Milano

La vittoria fragile di Sala e Renzi, il disastro politico di Pisapia

8 Febbraio 2016

All’Elfo Puccini, storico teatro milanese in cui militanti e dirigenti del centrosinistra si sono ritrovati per celebrare la fine delle primarie, si poteva misurare in decibel e in sorrisi tirati, o in sollievi malcelati, le tre vittorie monche delle primarie. O le tre sconfitte, ovviamente con un grado diverso di amaro in bocca. I sostenitori di Beppe Sala, dopo tutto, han potuto celebrare una vittoria che era diventata sempre meno netta e sicura, col passare del tempo e i sondaggi – quelli veri – avevano visto assottigliarsi di giorno in giorno il margine di Mister Expo. Quindi erano contenti, ma quasi con l’aria di chi ha scampato un pericolo che appena un paio di mesi fa sembrava neanche immaginabile. I sostenitori di Francesca Balzani hanno accarezzato il sogno di un’impresa impossibile, eppure fallita per “soli” 5000 voti. Non pochissimi, direte, ma certo non tanti, se si pensa che Francesca Balzani partiva da zero appena pochi giorni prima di Natale. I sostenitori di Pierfrancesco Majorino, infine, sono arrivati stanchi alla fine di una campagna elettorale lunga, in cui gli scenari sono cambiati tante volte, e già sanno che il pur buon risultato (un 23%, fatto con quasi 14 mila voti) non eviterà i rimbrotti, le accuse, gli attacchi. Vedremo dopo, prendendo distanza dal tavolo, quanto razionalmente sostenibili e politicamente motivabili: ma il senso del crucifige già pronto si sentiva già dal pomeriggio. Una cosa, poi, è apparsa chiara e unanime: la freddezza con cui è stato accolto sul palco Giuliano Pisapia. Applausi di circostanza, nessuna ovazione, un discorso breve e minimale da parte del sindaco, e la sensazione che si sia consumata, in questa sera strana delle primarie, una frettolosa elaborazione del lutto, almeno in una larga parte dell’elettorato del centrosinistra milanese. I supporter di Sala hanno vissuto male il mancato mantenimento della promessa di neutralità; quelli di Majorino hanno visto il sindaco come il vero responsabile di uno svuotamento dei consensi del loro candidato già messo in croce per non essersi ritirato; quelli di Francesca Balzani speravano forse che facesse ancora di più, o che la sola imposizione delle mani di Pisapia bastasse a vincere.

Ma torniamo un attimo ai numeri, che oggi parlano abbastanza chiaro. Dopo settimane di campagna elettorale a temperatura crescente, fino a un finale che ha sfiorato a tratti la tentazione del colpo basso e di quello al limite del regolamento, le primarie di Milano consegnano alla città un esito piuttosto chiaro che richiede di essere scomposto e analizzato, politicamente, perché ha molto da dire della politica milanese e di quella nazionale, e del guado dentro al quale si trova il centrosinistra. Beppe Sala, commissario unico di Expo e candidato sostenuto da 10 assessori dell’era Pisapia e dalla maggioranza del Pd renziano sia a livello nazionale sia a livello locale, da stasera è ufficialmente il candidato sindaco del centrosinistra a Milano, avendo vinto le primarie con il 42,3% dei voti, pari a circa 25600 voti validi. Seconda, distanziata di circa 5 mila preferenze espresse, Francesca Balzani, candidata espressamente sostenuta da Giuliano Pisapia e dai suoi avversari Boeri e Onida alle scorse primarie, che raccoglie il 34% dei voti complessivi. Al terzo posto, con il 23% dei voti e quasi 14 mila preferenze, si piazza Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare per i cinque anni di Pisapia, candidato che ha raccolto attorno a sé pezzi significativi della minoranza pd e qualche scheggia di base renziana, e nessun appoggio pesante a nessun livello.

Partiamo dalla testa, da chi ha vinto. Sala vince, e lo fa senza conte al cardiopalma, ma di certo non stravince. Non raggiunge la soglia del 50%, che invero gli veniva attribuita solo in caso di affluenza ben più massiccia, cioè nel caso in cui la mobilitazione per queste primarie fosse arrivata assai più lontano rispetto ai gruppi di cittadini più politicizzati, ma neanche vi si avvicina. Serviva, per proporzioni di quella misura, che ci fosse il sole e che l’effetto Expo fosse più fresco e che il dibattito sulle primarie diventasse molto di più un dibattito sul futuro della città e del sindaco di domani, invece che – come è stato – una misurazione di purezze e dimensioni tutte interne al campo del centrosinistra. In questo quadro, dentro a uno scontro dominato dall’antropologia prima ancora che dalla politica, era normale e atteso che il risultato di Sala non fosse superlativo. Tuttavia, il risultato di stasera è sostanzialmente insoddisfacente, se si pensa al capitale di notorietà da cui partiva il candidato. In termini percentuali, la sua vittoria è sensibilmente più ridotta di quella di Pisapia di cinque anni fa (che vinse superando il 45% delle preferenze), mentre all’appello, in questo strano testa a testa, mancano diverse migliaia voti. La sua vittoria è dunque una vittoria personale non scintillante, che più che allargare la platea delle primarie anche a ceti cittadini non politicizzati, premia piuttosto una capacità organizzativa persistente del Pd di Milano. Che, sia detto per inciso, dopo tante critiche anche giuste, ha dato buona prova di sé. Anzitutto, ha organizzato primarie vere, aperte, riuscite e partecipate (7 mila in meno di 5 anni fa, è vero, ma tanti di più di quelli di molte deludenti primarie svoltesi in giro per l’Italia), dimostrando che in tessuti che sentono di aver conosciuto una buona politica l’istituto delle primarie stesse non va precocemente rottamato, anzi. Il Pd di Milano ha accortamente appoggiato Sala ma non troppo, ha utilizzato tutte le leve della politica organizzata senza però sposare un candidato: memore forse anche delle esperienze spesso infauste che toccano al candidato del Pd. La stessa astuzia, ad un livello superiore, l’ha adoperata Matteo Renzi. La sua preferenza per la candidatura di Sala l’ha affidata solo a retroscena giornalistici finto-ufficiosi, ma non è sceso in campo direttamente. Si è tenuto, fisicamente e non solo, alla larga da questa campagna elettorale mentre c’è da credere che non si risparmierà su quella che inizia adesso. Ha lasciato che ministri di peso si spendessero in dimenticabili (e forse non positivi, per il candidato) endorsement, per evitare che anche queste primarie si trasformassero in un’ordalia tra renziani e anti-renziani. In una parola, politicamente parlando, ha fatto bene.

Ma questa azione politica accorta copre senza cancellare una debolezza che il pd renziano mostra ogni volta che ci si allontana dai palazzi romani, nei quali il premier segretario si muove ormai da re. Il “suo” partito – che sia il vecchio Pd o il futuribile Partito della Nazione – non ha ancora, o sente di non avere ancora, una classe dirigente fidata e all’altezza di occupare le cariche più importanti. O quantomeno, Renzi stesso non si fida ancora di una classe dirigente che generazionalmente e politicamente si riconosce in lui fin dalla prima ora, o magari dalla seconda. A Milano questa classe dirigente di nuova generazione peraltro c’è, ma, forse a ragione, forse assecondando qualche titubanza dei diretti interessati, Renzi preferisce una candidatura tecnica a forte impatto popolare e a basso contenuto di appartenenza, ed anzi in odore di impolitica e con passato recente da civil servant che collaborava con il centrodestra, come quella di mister Expo. Questo percorso, ovviamente, favorisce le divisioni interne e i fronti che più sotto analizzeremo, ma è anche l’unico compatibile, per il momento, con una leadership che ha conquistato rapidissamente il centro politico e governativo, ma senza aver costruito con pazienza la tela della dirigenza diffusa del partito e, più in generale, di protocolli e percorsi formativi compatti e precisi. Non è un caso, infatti, se in città che non hanno avuto Expo come luogo in cui fare recruitment di classe dirigente politica ci si trovi, da renziani, a dover considerare l’ipotesi di sostenere un uomo nuovo come Antonio Bassolino, o si debba fare quadrato attorno a un sindaco uscente oggetto di molte discussioni come Piero Fassino. E non è nemmeno un caso se, diversi militanti e dirigenti democratici milanesi, che pure si riconoscano in Renzi e nella sua leadership, a Milano abbiano scelto altro, contribuendo a una vittoria certo non scintillante del candidato “renziano”. Ad esempio, abbiano scelto Francesca Balzani.

La candidatura di questa professionista genovese, nella Milano dei drogati di politica, ce la ricorderemo per un po’. Per come è nata, per come è stata gestita, per chi ha aggregato attorno a sé, per il risultato non proprio esaltante che ha realizzato: da qualunque lato lo si guardi, e qualunque fosse l’obiettivo che chi l’ha caldeggiata si poneva. Un’imponente macchina mediatica che l’ha portata subito alla ribalta nazionale, una militanza tendente all’aggressività e lo scontro frontale/valoriale con Sala, una candidata che non ha risparmiato energie e investimenti necessari a farla conoscere in una città nella quale era relativamente nuova e non proprio conosciuta, gli appoggi pensati di Giuliano Pisapia e di Stefano Boeri e Valerio Onida (che alle primarie del 2010 valevano il 100% dei 67 mila voti allora espressi, è bene ricordarlo), tutto il salotto della Milano di sinistra, qualche colpo basso al fotofinish: tutto questo, insieme, non è valso più del 34%, circa 20 mila voti. Tanti meno del favorito e vincitore, e – considerando il dispiego delle forze in campo – poche migliaia di più di quel Pierfrancesco Majorino cui si è chiesto in ogni modo e con ogni mezzo di levarsi dal gioco e di far convergere i suoi voti su Francesca Balzani. Il suo risultato sarebbe eccellente, se non ci fossero in mezzo due “ma” non da poco: il peso degli appoggi ottenuti, e l’altezza degli obiettivi giustamente ambiziosi. Quelli di chi voleva vincere, e di chi ha puntato a farlo con determinazione e convinzione. Se in politica contano gli obiettivi, l’obiettivo principale è stato mancato: e dare la colpa del mancato obiettivo al mancato ritiro di Majorino è naturalmente legittimo, ma solo se segue una doverosa, necessaria autocritica.

Sul punto, a risultato consolidato, vanno fatte alcune considerazioni, prima che la faida interna alla sinistra getti la croce addosso a chi ha combattuto, solitariamente e coerentemente, ed ha perduto. La prima considerazione, di metodo, è che le operazioni politiche si costruiscono, da che mondo e mondo, si preparano e infine si realizzano. Quella del tandem Pisapia & Balzani, evidentemente e al di là di ogni personale inclinazione, non è stata costruita a dovere. Era evidente che una doppia candidatura alternativa al manager avrebbe reso l’obiettivo più difficile da raggiungere. Era evidente che, con un candidato in campo dallo scorso luglio, il lavoro di diplomazia e costruzione politica di una candidatura unitaria anti-Sala diversa da quella dello stesso Majorino sarebbe stato arduo. È evidente che quel lavoro, quell’acume politico, quella forza di convincimento è mancato del tutto, in Pisapia e nella sua candidata Balzani. Forse, semplicemente, è mancato il realismo di chi deve tenere conto delle forze schierate. Nel gioco di specchi in cui ognuno si racconta la versione più comoda, ovviamente, dalle parti della Balzani si sta già dicendo (da prima ancora di perdere, in verità) che è tutta colpa di Majorino che non si è voluto ritirare per chissà quali oscuri disegni e accordi già fatti con Sala. Il risultato che abbiamo davanti, dignitoso per Balzani, ma non di più, se confrontato con la forza materiale e immateriale messa in campo, dovrebbe quantomeno imporre una riflessione serena e razionale: se non si è stati capaci di costruire un percorso unitario attorno a Balzani, la colpa è anzitutto di chi l’ha calata dall’alto come se la sinistra milanese avesse trovato la sua Golda Meir o, almeno, la sua Hillary Clinton. Ancora, se si è deciso di tirare dritto sull’ipotesi Balzani senza aver valutato davvero che l’altro candidato sarebbe rimasto in campo, si è voluto pensare, presumere, immaginare, che un numero importante di suoi sostenitori si sarebbero aggregati al voto utile per Balzani in chiave anti-Sala. La cosa evidentemente non è successa, e bisognerà pur mostrare rispetto per il 14 mila elettori che hanno scelto Majorino. Se si accusa lui di non essersi tolto dai piedi va bene: ma si possono accusare loro di averlo scelto come la proposta politica più credibile in campo? Ancora, e infine, la tentazione di sommare algebricamente i voti di Balzani a quelli di Majorino come prova provata che Majorino avrebbe dovuto ritirarsi e convergere, appartiene alla legittima propaganda politica, non al genere dell’analisi dei fatti della politica. Perché tra i sicuri meriti della candidatura Balzani c’è quello di aver mobilitato al voto soggetti che altrimenti non avrebbero votato. E lo stesso vale per Majorino. 

I problemi e le opportunità, adesso, stanno tutti davanti. Stasera la festa strozzata di questa fine campagna delle primarie lascia nell’aria rabbie non dette, malesseri, qualche cicatrice. I più esperti sanno che quasi tutto col tempo si aggiusta, ma sanno anche che invece qualche cosa resta sospeso, a sporcare e affaticare il respiro. Ovviamente, tra qualche settimana il centrodestra entrerà in questa campagna elettorale, si inventerà un candidato, e si capirà se fa sul serio, con uno come Stefano Parisi, oppure no. Con Parisi avremmo tre manager in campo – Sala, Parisi stesso, e Passera – e una politica locale che si specchia nella sua incapacità di produrre appieno classe dirigente. Colpa dell’immaturità dell’epoca renziana, sicuramente, come abbiamo detto, con una storia ancora tutta da costruire. Ma colpa, nel caso milanese, anche di Pisapia, di un processo di uscita di scena mal gestito, mal costruito, non guidato se non tardivamente, frettolosamente, e senza misurarsi con la realtà. Per fortuna, nella memoria dei milanesi rimarranno anche i suoi anni di buona amministrazione e di buona politica. Dipenderà da chi gli succederà se, quell’esperienza, resterà come una parentesi, oppure no. Di sicuro, quest’uscita di scena incasinata, scomposta, un po’ confusa resterà nei manuali come l’esempio di quello che non si deve fare quando si lascia il campo e la scena. Perché dopodomani bisognerà certo lavorare tutti uniti per vincere, governare, fare cose di sinistra: prima ci sono però cocci da raccogliere e stracci che volano. E questa volta, sì, è proprio (quasi) tutta colpa di Pisapia.

 

(Fotografia di Alexis Ftakas)

 

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