Milano

Lo spazio pubblico fa acqua?

23 Luglio 2015

La vicenda che in questi giorni ha causato il divieto di “balneazione” in piazza Gae Aulenti a Milano – vedi il resoconto della redazione qui – pone delle riflessioni riguardanti lo spazio urbano, la sua progettazione, la sua gestione, la sua fruizione. La cosa che colpisce di questo luogo milanese è che nonostante sia circondato da edifici retorici e poco interessanti e non abbia un disegno particolarmente affascinante, funziona. La piazza è piena di persone di ogni genere – contrariamente a quanto ci si aspetti essendo principalmente uffici – che si divertono e scelgono di incontrarsi lì perché è vicino alla stazione Garibaldi, ci sono diversi bar, è raggiungibile con i mezzi pubblici di superficie. Inoltre i due grandi varchi creano una corrente di aria che, raffrescata dalla presenza dello specchio d’acqua e dalle fontane che zampillano da pavimento, genera una sorta di microclima ottimale per sconfiggere la calura padana. I giochi d’acqua sono presi di mira da decine di bimbi festanti controllati a vista da mamme non particolarmente preoccupate. Perché anche la dimensione dello spazio permette agevolmente di traguardare visivamente chi si muove al suo interno. Mentre alcuni adolescenti si ritrovano nel piano inferiore per ballare la breakdance sotto l’occhio attento dal vigilante del supermercato.

Insomma architettonicamente molto discutibile, urbanisticamente un successo. Tutto il contrario di certi spazi venerati dagli architetti, perché compositivamente e linguisticamente correttissimi (per esempio Fontivegge a Perugia), ma totalmente deserti perché invivibili e privi di qualsiasi attrattiva.

A. Rossi, Fontivegge, Perugia, 1982-1989 (www.skyscrapercity.com)
A. Rossi, Fontivegge, Perugia, 1982-1989 (www.skyscrapercity.com)

Ma ciò che non ha funzionato in questa vicenda è stata la gestione dello spazio pubblico, o per meglio dire di uno spazio privato concesso a uso pubblico, che ricorda l’immagine degli studenti fuori sede quando ricevevano la visita a sorpresa del padrone di casa che, davanti ai “ma questa è casa nostra, noi paghiamo l’affitto!”, rispondeva serafico “no, questa è casa mia”.

La privatizzazione dello spazio urbano è ormai un dato di fatto. Negli ultimi tempi questo fenomeno ha subito un’accelerazione a causa della costante penuria di fondi pubblici che impediscono la realizzazione di nuovi spazi o la manutenzione degli esistenti, costringendo di fatto l’istituzione a rivolgersi ai privati affinché assolva a tali compiti. La legislazione però non segue questi fenomeni in rapida evoluzione, non asseconda le necessità negoziali di sindaci e impresari, lasciando norme e prescrizioni che rimandano a mondi non più esistenti. Vietare la “balneazione” in una piazza non solo è ottuso ma evidenzia un’asincronia terminologica con la realtà: i bambini che si bagnano ricordano più le scene di Jungle Fever di Spike Lee  e non, come dice il dizionario Treccani, delle persone che “fanno il bagno tuffandosi nell’acqua del mare, di un lago, di un fiume”. Insomma se vogliamo che lo spazio diventi veramente pubblico nella sua fruizione – al di là del regime proprietario – sarà necessario cambiare il modo di pensare la politica di gestione della città a partire dalle norme che regolamentano i processi perequativi, agevolando le amministrazioni attente a garantire alla cittadinanza una fruizione più ampia possibile della città. Affinché gli spazi si trasformino in luoghi riconosciuti e naturalmente condivisi.

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