ore di forno, ma in condizioni di emergenza ne basta una, alzando la temperatura, purché i pomodori siano piccoli, della dimensione, appunto, del datterino.
Ingredienti. 500 grammi di pomodori datterini di buona qualità. Ormai si trovano sempre e quelli buoni si riconoscono. Olio, sale, origano, scorza di mezzo limone non trattato tritata con la mezzaluna, capperi piccoli dissalati accuratamente in acqua (ci vogliono due ore, ma assaggiare aiuta a capire).
Procedimento. Accendo il forno a 180 gradi con la ventola attiva. Li taglio a metà e accostati li allineo rivolti verso l’alto in file regolari, appoggiati su un foglio di carta da forno a ricoprire una leccarda. Condisco con sale, poco origano e poca scorzetta di limone non trattato. Gli ingredienti vanno distribuiti con furbizia e attenzione, pomodoro per pomodoro, per evitare che ce ne siano di non conditi. Da qui l’importanza della disposizione in file serrate che aiuta a spargere senza omettere. La fortuna di quella sera ha voluto anche che il sabato precedente, dagli ingredienti per un’insalata di cavolo croccante, avessi avanzato una manciata di capperi della misura più piccola, già dissalati. Ne ho appoggiati uno o due all’interno di ciascun pomodoro. Poi un filo di olio, quindi la leccarda in forno per un’ora. Sarebbe stato meglio a 140 gradi per un’ora e mezza o due, ma questo tempo non c’era. In ogni caso i pomodori in cottura vanno controllati (il che significa assaggiati): l’obiettivo non è cuocerli, cosa che inevitabilmente accade, ma far perdere loro l’acqua, lasciando polpa e condimento non eccessivamente secchi. Vanno estratti ancora umidi perché l’acqua restante, quando è poca al punto giusto, poi si asciuga una volta fuori. E’ infatti preferibile non mangiarli subito e farli riposare per poi consumarli tiepidi disposti su un piatto. Un’accortezza per chi ha tempo è tenerli un paio d’ore in forno freddo e con la sola luce accesa (l’interno raggiunge i 27 gradi circa) prima di mangiarli. E’ chiaro quindi che possono essere preparati anche molto in anticipo. Io per stare nell’ora approssimativa entro cui avevo promesso la cena, li ho sfornati e lasciati in balcone al freddo di novembre per altri 10 minuti.
Li ho serviti dopo la pasta insieme a un pezzo di parmigiano. A me è tornata comoda questa combinazione, loro in realtà si prestano a qualsiasi cosa. E anche le varianti sono molte; io puntavo a un risultato non dolce, ma volendo, rispetto a quanto raccontato, si possono omettere capperi e origano, per spargere, insieme agli altri ingredienti, un poco di zucchero di canna prima di infornare. Caramellerà e giocherà con l’acido del pomodoro e l’agro della scorzetta.
Melanzane in Scapece. Mediterraneo puro. Devono essere acetose e avere quel sapore che io ho nella memoria, ma che chiunque può individuare rapidamente, seguendo il semplicissimo procedimento, quando si arriva ad aggiungere la quantità di peperoncino, aceto, olio e menta sufficienti a dare senso all’altrimenti inespressiva melanzana ammorbidita in forno. Durano fino a una settimana e nei primi due giorni il sapore migliora progressivamente. Si possono mangiare a partire da 24 ore dopo la preparazione, prima manca la combinazione dei sapori, ma si ha solo il gusto della somma degli ingredienti. Le ricette sono moltissime e la mia è il risultato di una ricerca fatta per contemperare l’esigenza di non friggere le melanzane, almeno non sempre, avere qualcosa che possa resistere vari giorni e sia importante in tavola. Oltre all’alternativa di friggerle, ci sono anche versioni che prevedono le melanzane bollite, ma a mio avviso in quel caso l’acqua trattenuta è troppa.
Ingredienti. Le preparo sempre nell’ottica di mangiarle per qualche giorno, quindi ne prendo un chilo abbondante, che equivale a 4 melanzane non grandi, scelte una per una, che devono essere più o meno della stessa dimensione. Poi sale, olio, aceto bianco di vino, aglio, molta menta, peperoncino in polvere o tritato sul momento.
Procedimento. Su un foglio di alluminio ripiegato sui bordi (fa le veci della teglia) metto in forno non ventilato a 150 gradi per un’ora circa, girandole ogni quindici minuti circa in maniera da farle ammorbidire sui quattro ipotetici lati (so che sono tonde, ma il senso è chiaro) e far arrivare il calore al centro in modo uniforme. Non cuociono veramente, si ammorbidiscono. Poi le faccio raffreddare, pelo la buccia che quasi sempre viene via tirandola e le taglio a metà. Con delicatezza esercito pressione per far perdere l’eccesso di acqua, quindi taglio le mezze melanzane dividendole in strisce spesse e regolari. In un contenitore che poi si possa chiudere dispongo uno strato di strisce e condisco con sale, poco peperoncino in polvere, molte foglie di menta spezzettate con le mani, uno spicchio di aglio tagliato in tre in maniera che resti visibile, abbondante aceto e olio, entrambi “a sentimento”. Quindi si fa la medesima cosa con lo strato successivo. Nelle prime 24 ore vanno girate ogni tanto e assaggiate ogni volta. Qualora qualcosa mancasse si potrà aggiungere. Ripeto, danno il meglio di sé se sono acetose e se il peperoncino non è pervasivo. Progressivamente questo è il risultato a cui tendere. Mangiandole dopo qualche giorno non è vietato ravvivare il sapore di menta aggiungendone di fresca.
Crema (sugo) di pomodoro e parmigiano. Chi provasse a farla potrebbe darmi ragione nel chiamarla crema invece che sugo. Il procedimento è debitore del metodo dei popolarissimi Paccheri alla Vittorio, anche se non uso i paccheri, non aggiungo burro e più in generale mi adatto a quello che ho a disposizione come fa ogni cuoco o cuoca di casa. Quindi quasi sempre è una cosa diversa con il tratto comune della cremosità. Ne faccio sempre di più, o molto di più, di quanto ne serve perché non c’è niente che si presti meglio a essere conservato in freezer e utilizzato nel giro di mezz’ora per fare una figura eccezionale.
Ingredienti. Le quantità a cui mi riferisco si prestano per mangiare in sei/otto. Oppure in numero inferiore per poi surgelare il resto e avere, come quella sera, una lussuosa delizia sempre a disposizione; il tempo di preparazione tanto non cambia. 1,5 a 2 kg di pomodori (perini, cuore di bue, mix di specie eccetera). Oppure 4 barattoli di pelati San Marzano, due di ciliegini pelati e un mezzo chilo di pomodori freschi tipo datterini.
Vale però ogni combinazione di quanto ha in casa. L’assemblaggio delle specie si fa perseguendo una adeguata combinazione di frutti dolci e acidi. Il cuore di bue, per esempio, quando c’è è una sensazione. Un paio di tentativi provando diverse marche di pelati e varietà di pomodoro mi ha permesso di capire quelli che per la mia idea della crema vanno meglio. Personalmente evito solo gli albini e acquosi pomodori invernali dei supermercati, tipo quelli a grappolo. In questo caso sono molto meglio i pelati .
Servono poi solo sale, olio, aglio, abbondante basilico, pepe. Potrebbe servire un cucchiaino di zucchero di canna se dovesse rivelarsi troppo acido.
Procedimento. Prendo una casseruola di ghisa da 24 oppure, quando utilizzo i voluminosi perini freschi, una pentola del diametro 28. Olio a ricoprire il fondo per far soffriggere a fuoco moderato tre spicchi di aglio schiacciati. Poi aggiungo i pomodori freschi, tagliati a cubetti, se utilizzo solo quelli. Altrimenti prima quelli pelati e dopo mezz’ora quelli freschi se faccio un mix tra i due, oppure, ovviamente solo i pelati. Dovrà cuocere per un’ora, dieci minuti prima si aggiusta di sale e due minuti prima si aggiunge abbondantissimo basilico fresco spezzettato con le mani. Quindi si toglie dal fuoco e si passa tutto con un frullatore a immersione all’interno della pentola stessa. Successivamente si versa il sugo in una chinoise, io l’ho fatto anche con un colabrodo a maglie fitte, sovrapposto a un recipiente e poi si immerge il frullatore in questo sugo e lo si attiva a velocità moderata. In questa maniera bucce e semi resteranno nella chinoise (o colabrodo) e quella che uscirà da sotto sarà una autentica crema. Che si assaggia, si aggiusta di sale se ancora lo dovesse richiedere e anche di pepe. Qualora troppo acido questo è il momento di aggiungere un po’ di zucchero di canna. Poco.
Poi cuocio la pasta molto al dente: io preferisco i mezzi paccheri o la calamarata, perché la quantità di manovre che subiscono cuocendoli e saltandoli, alla fine rischia di rompere i più grossi paccheri. Ammetto che contenitori da cottura molto più grandi e forse maggiore maestria ridurrebbero il problema. Nulla vieta i rigatoni, né di usare la crema di pomodoro per condire normalmente qualsiasi altro formato di pasta. Ma qui ricercavo un determinato risultato, quindi ho seguito questo metodo.
Con un mestolo ricopro di sugo il fondo di una padella sufficientemente larga, ancora un ciuffo di basilico spezzettato, aggiungo poi la pasta scolata, quindi ancora abbondantissimo sugo, davvero tanto, e 30 grammi di parmigiano giovane per ogni etto di pasta. Il risultato deve essere una pasta quasi affogata nella crema di pomodoro e parmigiano. Lavoro il tutto con una spatola di legno o silicone, facendo attenzione a non rompere i pezzi, in pochissimo tempo il parmigiano si scioglierà e la pasta sarà pronta per essere servita. L’effetto è sempre sontuoso.
Un’ora e quindici minuti, questo è il tempo che mi è stato effettivamente necessario a servire la cena. Un paio di volte sono tornato dai Pedersen per vedere come stessero: all’inizio parlavano tra loro giocando, mi è sembrato, a indovinare gli equivalenti norvegesi dei titoli sulla libreria; poi hanno fatto qualche partita a UNO; quindi Petter si è seduto in cucina a guardarmi lavorare in silenzio mentre Renate e la ragazza parlottavano. Poi hanno mangiato felici, cosa che ho dedotto dal risveglio della conversazione tra loro.
Alla fine è stato Petter a chiamarmi e a chiedemi con un gesto discreto quanto dovessero pagare. Ho conteggiato con lui, 3 euro per le melanzane, 2,90 per il pacco di pasta e 6 per il sugo, 6 euro euro per i confit e altri 6 per il parmigiano. Per le bevande 6 euro in tutto, considerando anche la mezza bottiglia di bianco già aperta. Ho fatto la somma e sul foglio che riportava anche il menù, che lascio sempre per ricordo, ho scritto 30 euro. Lui mi ha dato un biglietto da 50, stringendo il suo pugno intorno al mio per farmi intendere che non voleva il resto. “Thank you”, devo avergli detto prendendo i soldi. E forse la stessa cosa l’ho ripetuta salutandoli tutti insieme poco dopo, quando ormai rivestiti stavano per lasciare la casa. “In which hotel are you staying?”, ho chiesto sulla porta. Allora Ingrid è tornata indietro e facendomi strada verso la stanza di Mariamedusa, dalla portafinestra ha indicato l’altro lato della strada. Davanti alla farmacia di fronte c’era parcheggiato un camper Ducato 2500.
Osservandoli andare, mentre al semaforo sotto casa attraversavano la via, ho poi pensato, “non potrei mai, nemmeno in estate”. Il mattino dopo quando ho rialzato la tapparella non c’erano già più. Qualcuno dice che questo è il bello del camper.
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