Milano

Le nostre città sempre più sicure. Sempre più impaurite

21 Settembre 2020

“Le persone che non corrono rischi generalmente fanno due grossi errori all’anno. Le persone che corrono dei rischi generalmente fanno due grossi errori all’anno”.

Peter F. Drucker

 

C’è una città che fatichiamo a riconoscere, che si sente impaurita, minacciata, che immagina macchinazioni e cospirazioni, che si percepisce allo specchio come incline al pericolo.

Una tendenza che si rafforza.

Se si ascolta il sottosuolo si coglie un nervo scoperto di un mondo fuori controllo.

I quotidiani e gli hateshow si gremiscono di buona propaganda e illustrano le ferite locali, i disordini urbanistici, le vigliacche scorribande che lasciano sul selciato speranze e verginità.

Cronache vere e brucianti brandite come esempi di insicurezza globale. “Potrebbe capitare anche a te” – si dice.

Noi anime belle ci indigniamo, ci improvvisiamo maquis locali, adottiamo i distinguo e le virgole nei posti giusti ma… non riusciamo più a convincere: “c’è troppo rischio in giro” – dice la signora Trombetti. E come lei, tanti altri.

In ‘Fiducia e paura nella città’ Zygmunt Bauman annota: “di per sé, è un mistero. Dopo tutto, come segnala Robert Castel nella sua acuta analisi delle attuali angosce nutrite d’insicurezza, «noi, almeno nei paesi che si dicono avanzati, viviamo in società senza dubbio tra le più sicure (súres) che siano mai esistite». Eppure, in contrasto con questa evidenza oggettiva, il viziato, coccolato “noi” si sente malsicuro, minacciato e impaurito, più incline al panico, e più interessato a qualsiasi cosa abbia a che fare con la tranquillità e la sicurezza, dei membri della maggior parte delle altre società a noi note”.

È vero, viviamo in città sicure.

Il sociologo di Poznań dice il giusto e con convinzione.

Numeri alla mano, nel 2019 a Milano – per parlare di casa mia – dai 118.395 reati totali registrati nei primi dieci mesi del 2018 si è passati a 112.906, un calo percentuale del 4,64 che è anche superiore nella Città metropolitana (178.841, quasi 9mila in meno di un anno prima, -4,76%). I furti totali diminuiscono (da quasi 74mila a 66.607, un -10% comune a Milano e hinterland).

E lungo lo Stivale? -9,2% i reati in generale, -15% gli omicidi, le violenze sessuali e i tentati omicidi.

In calo anche le presenze di stranieri in accoglienza -31,87%: dalle 170mila al giorno, rilevate al 13 maggio 2018, alle 115.894 conteggiate al 13 maggio 2019. Con cali record in Sicilia -42,6% e -33,5% in Lombardia.

Dunque?

Dunque, la sfida è eccitante e stimolante; dover amministrare le paure è diventato l’impegno più eccentrico del secolo brevissimo e anche noi comunicatori dobbiamo interrogarci sulla qualità delle percezioni. E dunque della qualità del nostro lavoro.

Come? Scovando i latori di conflitti, quasi sempre pubblici mentitori, affinando il linguaggio (depurandolo da vocaboli dopati e dalle declinazioni della colpa), tornando a frequentare quel sottosuolo – sottotraccia, sottoinsieme, sottodinoi, come credete più opportuno dirlo – e superando le nozioni delle scienze sociali, costringendoci a incontrare le paure per cercare di darne cittadinanza.

Le nostre città sono impegnate più a proteggere che non a integrare e questo meccanismo, che finisce con il generare condiscendenza, rinegozia l’identità locale, la nasconde: sublima ‘il mio’ a scapito de ‘il nostro’.

Sono città-ring dove la mixofobia ci rende impauriti e disorientanti verso nemici comuni omnipresenti, sempiterni, onnipotenti: una sorta di credenza fideistica nel caos.

Eppure, il mercato ci ha abituati ad essere politeisti, panteisti, sincretisti, adottando marche di riferimento per sentirci migliori e cittadini del mondo. Salvo, poi, aver paura di quel mondo che sta fuori di noi, che è altro da noi.

Le nostre vecchie convinzioni di comunicatori pubblici degli anni scorsi mostrano il salnitro come sui muri antichi, faticano a spiegare la società del rischio, non addomesticano il timore e – soprattutto – non hanno il medesimo volume delle convinzioni che arroventano l’aria.

Lo sforzo prossimo venturo sarà la fusione di orizzonti, con esperienze di vita condivise, convivendo con le nostre comuni vulnerabilità alla ricerca di legami sociali, spiegando e vivendo il ‘noi’ non come una nebulosa e idealizzata “comunità”.

C’è una bella analisi nel quinto volume di The Hedgehog Review del 2003, interamente dedicato alla paura: “poiché la nostra esistenza manca di confort, ci troviamo ad accontentarci della sicurezza, o della sua finzione”. Troppo poco.

Dicono che Vix sia l’indice del nervosismo della Borsa.

Alcuni indici misurano la volatilità dei mercati. Uno di questi è Vix (Volatility Index del Cboe). Viene definito “l’indice della paura” perché sale quando l’incertezza generale si moltiplica.

Qual è il Vix delle nostre città?

Esiste uno strumento che conosca in tempo reale l’incertezza delle passioni e la rarefazione della pazienza?

Sì, siamo noi, ogni volta che fatichiamo un saluto alla signora Trombetti, ogni volta che potremmo intervenire in pubblico per tranquillizzare e spiegare ma non lo facciamo.

Per paura?

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