Milano
La corsa di Parisi, tra alleati invadenti e i conti in rosso di Chili Tv
Un “renziano mancato” che si dichiara “più a sinistra di Giuseppe Sala” e ha l’obiettivo di sconfiggere colui che sarebbe stato “un ottimo candidato del centrodestra”. Il cortocircuito è servito. D’altra parte, che le elezioni per decidere il nuovo sindaco di Milano sarebbero state del tutto particolari si è capito non appena Stefano Parisi (classe 1956, romano ma trapiantato a Milano da quasi vent’anni) ha accettato la sfida contro un altro manager: per l’appunto, Giuseppe Sala.
I due profili, in effetti, sono sovrapponibili sotto molti punti di vista. Proprio questo aveva all’inizio fatto pensare che la corsa di Parisi, che oggi presenta ufficialmente la sua campagna elettorale, fosse suicida: perché votare per lo sconosciuto manager del centrodestra quando si può votare per il notissimo manager del centrosinistra, l’uomo-simbolo del successo di Expo?
Parisi, però, non è cascato nel facile tranello. E le sue mosse fanno pensare che stia anzi abilmente sfruttando quello che sembra essere il principale punto debole del rivale: la necessità di sbilanciarsi a sinistra per tenere unita la coalizione, scoprendo così il fianco centrista (che potenzialmente poteva portare al Pd parecchi voti di berlusconiani milanesi delusi) in cui Parisi si inserisce con grande facilità. Tanto che, nell’ultima intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera, parla addirittura di superamento dei vecchi concetti di destra e sinistra. Con buona pace delle ruspe di Salvini, quasi certo capolista della Lega in consiglio comunale dopo le molte assenze collezionate al giro scorso, di un redivivo La Russa e di tutti gli altri.
Sarà anche romano, ma l’ex capo di Chili Tv sembra trovarsi perfettamente a suo agio nei modi e nei toni della borghesia milanese: laico, sostenitore delle unioni civili e addirittura della stepchild adoption, lontano anni luce dalla Lega Nord, parla di accoglienza e integrazione con l’unico distinguo di non voler applicare “il buonismo della sinistra”.
Così, mentre Sala ha dovuto disperdere energie nel tentativo di evitare la replica di un tremendo “effetto Liguria”, Stefano Parisi ha gioco facile a occupare le posizioni che l’ex mister Expo ha dovuto per il momento tralasciare; riuscendo a sovrapporre la sua figura a quella di Sala ed evitando uno scontro frontale che avrebbe ben poca ragione di essere. Il risultato è che un centrodestra già dato per sconfitto sta invece riuscendo nell’impresa di rialzare la testa, causando tormenti al vero candidato renziano, a cui il solo nome di Stefano Parisi riporta alla mente pessimi ricordi.
Non è la prima volta, infatti, che i due gareggiano l’uno contro l’altro: era già successo nel 2006, quando Sala era direttore generale di Telecom e Parisi amministratore delegato di Fastweb, incarico che ricoprì dal 2004. In palio c’era l’appalto per la fornitura dei servizi telefonici della Consip (valore 330 milioni di euro). La gara venne vinta da Parisi (che così potè inserire nei bilanci di previsione introiti ulteriori per 300 milioni annui) mentre Sala, con qualche polemica, si dimise dall’incarico. Fastweb ebbe sicuramente modo di apprezzare il lavoro svolto da Parisi, conferendogli un maxistipendio da un milione e 700mila euro (secondo quanto riporta l’Espresso) e affidandogli il timone della società nel momento in cui iniziava la paradossale vicenda giudiziaria del presidente Silvio Scaglia (Parisi, a sua volta, farà un passo indietro da Fastweb quando verrà sfiorato da indagini poi conclusesi con la piena assoluzione di ogni addebito).
Proprio nel 2006 avviene un altro episodio di quelli che segnano il lungo rapporto tra la storia di Fastweb e il Comune di Milano. Laterale rispetto al ruolo di Parisi, ma non irrilevante nel ricostruire quell’agglomerato di interessi e relazioni che è stata, appunto, la nascita e la storia di Faswteb per Milano. Tutti ricordano che fin dalle origini, quando ancora Fastweb si chiamava E.Biscom, ci fu un patto di ferro, invero assai discusso, tra Aem (poi diventata A2A, in seguito alla fusione con la utilità di Brescia) e la stessa E.Biscom. Vittorio Malagutti, su L’Espresso, sintetizza così la vicenda: “Grazie a quell’accordo, un gruppo privato otteneva l’accesso ai cavi in fibra già posati a spese del socio pubblico nel sottosuolo della città e si garantiva uguale privilegio anche per gli sviluppi futuri della rete”. La vicenda delle origini si colloca a fine anni Novanta, quando a volere la meritoria cablatura di Milano sono anzitutto Gabriele Albertini e il suo fidato dg Stefano Parisi.
In tanti però hanno dimenticato un sequel (minore ma non troppo) della storia, e cioè la cessione di Metroweb, società tecnicamente proprietaria della rete di fibra. Siamo all’inizio della giunta Moratti, il dossier principale è quello riguardante la fusione tra Aem Milano, controllata dal Comune e appunto proprietaria di Metroweb, e Asm Brescia. Si dice che Milano ha bisogno di capitalizzare al massimo il valore della sua utility per arrivare solida e senza pesi alla fusione con la ben più piccola Brescia. A comprare, con un esborso reale di pochi milioni di euro, fu una newco partecipata da Stirling Square Capital Partners e dalla stessa Aem. La valutazione della società fu di 232 milioni incluso il debito, pari a circa 200 milioni, così che l’esborso reale fu pare a 32 milioni. Otto li mise Aem, in modo da risultare alla fine azionista di minoranza con un 23%, e il resto – 24 milioni – li mise il fondo inglese. Un fondo in cui aveva un ruolo centrale, ad esempio, Alberto Trondoli, manager che conosceva benissimo l’azienda, visto che era stato tra i confondatori di Fastweb. Sapeva che il fondo stava facendo un affare, e infatti meno di cinque anni dopo la stessa azienda (il closing avviene per coincidenza il giorno dell’uscita di scena di Letizia Moratti) viene venduta 436 milioni a un consorzio controllato da F2i e partecipato da Intesa Sanpaolo. Duecento milioni di plusvalenza in pochi anni, circa l’80 per cento, e il debito ampiamente compensato da contratti milionari firmati con Telecom già nel 2007, subito dopo il passaggio al fondo inglese popolato di manager italiani provenienti da Fastweb. Chi ci abbia guadagnato e chi, in questa storia, è piuttosto evidente.
Ma torniamo a Parisi. L’ultima avventura prima della discesa in campo da candidato sindaco è di quelle davvero difficili: da una costola di Fastweb fonda, nel 2012, Chili Tv (che diventerà poi indipendente dalla società madre): una piattaforma di film e serie tv in streaming, che si differenzia da Netflix per non richiedere nessuna forma di abbonamento, ma solo un piccolo pagamento per la visione o il download di un film.
Nonostante i 500mila utenti italiani siano addirittura superiori, per ora, ai 280mila di Netflix (anche se le modalità, appunto, sono molto diverse), nonostante l’espansione anche all’estero (Austria, Germania, Polonia e Regno Unito), è lo stesso Parisi a far sapere che la strada è ancora lunga e potrebbe passare da un secondo aumento di capitale, dopo quello già deciso nel 2014: “La società – spiegava Parisi a gennaio – è partita con 100mila euro di fatturato, arrivato a fine 2015 a circa 7 milioni. L’Ebitda è ancora negativo, ma contiamo di arrivare al breakeven di cassa nel 2017”. I dati ufficiali di bilancio, relativi al 2014, raccontano in realtà un quadro ancora più fosco: a fronte di ricavi di poco inferiori ai 4 milioni, i costi sono di circa 8,7 milioni e la perdita è di 4,1 milioni di euro, in peggioramento rispetto ai 3,5 milioni dell’anno precedente. Chi osserva il settore da vicino annota che l’arrivo di un colosso come Netflix potrebbe aver complicato ulteriormente la vita al player italiano, ma per avere riscontri bisogna aspettare la pubblicazione dei bilanci del 2015.
Il 2016, quindi, sarà per Chili un anno decisivo, ma non sarà Parisi a occuparsene, vista la sua decisione di cedere alla corte di Silvio Berlusconi, che vede in lui un vincente (qualità che gli viene riconosciuta ad alta voce da molti altri suoi sostenitori) e che si è detto convinto delle sue prime uscite da campagna elettorale.
“Parli al cuore della gente, sei stato empatico. Non bisogna fare i tecnici, ma scaldare il cuore, e tu sei perfettamente in grado di farlo”, gli avrebbe detto il Cavaliere dopo l’incontro con gli imprenditori del 13 febbraio al Westin Palace di piazza della Repubblica a Milano. Tra i due, è noto, c’è sintonia. Anche grazie al ruolo di Bruno Ermolli, consigliere di Berlusconi, membro del cda Mediaset e amico di vecchia data di Stefano Parisi che ha giocato un ruolo importante nel convincerlo ad accettare la nuova sfida.
In effetti, se c’è una cosa che a Parisi non mancano sono le amicizie importanti: da Bruno Ermolli a Gabriele Albertini (di cui fu city manager ai tempi della seconda giunta milanese, ponendo anche i primi semi dei progetti di Porta Nuova e di CityLife), ma anche tra personalità meno sospettabili, come l’ex segretario della Casa della Cultura di Milano Sergio Scalpelli o Matteo Salvini, da cui oggi Parisi prende le distanze, ma che gli ha conferito un immediato via libera alla candidatura da sindaco. I due, d’altra parte, si conoscono da tanto, visto che Salvini era consigliere comunale nella coalizione che appoggiava Albertini mentre Parisi gli faceva da city manager.
Tra i tanti amici si contano anche due ex Alleanza Nazionale di primo piano come Maurizio Gasparri e Gianni Alemanno. Ma in questo caso la politica non c’entra: i tre si sono conosciuti a scuola, frequentando uno dei licei della Roma bene, il Righi. Altre buone frequentazioni, tra le quali possiamo annoverare anche la moglie Anita Friedman, americana collezionista d’arte e attivista pro-Israele, che alcuni chiamano la “principessa di New York” per evidenziarne la ricchezza.
Tanti nomi, ma ancora manca quello più importante in assoluto: Gianni de Michelis. Nonostante la carriera di Parisi sia iniziata nell’ufficio studi della Cgil, le sue simpatie sono sempre andate ai socialisti, fin dai tempi dell’università. Ed è proprio l’ex ministro degli Esteri che, dopo averlo scoperto, porta Parisi con sé, prima al Lavoro e poi come capo della segreteria tecnica alla Farnesina.
In questo giro, Parisi incontra gli allora semi-sconosciuti Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta e altri ex socialisti transitati, come dicono gli anglosassoni, “from Marx to market”. Il passato di sinistra di Parisi, quindi, non è per niente diverso dai tanti socialisti dell’epoca di Craxi che trovarono immediatamente casa in Forza Italia.
Anche se, in effetti, nel caso dell’aspirante sindaco di Milano c’è qualcosa di più: la capacità di inanellare un incarico di prestigio dopo l’altro, con governi di destra o sinistra, nel pubblico o nel privato, senza mai perdere un colpo, senza mai mancare una stagione, riuscendo sempre a restare a galla.
I primi passi davvero importanti della sua carriera sono tutti a Roma, negli anni Ottanta, dove lavora prima con De Michelis al Lavoro e agli Esteri e dove poi lo troviamo a capo del dipartimento Affari Economici con Amato, Ciampi e anche Dini. Ma nel curriculum c’è anche un ruolo da direttore generale della Confindustria ai tempi di D’Amato (2000-2004) e una mancata, per un soffio, nomina a direttore generale della Rai nel 2008, dove aveva già svolto il ruolo di membro del collegio sindacale dal ’94 al ’97, sotto la presidenza di Letizia Moratti. Gli ottimi rapporti con la ex ministra e sindaca sono confermati dal recente endorsement, tanto più significativo se confrontato con il lungo silenzio politico di donna Letizia, di fatto scomparsa dai radar con la fine dello scorso mandato e la cocente sconfitta ad opera di Giuliano Pisapia.
Il “burocrate che pensa da manager” (come lo definì Gabriele Albertini in un suo libro) si è costruito lungo la strada una rete di relazioni impressionanti e trasversali. Forse troppo trasversali, tanto che qualcuno lo accusa di essere un camaleonte. Ma al di là delle tante stagioni vissute e del passato tra Cgil e socialismo, se c’è una cosa che non si può mettere in dubbio è proprio la sua appartenenza al centrodestra. Lo dimostra anche il fatto che, già nel 1994, si era fatto il suo nome come possibile Segretario generale della presidenza del Consiglio nel primo governo Berlusconi, incarico che poi andò a Frattini. Nonostante le apparenze, non è uno che cambia casacca con tanta rapidità, accusa che invece Berlusconi muove a Sala: “aver fatto carriera con Forza Italia per poi buttarsi tra le braccia del Pd”.
Ora che hanno trovato il nome giusto, però, Berlusconi e Salvini, divisi e anzi lacerati a Roma, sperano davvero di riconquistare la capitale del forzaleghismo che gli è stata sottratta cinque anni fa. La speranza è tanto forte da veder concretizzare una foto che sembra spuntare dritta dritta dal passato aureo del centrodestra milanese: accanto a Parisi, infatti, si schierano Mariastella Gelmini, il felpato Salvini e addirittura Ignazio La Russa, uomo forte della Milano che fu, quando in sella c’erano Albertini e Moratti e a Milano non si muoveva foglia senza il benestare dell’Ingegner Ligresti. Resta da capire se questo ritratto d’interno che sa di passato abbia ancora forza e consenso, nella Milano del dopo Expo, e se Parisi riuscirà a farsi bastare la coperta corta di chi ha bisogno di quel passato ma anche di un futuro politico tutto da scrivere, e che non può guardare oltre ai “mitici” anni Novanta. I novanta che mancano al voto ci daranno tutte le risposte.
(Foto di copertina presa dal profilo Facebook di Stefano Parisi, introdotta dal post: “Inciampo sul dislivello treno / banchina della M2. Una chiara manovra della sinistra per eliminare il campione dei moderati che erode consensi”
Devi fare login per commentare
Login