Milano

L’innovazione non è un pranzo di gala

9 Maggio 2016

Larga parte del lavoro politico e amministrativo che ha caratterizzato il laboratorio informale MilanoIN in questi anni è stata guidata da un’ipotesi forte: esiste un tipo di innovazione “diffusa” in grado di generare inclusione sociale in un perimetro più vasto di quello dei soli artefici dell’innovazione.

Seppur nell’asprezza della crisi economica che non ha risparmiato la città, la capacità generativa del tessuto economico e sociale del nostro territorio ha saputo dar vita a nuove configurazioni produttive urbane e nuove forme di socialità e comunità. Questi fenomeni emergenti, inizialmente vissuti come marginali o laterali, lo sono sempre meno perché la contaminazione con il sistema di impresa o con l’associazionismo di stampo tradizionale è sempre più comune.

L’esperienza amministrativa di questi 5 anni mi ha portato non solo a riconoscere e in alcuni casi misurare questa spinta innovativa, ma anche a verificare che laddove l’innovazione ha trovato spazio per svilupparsi insieme ad adeguate politiche pubbliche di accompagnamento, è stata in grado di produrre meccanismi di nuova organizzazione sociale e costruzione di comunità. Non si tratta dunque di fenomeni auto referenti, in grado di portare beneficio ai soli protagonisti dell’innovazione, ma di fenomeni in grado di produrre effetti positivi su territori fisici o relazionali più vasti.

Abbiamo rintracciato questo tipo di spinta innovativa non solo nei mondi delle start up a vocazione sociale e nelle pratiche di sharing economy, ma anche in una varietà di espressioni che includono i nuovi artigiani digitali, le “vecchie” professioni creative, le imprese sociali e culturali, le professioni legate al digitale, quelle legate al sociale e le pratiche di riuso degli spazi dismessi.

Come ha osservato Aldo Bonomi, si tratta di pratiche che rilanciano il primato delle conoscenze e – sovente – della produzione di senso e utilità come misura del valore. All’interno e a ridosso di queste economie si muovono soggetti portatori di istanze di cambiamento culturale, sociale, economico. Sono questi i soggetti che abbiamo definito innovatori diffusi. A loro abbiamo dedicato la giornata dello scorso 4 maggio dal titolo “Milano City Makers, gli innovatori diffusi che fanno la città“. Ponendo un’attenzione particolare alla soggettività degli innovatori: valori, cultura ma anche desideri, aspetti dell’immaginario e passioni e al loro rapporto con la sfera della politica, del policy making e dell’azione collettiva. Attraverso un’indagine qualitativa condotta insieme all’istituto di ricerca sociale Aaster ci siamo interrogati sul senso di appartenenza, sulla capacità di agire come coalizione e di esprimere leadership politica di questi innovatori urbani.

L’aspetto a mio avviso più interessante dell’indagine condotta ha a che fare con l’interpretazione profondamente politica che costoro danno del proprio agire economico-produttivo. Tutto si può dire degli innovatori diffusi meno che siano “spoliticizzati”, sebbene il loro autoritratto evidenzi una profonda distanza dalle forme di partecipazione tradizionale. L’opzione del fare politica “attraverso il lavoro o il progetto” è talmente ricorrente da divenire un tòpos. E’ una politicità che vive di pratiche, in qualche continuità con le forme di partecipazione “non convenzionali” che a partire dagli anni Ottanta hanno progressivamente preso il posto della mobilitazione tradizionale.

Come ci avvertono i ricercatori di Aaster, si tratta di una prospettiva di cui non si possono trascurare le contraddizioni: se l’impresa è “politica con altri mezzi”, la sua performance fornirà implicitamente una misura dell’efficacia. Una parte degli innovatori è pienamente inclusa nell’economia che conta. Per altri il mercato è un mezzo (tra gli altri) per produrre società. Non sono tuttavia da confondere gli effetti delle azioni  (talora di ampio, talora di modesto impatto) con i significati attribuiti alle stesse, che spesso rispondono a motivazioni profonde e valori radicati.

Si tratta di atteggiamenti che in qualche modo richiamano l’illuminante distinzione, proposta dal più illustre tra gli studiosi dei distretti industriali, Giacomo  Beccattini, tra l’impresa come “molecola di capitale” e l’impresa come “progetto di vita”.

La rilevazione di questo tipo di slancio quasi “militante” nella composizione sociale, non così marginale, dei nuovi settori produttivi cittadini pone almeno due ordini di sfide: una sul livello del policy making e l’altra sul livello della rappresentanza politica. In definitiva verso “le politiche” e verso “la Politica”.

Un’innovazione in grado di generare valore aggiunto, ma anche socialità e comunità, mette in discussione il repertorio tradizionale di interventi pubblici a sostegno del lavoro, dell’impresa, dello sviluppo economico e della formazione professionale. Non soltanto nel merito, ma anche nel metodo. Non più politiche pubbliche top down, ma necessità di procedere bottom up per estrarre sapere e indicazioni rilevanti dal basso.

Senza il coinvolgimento dei protagonisti di alcuni processi, per esempio, non avremmo saputo orientare in maniera efficace gli interventi fatti in materia di coworking, start up digitali o sociali, o le iniziative in materia di sharing economy o sul crowdfunding.

Se dunque è vera l’ipotesi che c’è tanta più innovazione inclusiva sotto il cielo della città di quella che spesso non venga rappresentata, è anche vero che queste spinte necessitano di essere accompagnate con politiche di nuova generazione.

Abbiamo provato a farlo sperimentando dei modelli, sicuramente perfettibili, ma che oggi altri territori guardano e imitano in materia di microcredito (circa 4 milioni già erogati), coworking (con 50 spazi certificati), fab lab (con una misura sperimentale finanziata con 300 mila euro), sharing economy (prima delibera quadro adottata da un comune italiano), crowdfunding civico (per finanziare imprese impegnate nel sociale), riuso degli spazi.

Si tratta di una serie di “prototipi”, di interventi modello, che oggi necessitano di uscire dalla fase della sperimentazione e di essere messi in produzione su scala più ampia. Questo implica la fuoriuscita dalla frammentarietà degli interventi e la necessità, per esempio, di costruire un maggior coordinamento tra tutti gli attori che si occupano di incubazione di impresa o di innovazione sociale. Fino ad arrivare ad immaginare di dedicare un intero spicchio di città alla “messa in produzione” su scala più vasta di quanto si è fatto nei singoli spazi di incubazione. Oppure di promuovere un programma di ampio respiro dedicato all’insediamento delle nuove manifatture in città, prevedendo di coordinare incentivi, messa a disposizione di spazi fisici e costruzione di adeguati percorsi di formazione professionale. In poche parole si tratta di porre una sfida più ambiziosa sul livello del policy making a livello locale.

Perché questa sfida sia colta, però, è necessario non solo agire sul livello delle pratiche e delle politiche, ma chiamare in causa anche la politica. Non si tratta di immaginare vecchie formule di rappresentanza, ma di abilitare al protagonismo chi già oggi, e nei fatti, si è fatto carico della trasformazione della città con un’attenzione particolare ai territori e alle connessioni tra il livello micro e quello macro. L’innovazione non è un pranzo di gala, ci ha recentemente ricordato Annibale D’Elia. E il protagonismo non è mai una concessione ma una conquista. Le poche settimane che ci separano dal voto amministrativo del 5 giugno  sono un banco di prova per decidere se vogliamo continuare a costruire prototipi, o se l’ambizione è quella di costruire la città.

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