Infrastrutture
L’Expo, i No Expo, e il concetto di “futuro insieme”
Non preoccupiamoci troppo per Milano, che nella sua vita ne ha viste tante. Non preoccupiamoci perché Milano non si rialzerà, non ne ha bisogno: da queste parti gira e rigira va a finire che non si cade mai, semplicemente perché non si ha il tempo di cadere. Si va avanti, si scansano gli intoppi, si continua l’inerzia.
Non preoccupatevi voi che pensate alla solita città piegata da facinorosi, la pelle da queste parti è piuttosto spessa. Non preoccupatevi neanche voi che credete di lasciare il graffio con vetrine rotte e auto in fiamme, non fate alcuna paura, se è questo il vostro obiettivo. Non la fate a chi dovreste spaventare -in teoria- , non la fate a noi del seminterrato, quelli che poi commuovono la collettività con i loro insignificanti sacrifici spezzati. Sacrifici sacrificabili nel sacrificio della ribellione: un esempio? La panettiera Marcella di via Caradosso, che non sa più come far consegne a lunedì, quando il 1° maggio sarà scivolato via e la quotidianità riassetterà la valvola di sfogo della caldaia.
Preoccupiamoci insieme per noi stessi, forse quello sarebbe meglio. Preoccupiamoci perché di fronte ai fatti del 1° maggio la sensazione del recinto è stata nitida, a vedere quelle immagini. Purtroppo è soltanto il senso di proprietà a spalancare gli occhi sul presente, questo presente che noi non cambiamo perché non viviamo, e che poi giocoforza siam costretti a chiamare ingenuamente futuro. Senso di proprietà e di esclusività in ogni aspetto: “questa è la nostra lotta”, “questo è il nostro mondo”, “questa è la mia città”, “questa è la sua macchina”, “questa è la mia attività”. E per fortuna che la chiamano battaglia comune, evento comune, manifestazione unitaria. Qua a me pare tutto diviso.
Perché se “il futuro è adesso” come si scandisce dal palco roccaforte, questo a me non sembra il futuro. Non lo sembra per niente. Basta scolorire quelle immagini per vedere che neanche gli abiti neri rappresentano il vero punto della questione. Decenni fa gli infiltrati non si vestivano di nero, ma non è certo questo a segnare un cambiamento.
Poi c’è chi vuol credere al Black Bloc di periferia, cresciuto tra una canna in piazza, una partita alla playstation e un non precisato impulso di cambiare il mondo attraverso la ribellione. In fondo è così che ai miei tempi ci si approcciava al punk.
Un rifiuto totale del contesto attraverso cui farsi accettare. Una supercazzola infinita, quella del sistema e dell’antisistema, da legittimare a suon di schiaffi, non in un confronto frontale anche aspro ma in un’assurda e serrata gara impostata sui parametri del celodurismo.
Una girandola confusa di passioni che dipinge l’immagine di un paese dalle ferite improvvisamente riaperte e purulente. Noi e voi. Quelli. Gli altri. I nostri. EXPO è lì, con tutte le sue contraddizioni, a rappresentare lo status quo delle cose. Quello status quo di corruzione, infiltrazioni mafiose e arrivismo che a noi piace chiamare “realtà ignorata”, ma che poi in effetti è la realtà più nota e chiacchierata, e soprattutto accettata. Da tutti. Da noi, da voi, dagli altri, dai nostri. Come lo studente che spara la vernice sulla banca attraverso cui paga i suoi studi. Come il devastatore che sfascia la vetrina del negozio dove va a comprarsi GTA V. Come le foto scalpo scattate da telefoni Apple, Samsung, e così via.
Non esiste angolo in cui si edifichi qualcosa, che sia all’ombra o alla luce del sole. Esiste solo l’azione sabotatrice, il richiamo della forza. Da una parte e dall’altra.
Perché volendo cercare le contraddizioni ci sono ovunque, e qui l’impressione è che si abbia solo una gran voglia di litigare, quasi fosse pulsione imprescindibile. Per intenderci, potremmo organizzare un comitato NoNoEXPO, giusto per far emergere le contraddizioni dei No EXPO. E no, niente dibattito. Basta una manifestazione di disturbo. Perché il disturbo è sempre più facile, non c’è da pensare a molto: arrivi solo a distruggere un’essenza e a proporre un’assenza: esattamente quel che il manifestante accusa al l’organizzazione Expo.
Non preoccupiamoci troppo di Milano, non organizziamo comitati in sua difesa. Milano si sa difendere da sola, ha imparato presto a risorgere dalle macerie lasciate dai nazisti e degli alleati, ha imparato a prendere colpi da ogni lato, ha imparato prima di molti altri la capacità di non dipendere da nessuno, di non essere bolla protetta, di non fermarsi a piangere, di non ringraziare né acclamare vitelli d’oro con troppa enfasi.
In questi anni Milano ha imparato a conoscere la realtà Expo, le brutture, gli scandali, le difficoltà. Le proteste, i comitati, gli argomenti su cui discutere c’erano. Sinceramente però non si è mai visto questo trasporto passionale sgorgare da altre parti, eppure il tempo per contestare c’è stato. Eppure ora pare che fermare Expo sia una priorità per tutti. C’è che forse la nostra agenda non prevede mai programmi a lungo termine, non si riesce mai a lavorare attivamente per poter vedere qualcosa a cinque palmi dal naso, e smettere magari di essere costretti alla perenne e cieca immaginazione.
Finché arriva il giorno in cui ci si risveglia in una città -la tua- invasa da assurdità di ogni specie, rigurgitate dal Novecento come pasto un po’ indigesto, accompagnate dalle retoriche sul futuro che è adesso, dicono. Adesso. Dove? Rinchiuso. Perché? Perché lo odiano. Chi? Loro. Ma non era “futuro insieme”? Forse.
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