Milano
L’isolamento del modello Milano
In questi giorni si è fatto un gran parlare del “modello Milano”, che ha visto il centrosinistra non cedere ed anzi consolidarsi alle elezioni. Questa controtendenza ha spinto gli entusiasti a dire che tale modello deve estendersi a tutto il Paese. È vero, sarebbe fortemente auspicabile e non solamente per Milano ma per tutta l’Italia.
Nondimeno, le analisi elettorali hanno rapidamente incrociato risultati e caratteristiche dell’elettorato: le forze vincenti, hanno notoriamente stravinto nelle “periferie”, reali e metaforiche, nella disoccupazione e nel malessere.
Tradizionali arretratezze, processi di trasformazione economica e sociale di lungo periodo, conseguenze della crisi e delle politiche attuate per affrontarla, hanno combinato i loro effetti: la democrazia traballa perché l’insofferenza sociale ed economica se non risolta – e nemmeno rappresentata -, cerca uno sfogo. E tale sfogo è storicamente brutto, cattivo e, per molti osservatori, irrazionale. Per quanto gli aristocratici si scandalizzino, il popolo arrabbiato per definizione non va per il sottile.
Quindi, se i meccanismi della rappresentanza democratica hanno ancora un senso – e ce l’hanno, checché ne dicano i teorici della disintermediazione -, per fare dell’eccellenza milanese un caso nazionale, basterà aumentare il livello di reddito, di occasioni e di qualità della vita di tutto il Paese fino a quello di Milano; soluzione semplice e chiavi in mano.
Milano, in questi anni, ha certamente ritrovato la bussola che a lungo pareva smarrita e ha prodotto un forte rinnovamento sociale, economico e politico; ha la mano fortunata, e se a Milano lanci un dado dieci volte esce sempre sei.
Oltre alla legittima ammirazione che il resto del Paese ha per questi successi, tuttavia, potrebbero presto svilupparsi, e forse già sta avvenendo, sentimenti di invidia e perfino rancore; Milano è funzionalmente la porta di flussi internazionali: occorre che presti attenzione a non sembrare uno scontroso usciere; Milano è il centro di un sistema a rete macroregionale, deve evitare l’ingordigia di concentrare troppo su di se a discapito di un sistema policentrico e degli interessi circostanti.
Inoltre, siamo tutti milanesi: sappiamo quanto l’atteggiamento da “bauscia” può essere irritante verso i “giargiana”. Al contrario, occorre molta generosità e altruismo, perché i successi di Milano entrino in circolo, e producano reciprocità. L’esigenza che la città permanga attrattiva e non respingente è anche una questione estetica, di stile, di disponibilità e apertura che contrasta con alcuni tradizionali caratteri milanesi: per esempio, l’efficientismo sbrigativo e (comprensibilmente) insofferente verso i ben noti difetti di molta parte del Paese. Insomma, teniamo a bada il Milanese imbruttito che è in noi.
Sovente, il confine tra orgoglio e superbia è labile, soprattutto agli occhi degli altri. La responsabilità di costruire relazioni, reti e infrastrutture immateriali perché questo circuito si attivi e mantenga, è di Milano stessa che, se è vero che al momento è una locomotiva, non può per nulla permettersi di perdere i vagoni che ora vede allontanarsi.
Anche sul piano politico, la vittoria delle forze di centrosinistra al governo della città è evidentemente un’anomalia, e come tale, al di là dell’entusiasmo, occorre valutarla con freddezza. In particolare mentre si coltiva una ambizione egemonica, attendere che un’eccezione possa diventare regola senza produrre i necessari dispositivi, per quanto auspicabile rischia di essere velleitario.
Perchè, attenzione: se i confini del “modello Milano” sono le mura spagnole, e la sua base sociale è ricca e colta, più che una “città stato” Milano rischia di diventare una città sotto assedio, a cui potrebbero presto mancare, se non l’approvvigionamento di viveri e generi di prima necessità, certamente la stima e il consenso che il popolo insofferente a volte dedica ai vincitori ma sempre toglie ai privilegiati.
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