Giustizia
La stele di riparazione della Colonna Infame al Tribunale di Milano
Al Tribunale di Milano è stata dedicata una stele di riparazione a Gian Giacomo Mora, l’innocente seviziato con torture e messo a morte con l’accusa infondata di essere stato l’untore della peste con altri sodali, tra cui Guglielmo Piazza, propagatosi nel 1630 nel capoluogo lombardo.
Come noto sia Pietro Verri- “Osservazioni sulla Tortura”- che Alessandro Manzoni- “Storia della Colonna Infame”- dedicarono al tragico accaduto la loro peculiare attenzione per denunciare un crimine giudiziario. Chi fu accusato di essere untore, lette le carte del processo, era invece innocente e quella condanna è passata alla storia come un orrore e barbarie giudiziaria.
L’iniziativa è partita dalla fondazione culturale de “La Casa del Manzoni” e sposata dall’ordine degli avvocati di Milano.
Ha detto il presidente dell’Ordine di Milano, Vinicio Nardo: «Oltre a essere il luogo nel quale si amministra la giustizia, il Tribunale di Milano è anche un luogo d’arte, e la Colonna infame è un pezzo sia della cultura italiana, sia della cultura giudiziaria» (Corriere della Sera 15/1/2023).
È anche l’occasione per rileggere il capolavoro manzoniano; memorabili ed icastiche furono le sue proposizioni nel seno dell’introduzione: ”Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava, con quelle grida, i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace”.
In un bellissimo libro –Requisitoria manzoniana– l’avv. Mino Martinazzoli ci ricorda che Manzoni sia andato oltre il Verri, perché ha dimostrato con la sua “ulteriorità” che il Mora e gli altri presunti complici potevano essere assolti, sulla base del sol fatto che le testimonianze rese e le perizie dei medici -come dimostra il Manzoni giurista- erano un materiale probatorio insufficiente per decretare la morte di innocenti.
Le confessioni false di cui si autoaccusarono, potevano essere rimosse dal convincimento degli oscuri magistrati.
Questa è la terribile storia.
“La mattina del 21 giugno 1630 verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia alla finestra di un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra dè Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese, vide venire un uomo con una cappa nera e il cappello sugli occhi e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareva che scrivesse… Allora (soggiunse la donnicciola N.d.A.) mi venne un pensiero: se a caso fosse uno di quelli che, nei giorni passati, andavano ungendo le muraglie.
Presa da un tale sospetto, passò in un’altra stanza, che guardava lungo la strada, per tenere d’occhio lo sconosciuto, che si avanzava in quella e vide, dice, che teneva toccato la detta muraglia con le mani.
C’era alla finestra d’una casa della strada medesima un’altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono, la quale non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto… Vidi, dice, che costui aveva una carta in mano, sopra la quale mise la mano dritta, che mi pareva che volesse scrivere eppoi vidi che, levata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia… Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d’inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero…
Ed in quanto all’andar rasente il muro, se per una cosa simile ci fosse bisogno di un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima… Ieri mentre costui faceva questi atti di ungere, pioveva… e per non imbrattarsi li panni si andava (rasentando il muro N.d.A.) al coperto”.
Così inizia la “Storia della colonna infame”, da un pazzo sospetto: quell’uomo con la cappa nera, che avanzava con una carta in mano per una stradina di porta ticinese a Milano, poteva essere un untore, anzi per le donnicciole lo era di sicuro, poiché camminando, rasentava i muri e ogni tanto li toccava.
In realtà voleva solo ripararsi dall’acqua e fregava le mani sulle pareti, perché aveva le dita sporche di inchiostro.
Quell’uomo era Gugliemo Piazza, un innocente commissario di sanità intento a svolgere il suo lavoro, ma, per il pazzo sospetto di quelle due donnicciole, fu denunciato, braccato e trascinato davanti a un capitano di giustizia.
Si diffuse la ferrea convinzione che la peste in Milano (aveva sterminato un terzo della popolazione) avesse un’origine dolosa: si scatenò la psicosi collettiva e la caccia ai presunti responsabili innescò una spirale di incredibile abiezione.
Catturato e torturato il Piazza, sperando nell’impunità, denuncia a sua volta il barbiere Gian Giacomo Mora, che vende, fra le altre cose, balsami che servono teoricamente per curare alcune malattie.
Il Mora viene subito arrestato e portato in galera.
Perquisita la casa, davanti agli occhi sbigottiti della moglie e dei quattro figli, gli inquirenti trovano e sequestrano strani liquami.
Durante il processo il Mora si difenderà, dicendo che non sono preparati pestilenziali, bensì che si tratta di ranno (un miscuglio di cenere e acqua bollente usato per lavare i panni).
Ma i giudici e gli esperti nominati dal tribunale, dopo molte incertezze e molti dubbi, dichiarano l’unguento una pozione pestilenziale, atta a prolungare e diffondere la peste.
A questo punto non c’è più scampo, né per il Mora né per il Piazza.
Entrambi, perseguitati dagli inquirenti e sfiniti da continue torture morali e fisiche, cedono alle promesse dei torturatori che assicurano la libertà, qualora denuncino altri complici.
Ma le promesse di libertà e perdono, fatte ai due imputati dagli inquirenti, non vengono avvallate dai giudici che sentenziano, il 27 luglio dello stesso anno, la loro condanna.
Entrambi, dopo indicibili torture, vengono giustiziati il 2 agosto del 1630.
Con loro vengono uccisi gli altri cinque imputati.
Dopo l’esecuzione della sentenza e sempre per ordine del tribunale , viene rasa al suolo la casa del Mora, ritenuto il più colpevole degli imputati e viene eretta, a futura memoria, una colonna con un’iscrizione latina, che dovrà ricordare, a tutti coloro che la guardano, l’infamia dei propagatori di peste.
La colonna è stata rimossa nel 1778.
Per Pietro Verri il processo è nullo, perché frutto dell’abuso della tortura, in forza della quale sono state rese confessioni non vere.
A giusta ragione l’avvocato Mino Martinazzoli osserva che Manzoni comincia dove Verri finisce. Vi è un’“ulteriorità” nell’analisi del Manzoni: la maieutica della tortura non assolve i giudici che avrebbero potuto vedere, e non hanno visto, che il Piazza e il Mora erano innocenti.
Non c’è dubbio, insomma, che senza il dosaggio sagace di tormenti e di promesse di impunità,nessuno di quegli imputati avrebbe mai confessato una colpa inesistente, sua e dei presunti correi. Allo stesso modo è certo (o quasi certo) che, senza confessioni e solo con le dichiarazioni di testimoni del calibro di Caterina Rosa (quella che accusò il Piazza di spargere l’unguento pestifero la mattina del 21 giugno 1630, mentre egli si stava solo riparando dalla pioggia) o con le conclusioni di collegi peritali, democraticamente composti da professori e lavandaie, sarebbe stato impossibile pronunciare un verdetto di condanne.
Più impervio l’itinerario manzoniano, al quale tocca dimostrare che, malgrado la tortura, quei giudici potevano ugualmente riconoscere l’innocenza degli incolpati. Come dire che le leggi ingiuste non precludono sentenze giuste, scrive Martinazzoli.
Verri non andò oltre, Manzoni invece cercò dimettere in luce e di far vedere che que’ giudici condannarono degli innocenti:anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere ad espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia.
Leonardo Sciascia, nella famosa introduzione pubblicata da “L’Espresso” nel 1986, ricorda che quei giudici furono burocrati del male, come quelli che amministravano la giustizia nei campi dì concentramento nazista.
Non a caso Enzo Tortora portò nella sua tomba una copia della “Storia della colonna infame”.
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