Milano

La vittoria sofferta di Milano, una lezione da mandare a memoria

20 Giugno 2016

Chiariamoci le idee subito, prima che sul carro del vincitore, di cui tanti dubitavano, saltino in troppi. La vittoria di Milano, l’unica vittoria che resta al Pd renziano, quella che salva il bilancio complessivo e consentirà al segretario-premier di dire che tutto sommato ha tenuto, ha un attore principale, un protagonista assoluto, e si chiama Beppe Sala. Con lui vince Milano, con le sue specificità che, evidentemente, valgono solo quassù, e un poco ce la tiriamo. Noi questa storia l’abbiamo vista da vicino, da queste parti, lasciatelo dire, l’abbiamo vista iniziare. L’abbiamo battezzata quando in tanti pensavano ad altri nomi, giustamente, alle loro ambizioni, ai loro progetti. Pensavamo fosse il candidato giusto per un partito neocentrista e interclassista come il Pd renziano doveva diventare. Pensavamo fosse l’unico candidato possibile dentro a un cerchio di classe dirigente politica non ancora abbastanza maturo, che pure era cresciuto negli anni di Pisapia. Ma insomma, con tutto il rispetto per tutti, la strada fatta ancora non bastava a stare sereni in vista di quella che si deve ancora fare: e rottamare a caso non sempre è una buona idea.

Siccome i meriti vanno resi tutti a chi indovina le scommesse, bisogna dare il nome a chi ha davvero creduto a questa storia. Maurizio Martina fa il ministro dell’agricoltura, è stato segretario regionale del pd lombardo, si porta dietro la fama di burocrate pauroso e che non le imbrocca. Questa l’ha imbroccata, e vale triplo. Renzi che lo guardava minaccioso appena qualche giorno fa, dicendo che aveva un rigore da tirare, a Milano, e che i rigori li può sbagliare solo chi li tira, può serenamente pensare ai rigori che ha da tirare lui. Anzi, il prossimo rigore è il referendum sulla riforma costituzionale, a ottobre, giusto? In ogni caso, la verità è che Sala interpreta lo spirito renziano nel migliore dei modi possibile: è pragmatico, ha fatto delle cose, non appartiene al passato della politica politicata. Certo, faceva già cose quando Renzi andava ancora alle scuole medie, e non si può dire che lo abbia inventato lui. Ma appunto ci vuole realismo: reliasticamente, Renzi una classe dirigente politica sua non ce l’ha, e infatti vince solo dove schiera qualcos’altro. E per vincere, poi, la vocazione maggioritaria va a farsi benedire, e per vincere i voti di sinistra sono indispensabili.

Torniamo a Milano, che è una storia istruttiva per tutti, e non vogliamo che resti solo il sapore dolce della vittoria. Da questa vicenda ci sono tante cose da imparare, e non si può lasciare che un successo importante, innegabile, cancelli tanti errori di percorso che una forza di governo non deve commettere più. È una storia che molti non avranno voglia di leggere, oggi, che è giorno di vittoria. Arrabbiatevi pure, ma conservatela.

Il ruolo di Giuliano Pisapia.  Quando un sindaco è uscente e non si ricandida si verifica sempre un’inevitabile discontinuità. Gestibile e giustificabile quando il sindaco uscente non può ricandidarsi per ragioni legali, per raggiunto limite di mandati o anche, al limite, perché chiamato ad altri e più alti incarichi. La situazione si fa più complicata quando dopo il primo mandato il sindaco uscente, ricandidabile, anzi ricandidabilissimo, dice che no, lui non ci sarà più. È il caso di Giuliano Pisapia, che lui stesso ha complicato ulteriormente nella faticosissima gestione (o nella mancata gestione, potremmo dire) della transizione. Ha annunciato a Marzo 2015 (14 mesi prima delle elezioni di oggi) che non si sarebbe ricandidato, senza davvero spiegare perché, se non con una motivazione tautologica e fragilissima (“già in campagna elettorale avevo detto che avrei fatto solo un mandato”), e poi non ha guidato il processo di transizione al dopo-di-sè. L’ultimo anno di giunta è “naturalmente” (virgolette d’obbligo, assessori e consiglieri di maggioranza avrebbero assolutamente dovuto evitare: e invece) una lunga campagna elettorale interna, una faticosa conta a chi aveva abbastanza truppe per potersi giocare la ricandidatura i consiglio, la partita delle primarie, e con chi, portandogli cosa, in cambio di cosa, eccetera. “Naturale” (stesse virgolette di prima) che il governo della città sia passato in secondo piano, anche solo simbolicamente e nel discorso pubblico. Proprio quando la sana e vecchia politica avrebbe sfruttato l’anno mancante al voto per fare cose buone, capaci di consolidare il consenso, il “nuovo” centrosinistra si è chiuso nel suo bozzolo di discorsi politicisti e autoreferenziali. Giuliano Pisapia, a questo percorso da aspiranti suicidi, ha dato la stura annunciando la sua non-ricandidatura senza avere un piano b solido. Prima ha annunciato una neutralità assoluta in vista della successione e poi si è schierato tardivamente, nella corsa alle primarie, accanto alla sua ultima vicesindaca (dopo le travagliate dimissioni delle prime due) Francesca Balzani. Una campagna elettorale in rimonta rispetto a quella di lunghissima durata di un politico milanese di lungo corso come Pierfrancesco Majorino, e a quella dotata della potenza di fuoco di Mister Expo, hanno spinto “naturalmente” (e tre) Balzani e i suoi supporter a toni al limite dell’attacco personale e sul piano sul quale la figura di Mister Expo era più esposta, mentre l’elettorato della “sinistra” milanese sensibile alle manette: il piano etico morale legalitario. Le primarie poi Sala le ha vinte di misura, con più sofferenza del previsto, e quella crepa a sinistra ha lasciato cicatrici profonde, che solo la chiamata alle armi e la paura del vecchio centrodestra berlusconiano ha potuto suturare. Lezione da mandare a memoria: un sindaco che non vuole ricandidarsi, e che ha il carisma e si porta dietro la forza simbolica di Giuliano Pisapia, NON fa come ha fatto lui.

Il ruolo del Pd di Milano. La new wave renziana, questa città storicamente avversa, l’aveva presa sottogamba. Faciloni come chi crede che quel 45% alle europee fosse un conto in banca in valuta pregiata – e non invece un investimento di grande successo ma fortemente volatile come quelli di chi gioca spregiudicatamente in borsa – hanno pensato che il dopo-Pisapia non solo fosse gestibile, ma fosse anche necessario, quasi auspicabile. Da qualche parte, nella decisione del sindaco di non giocare più, ha contato anche una certa urgenza della nuova dirigenza di renzianissimi che pensava di poter facilmente esprimere una leadership vincente, e magari di vincere, appunto, a mani basse. E invece, il partito democratico guidato da Pietro Bussolati si è trovato di fronte a una serie di variabili complesse, come lo è la politica a chiunque la prenda sul serio. Anzitutto, l’assenza di una classe dirigente autoctona e partitica sufficientemente matura e pronta al salto e a una partita di quelle proporzioni. Assecondare un ricambio in corso, pericoloso per definizione, senza avere chiara la rischiosità della partita, è già di per sé significativo. Aver poi considerata fatta la campagna elettorale col vento in pompa di Expo (questo invero lo diceva Renzi, ed evidente in tanti ci credevano anche) credendo alla propaganda facilona che si era contribuito a creare, aggiunge una nota preoccupante al quadro già nero. Aver sbagliato le candidature dei presidenti di municipio in modo così evidente da perdere in due zone in cui la coalizione di Sala ha vinto, poi, è forse il peccato più grave: perché è l’errore di chi non conosce il territorio sul quale dovrebbe rappresentare la cinghia di trasmissione tra società e politica. Sì, una volta. Infatti, adesso, Sala farà il sindaco di una città in cui ha preso la maggioranza, al ballottaggio, in otto municipi su nove, ma dove però cinque presidenti di municipio sono stati assegnati al centrodestra. Ragionevolmente è colpa di chi li ha scelti, o no? E la mobilitazione frenetica a finalmente calda delle ultime due settimane, dopo la grande paura del primo turno, conferma che prima molte cose erano state fatte malamente.

Il ruolo di Sala. Beppe Sala non è un politico e, in qualche misura, non potrà mai diventarlo. È il suo limite e la sua forza, è il suo tratto distintivo e la sua curvatura specifica. Inutile stupirsi, dopo, se su un palco non trova mai l’applauso pieno, non ha il tono del comizio, non ha il passo di quello cresciuto a vincere assemblee in sezione (uso la vecchia terminologia perché ho la sensazione che nei nuovi circoli di assemblee se ne facciano pochine). Non doveva sfondare con l’oratoria politica e col carisma del trascinatore, ma con la solidità dell’esperienza, la forza tranquilla di chi piace “al centro” senza perdere troppo a sinistra, ma senza nemmeno andare alla rincorsa scomposta di un pezzo di sinistra che poco gli somigliava. Alla fine, dopo tutto, ce l’ha fatta, col suo passo. Le vittorie, in particolare quelle sofferte e con tanti nemici, rendono arroganti e sicuri di sé. Lui non ceda alla tentazione. Riconosca i diversi errori fatti nei mesi scorsi. Chiudersi nel bozzolo di Expo e del gruppo di fedelissimi che lo aveva accompagnato non ha aiutato. Credere davvero che il capitale in cassaforte fosse solido tanto da vivere di rendita è stato un errore che dopo il primo turno poteva costare caro. Sottovalutare l’esigenza di trasparenza che una società come quella milanese pretende in modo più radicale di altre è pericoloso. Ed È anche sbagliato in termini assoluti. Appunti da mandare a memoria, perché il bello comincia ora.

Il ruolo di Milano. Buoni ultimi, ma sempre primi, sono gli elettori. Questa campagna elettorale non ha scaldato, non ha coinvolto, e si è conclusa con un affluenza bassa, come mai prima. Si sono fronteggiati fino all’ultimo voto il popolo militante e “visibile” del centrosinistra e quello impolitico e silente del centrodestra. Ha vinto il primo perché, nonostante tanti limiti, l’eredità degli anni passati con la giunta di Pisapia è un’eredità positiva, perché la paura del passato forzista-leghista ha pesato tanto e mobilitato almeno una parte decisiva del voto. Ma Milano non ha detto solo questa, e anzi ha dato un mandato pieno ma sorvegliato, a Sala. Ha espresso un voto di grande saggezza. Quasi il 50% degli elettori non è andata a votare, affidando agli altri la scelta del sindaco. Di fronte a una proposta di centrodestra credibile e sensata, come quella rappresentata da Stefano Parisi, cui vanno fatti i complimenti per una campagna elettorale efficace e di successo, un certo elettorato moderato si è ritrovato, raccolto, e rimotivato. Ed è un bene per la democrazia. In molti pezzi di città, dove forse l’alone di santità di Pisapia non è arrivato, il centrodestra è andato bene, nonostante un’aria davvero vecchia. Anche questo va riconosciuto, e tenuto a mente. Come va riconosciuto che ai ceti popolari, al vecchio e caro proletariato, alle periferie, la sinistra di governo, a Milano e non solo, deve ricominciare a parlare. Dopotutto, essere di sinistra significa occuparsi delle diseguaglianze, e in una città che da sempre ha una forte vocazione alla partecipazione e alla crescita personale, alle opportunità per tutti, la sfida è ancora più stimolante. Sala ha promesso, più volte, che sulle periferie di Milano vuole lasciare un segno. Noi, che vogliamo bene a Milano e amiamo raccontarla, gli staremo addosso, chiederemo, questioneremo, romperemo le scatole: siamo giornalisti, siamo milanesi, continueremo appassionatamente a essere entrambe le cose.

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