Milano
La vita agra di Celestino
“Dopo due anni nelle cave di marmo, due ore e mezza di cammino per andare la mattina presto, due ore e mezza di cammino per tornare a sera, nel mezzo dieci ore a spaccar pietra, dissi a mio padre che per me bastava così, che l’indomani io sarei partito per cercare fortuna a Milano”. Celestino aveva 13 anni, nel 1959, quando disse a suo padre, padre suo e di altri nove figli da sfamare, che poteva pure picchiarlo, ma che lui a rompersi la schiena lassù non ci tornava più, che a farsi la vita lui ci provava a Milano dall’indomani mattina. “Ma chissà che lingua parlano a Milano”, gli aveva detto suo babbo, ma lui niente, non mollava: era già troppo grande a 13 anni, quasi vecchio, per spaventarsi di una lingua e di una città grande e straniera.
Perché a faticare Celestino aveva iniziato a nove anni. “Dopo la terza elementare mi mandarono a Marina di Pisa, a fare lavoretti per una famiglia senza figli che preparò una cameretta bellissima tutta per me”. Quando dice bellissima fa un gesto rotondo con le mani e ha una scintilla di nostalgia negli occhi, come il lampo di chi ricorda che esplosione è vivere improvviso il benessere, dopo aver mangiato terra. Piacere estremo e irripetibile del primo letto caldo trovato dopo tante notti di freddo. “Facevo lavoretti per loro e per le signore del paese, andavo a fare la spesa, le aiutavo in casa. In cambio la famiglia di Marina di Pisa mi sfamava e mi vestiva, mi dava una mancetta la domenica e mandava ai miei due soldi, su in Garfagnana in Provincia di Lucca. Due anni dopo però i signori di Marina di Pisa vendettero la casa a una famiglia che aveva due figli, per me di posto non ce n’era più, e allora tornai su dai miei. E presi la via delle cave di marmo a spaccarmi la schiena”. Un bambino che fa una vita da adulto precipitato all’inferno e, per di più, “ero diventato ribelle, non avevo più voglia di stare a casa perché, sai, ormai avevo assaporato la libertà di chi vive fuori, da solo”.
Chissà come gli arriva in orecchio, su nelle cave, che a Milano si può lavorare senza ammazzarsi e guadagnarsi il pane senza doverci morire. A Milano c’è posto, se hai voglia di lavorare, e Celestino la voglia ce l’aveva e ce l’ha ancora. “Tra qualche settimana faccio settanta, ma se mi togli il lavoro a me mi togli tutto”, dice mentre insegna a dei ragazzini che lavorano con l’associazione di CasciNet a fare un forno all’aperto. “Insomma quella mattina arrivo in Stazione Centrale alle 11, e salgo sul primo autobus che va in periferia”. Dice così, con queste parole: il primo autobus che va in periferia. Dà le spalle al Duomo, ai Bastioni, ai Giardini, perfino a quella Brera che allora – citofonare Bianciardi, e Gaber, e Strehler – era ancora posto di bettole litri di rosso sfuso e puttane a buon mercato: mica risto fighetti, bamba, calciatori e qualche escort.
“Arrivai a Crescenzago (periferia nordest di Milano, ndr) e vidi che c’era una trattoria toscana, entrai per mangiare un boccone”. A tredici anni, con quel po’ di paura che mette lo sferragliare dei tram e nell’orecchio le parole di un padre spaventato dalla metropoli, l’insegna toscana, la lingua di casa, devono essere sembrate un ponte per il mondo nuovo. Un piccolo riparo a un tredicenne già adulto, ma insomma. “Era mezzogiorno, e finì che da quel posto uscii cinque anni dopo per andare a militare. Serviva una mano, dissi che cercavo lavoro, mi diedero un grembiule ed iniziai ad aiutare. Serviva che stessi sempre lì, e allora mi allestirono un posto dove dormire giù in cantina. Si stava bene anche lì, sai? Era asciutta. Così avevo da mangiare in trattoria e da dormire lì sotto, e quel che guadagnavo lo mandavo a casa per i miei fratelli”. E mentre lavora e aspetta di diventare grande si innamora del lavoro di oste.
“È per quello che poi a soldato mi mettono a lavorare in mensa e poi alla mensa ufficiali”. È la metà degli anni Sessanta, quegli anni che ruggiscono di crescita, di bagliori delle televisioni in ogni tinello, di piccole automobili alla portata di (quasi) tutti, di industrie che mangiano la campagna e di bocche che cominciano a mangiare davvero due volte al giorno, quando toglie la divisa e torna nella sua città. Milano, ormai, senza neanche più un dubbio. “Di giorno lavoro in un bar, la sera imparo a fare il pizzaiolo”. Esce dagli scantinati, torna in una casa, ma questa volta è “sua”. Suo padre gli dice che ora è grande davvero, che non deve più curarsi dei suoi vecchi e dei suoi fratelli, che i soldi che guadagna son suoi e basta così. Lavora, gioca a pallone in porta, attraversa il Sessantotto di Milano in quella periferia di lavoro e fatica e vino che chissà come doveva sembrare lontana, lontanissima, la facoltà di Scienze Politiche, le proteste e gli scioperi.
Guadagna soldi che son suoi, e di chi farà vita con lui. Come la sua futura moglie, futura madre dei suoi due figli. “Veniva da una delle tre famiglie ricche di Crescenzago”, e per non fare quello che ha attaccato il cappello sulla fortuna degli altri Celestino inizia a lavorare. Sempre lavoro di fatica, in una storica attività industriale dalle parti del Ponte Nuovo, quella via Padova dove le maglie delle case ancora si allargavano come capita in campagna e villette basse prendevano il posto dei palazzi che salivano su su, verso il centro. Quel pezzo di Milano che qualche buontempone oggi ha ribattezzato Nolo (North of Loreto, sì sì, come no), e appena l’altro ieri e dove c’erano le ultime fabbriche della città e si saliva verso le campagne da un lato, e verso le grandi indutrie di Sesto San Giovanni dall’altro.
Sarai in pensione da un sacco di anni, Celestino, con tutto sto lavoro. “Macchè, ci sono andato solo tre anni fa, con la minima, perché ho scoperto che mia suocera per 24 anni di lavoro nella sua fabbrica non mi ha mai versato i contributi. Io e mia moglie poi ci separammo, ma io non volevo portare rancore. Non mi piace. Quando ho scoperto il disastro le ho solo chiesto qualche milione di lire che mi mancava per comprare un bar e lavorare ancora qualche anno, e rinunciai a tutto il resto, a tutto quel che mi doveva”. Quasi vecchio, insomma, Celestino torna dietro a un bancone del bar, Viale Lombardia. “L’ho tenuto 15 anni, poi ho venduto quando ho capito che ai miei figli non interessava continuare l’attività”. Me lo vedo oggi, uno di quei bar bui gestiti da una coppia di cinesi, come se ne vedono a decine in ogni angolo di Milano, soprattutto a Milano est. Gli ultimi anni di lavoro Celestino li spende in una grande azienda di mobili italiana. Ancora a far fatica, a montare cucine, fino alla meta piccola e sudata di una piccola e sudata pensione.
E adesso? In giro per la città con Super, il Festival delle Periferie, che organizza viaggi nel cuore di Milano, un cuore che sta fuori dal centro e che però produce vita, lavoro, innovazione, fatica e realizzazioni personali, lo trovo a dorso nudo, con le braccia muscolose del settantenne – “son stato anche campione di braccio di ferro, per questo son andato anche due volte in televisione” – che non ha mai smesso di lavorare. “Son qui da stamattina alle otto” mi spiega alla cascina Sant’Ambrogio, popolata ora dall’associazione Cascinet, dove Milano sta finendo davvero, un gasometro arrugginito e qualche Rom che chiede se hai una sigaretta e quando vede il tabacco da fare a mano dice: “Ma perché tu che hai soldi non compri le sigarette già fatte?”. Lui aiuta i ragazzi a fare cose che rendano la cascina un posto vivo, e vero. Di là, nella campagna, qualcuno coltiva gli orti, e di qua lui costruisce un forno che sevirà per la stagione estiva ormai alle porte. Non è ancora ora di riposare, Celestino? “Te l’ho detto, se mi togli il lavoro mi togli tutto”. Due ragazze mingherline lo vengono a cercare. Non riescono a svitare un tubo, un bullone, qualcosa. “Eh, se l’ho avvitata io sarà dura che ci riusciate…”. Un sorriso orgoglioso, uno sguardo.
“Va bene dai, torno a lavorare, ancora un po’, e poi magari andrò a casa”. La sua Milano, la sua periferia. Quel posto in cui, dopo tutto, una vita di lavoro negli anni giusti ha consentito futuro e opportunità. E anche, a noi due, di diventare amici, anche se solo per un paio d’ore.
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