Costume

La sindrome di Calimero. Una Lombardia al di sopra di ogni sospetto

12 Giugno 2020

Assistiamo nel nuovo decennio appena inaugurato a qualcosa che sta accadendo nei patri confini e che farà sicuramente discutere e scrivere parecchio. Già sta avvenendo e in parecchi campi, sia nel giornalismo, sia nello spettacolo, sia nel campo delle scienze sociali, e, badiamo bene, non solo in Italia. L’Italia che aveva venduto una propria immagine nei secoli, pittoresca, contraddittoria, inefficiente, artistica, sensuale, malavitosa, elegante, bigotta, geniale, affettuosa, spaccona, golosa, superficiale, lazzarona, col suo caleidoscopico arredo di contrasti che tanto piacciono agli stranieri, i quali vivono di stereotipi perché è più divertente, più facile, più comoda una lettura epidermica dei fenomeni, è nel mirino degli osservatori nostrani e stranieri. Quando c’è un malato con delle strane sindromi tutti si interessano a fornire diagnosi più o meno bislacche, spesso senza conoscere né le sindromi, né il malato, né l’ambiente in cui il malato è cresciuto, né le condizioni di partenza, né le sue endemiche patologie, né molti altri fattori – tra cui il substrato culturale, in questo palese caso di infermità – che invece sarebbero indispensabili per poter capire il fenomeno e produrre un piano terapeutico adeguato.

Sarebbe troppo lungo qui fare una lista di queste idiosincrasie culturali, perché di questo si tratta. La pessima informazione e parziale e la costruzione di un’immagine fittizia, alimentata anche dagli stessi italiani, spesso i più disinformati di tutti, vittime di stereotipi e di macchiette che, non a caso, la commedia all’italiana, uno dei generi cinematografici di maggiore successo da sempre, in Italia e all’estero, ha stigmatizzato, hanno giocato il ruolo principale in codesta lettura, ancora una volta superficiale.

Milano e la Lombardia, ma soprattutto la Lombardia, sono state attacco di una discriminazione “ingiustificata”, oggetto di un’ “ingratitudine”, di “razzismo”, delle più tremende nefandezze che mai i lombardi si sarebbero aspettati. Da carnefici i lombardi sono diventati vittime vittimiste, i Calimeri della situazione, ossia ciò che erano considerati dagli austriaci prima della secessione del Lombardo-Veneto dall’Impero per mettersi sotto l’ala protettrice di una famiglia reale francofona e provinciale. In questa maniera, con un regno di provincia, si sarebbero forse sentiti più alla pari rispetto al complesso d’inferiorità abbastanza evidente come poteva essere quello generato dall’essere sudditi di un regnante che era stato il Sacro Romano Imperatore.

Ma andiamo a vedere la sindrome di Calimero più nello specifico.

Il vittimismo è sempre stato, dall’unità d’Italia in poi, attribuito all’intero ex-Regno delle Due Sicilie da parte delle potenze vincitrici, i savoiardi, soprattutto, quei piemontesi arroganti e spietati che commisero stragi e genocidi in tutto il Sud. Di striscio anche i lombardi, che si sentirono parte principale nella conquista. La cosa divertente, forse più grottesca che divertente, sono le analogie che si ritrovano oggi come allora in una popolazione faziosa, superba, disinformata. Lo spiega molto bene Pino Aprile, che ha scritto pagine e pagine di Storia patria, ben informata e benissimo documentata.

Le cause del vittimismo, secondo la psicologia, possono essere varie. Possono derivare da un’imitazione del comportamento genitoriale; oppure dall’aver subito violenza fisica e psicologica nell’infanzia; o, ancora, essere stati trascurati dalla famiglia d’origine. Tutte e tre le tipologie si adatterebbero bene alla Lombardia, in fondo, perché nella sua Storia moderna i maltrattamenti sono stati parecchi, la famiglia d’origine (l’Impero austro-ungarico) la considerava figlia della serva e il comportamento dei genitori non è stato proprio un granché. Questo secondo la storiografia post unitaria, naturalmente. Ormai lontani i fasti degli Sforza e dei Visconti, antenati di cui si vuol mantenere un glorioso ricordo nel biscione – simbolo quanto mai vituperato dai moderni uomini di potere che lo hanno usato credendo o volendo far credere che fosse il blasone familiare -, ci fu la parentesi spagnola funestata dalle pestilenze e da un confuso modo di fare che mal dispose i lombardi. Poi la lunga dominazione austriaca, sentita spesso come un peso, interrotta dal breve periodo napoleonico, dove qualcosa effettivamente successe. La dominazione austriaca, sebbene conservatrice – da trovare nello stesso periodo in Europa un regime che non lo fosse – però aveva consentito un fervore culturale a Milano, rendendola, come capitale del Regno Lombardo-Veneto, un centro intellettuale di un certo rilievo. Ma evidentemente questo molti lombardi o non lo sanno o non se lo ricordano. E quindi giù a fare le vittime di un regime illiberale. La mitologia risorgimentale tramandata nei sussidiari è basata tutto su questo. Non usciremo mai dal Romanticismo. Ma rischiamo di annoiare, in fondo i manuali di Storia possono essere più utili per capire meglio le radici del disastro psicologico in corso, arricchendo con dettagli e notizie che qui è impossibile e fuori luogo mettere in risalto. Questa boria assomiglia parecchio al catalanismo e ai suoi eccessi ridicoli. Ma questo è un altro capitolo.

A causa dell’ultima catastrofe epidemica e della maniera assurda in cui l’epidemia è stata affrontata in Lombardia le critiche sono piovute colla forza di una grandinata durata tre mesi belli pieni, senza un attimo di tregua. E le critiche arrivano non solo dall’interno, come abbiamo visto, ma anche dall’esterno: giornali inglesi, spagnoli, francesi, americani notano come il modello lombardo non fosse proprio ciò che era ostentato. Ed è anche da dire che all’esterno non hanno quasi per niente la percezione di un paese diviso in due come l’abbiamo noi. A questo ha anche contribuito una massiccia presenza italiana nelle Americhe, in Asia e in Oceania, terre di migranti dove gli italiani si sono spesso conquistati a fatica posti di primo piano, Fiorello La Guardia, per esempio. Un italiano del Sud sindaco nientemeno che di New York City. Perbacco. E nel 1934. La Guardia era la sintesi dell’italiano medio, il padre pugliese e la madre triestina, ancora cittadina dell’Impero austro-ungarico, non “italiana” e pure ebrea. Italiani erano considerati tutti i migranti, sia che venissero dalla Garfagnana o dal Veneto, sia che fossero originari della Sicilia e della Calabria, che arrivavano coi bastimenti pieni di lagreme napulitane a far tappa obbligata a Ellis Island. L’Italia, per gli stranieri, era la Madunina e il Vesuvio, l’Arno d’argento e la Sicilia bedda. Nessuno era in grado di capire bene che cosa fosse l’Italia se non un paese giovane, unito da poco, che si affacciava sul balcone europeo con nuove potenzialità, carico di un passato denso ma troppo complicato e articolato da comprendere veramente.

L’immagine dell’attuale Lombardia è anche frutto di un boom economico che è potuto accadere solo grazie a un ipocrita Piano Marshall dopo le immense devastazioni belliche e la riduzione dell’Italia intera a portaerei delle potenze vincitrici. Ma si sa, la guerra è così, the winner takes it all. I lombardi si sono “rimboccati le maniche” perché solo loro credono di saperlo fare, poche ciance e più fatti, e hanno prodotto il miracolo italiano. A Milano piacque identificarsi come Capitale morale e costruirci sopra un castello che, in questi ultimi tempi, si è rivelato di carte. E di carte bollate di processi e di carte tenute nascoste, soprattutto. Palermo, prima città devastata dai bombardamenti alleati del 1943, forse la più devastata in assoluto, per il 90%, invece aveva mantenuto i crateri delle bombe fino al 2000, quasi fosse un arredo urbano caratteristico. Come se fosse colpa dei siciliani. L’attribuzione della colpa fa sentire meglio il carnefice, lo rafforza nella sua arroganza di credere di essere migliore. E la vittima, in questo caso l’italiano del Sud, riesce pure a crederci e ad amare il proprio carnefice, finendo col far parte dell’ingranaggio che si viene a creare per alimentare questa visione e farla diventare dominante, quasi un paradigma. E a questo paradigma finiscono poi per credere anche all’esterno perché il primo viene sempre proposto come modello di efficienza e il suo opposto di inefficienza: se non ci fosse la palla al piede del Sud, il Nord sarebbe più dinamico, più ricco ancora, più onesto, senza queste oscene contaminazioni mafiose, perché al Sud sono tutti mafiosi, al Nord invece si lavora e si fanno i danè onestamente; mica tutti parassiti come a Napoli e in Sicilia. Così la mitologia viene continuamente alimentata dalla sua vetrina principale che diventano Milano e la Lombardia, attraverso l’alta moda, attraverso la movida, attraverso la Borsa, attraverso un lavoro d’immagine certosino e, negli ultimi anni, attraverso l’altra mitologia parallela berlusconiana, che, dalle origini di società segrete e occulte, magari anche deviate, della Propaganda 2, mostra l’Italia del secondo miracolo italiano, tutta lustrini, tette, culi, e facce rifatte, maschili e femminili, perfino in Parlamento. E, ciliegina sulla torta, le cene “eleganti”. È l’immagine dell’Italia, d’altro canto. Poi degenera nel bunga bunga, va detto, ma fa sempre parte dell’immagine folclorica che il nostro paese ha sempre fornito. D’altro canto avere avuto nel glorioso passato una pornostar ungherese in Parlamento è un orpello folclorico che non è passato inosservato, anche perché nelle narrazioni l’onorevole Ilona Staller non passava come onorevole Ilona Staller ma come Cicciolina. Sì, la stessa Cicciolina che faceva la pipì sul pubblico invasato nei suoi favolosi spettacoli nei teatrini del centro di Milano. Amata da tutti, camionisti e studenti, in Italia e all’estero, italiana d’adozione. Ecco, volenti o nolenti anche questo fa parte dell’immagine dell’Italia. La Lombardia in cui veramente ci si rimboccava le maniche per ritornare a vivere dopo il disastro del fascismo e della guerra, dove si ripudiò un duce appendendolo a testa in giù e dove nacquero idee e modelli di comportamenti esemplari per un futuro, è stata trasformata negli ultimi decenni in un circo. Difficile ammetterlo per molti odierni lombardi.

Roma, nell’immaginario degli stranieri era “Arrivederci Roma”, la gita in Vespa di Gregory Peck e Audrey Hepburn, la “Dolce vita”. Perché è sempre quella l’immagine che dell’Italia percepiscono all’estero, un’Italia cristallizzata in un passato cinematografico ben preciso, Roma soprattutto. Spaghetti pizza e mandolino. Quindi è impossibile che altrove venga percepita la Roma ladrona che fu vomitata quotidianamente da un certo punto in poi dalle basse Leghe, per rinforzare il ruolo di carnefici che si erano prefissati di raggiungere certi lombardi. Il bello è che poi sono proprio certi lombardi d’adozione, originari di quel Sud sfruttato (e maltrattato) da una classe dirigente industriale e finanziaria del Nord – vedi la dinastia Agnelli, una famiglia a caso, a cui si deve anche l’arretratezza delle linee ferroviarie del paese perché tutto doveva muoversi su gomma, l’azienda di famiglia aveva bisogno di vendere -, a votare per le lighe, Leghe e seghe mentali dei medesimi, incrementando e arricchendo il mito del meridionale scansafatiche e mafioso e un’origine celtica perduta, con corna e sacre ampolle del Po. Il circo di cui si parlava prima.

La lesa maestà post coronavirus è intollerabile per un popolo lombardo che è stato nutrito di baggianate e falsi miti. Molti, moltissimi, troppi lombardi ancora oggi, proprio a causa di una disinformazione totale, alimentata dai Capitani di turno, sono fermamente convinti, per esempio, che la regione Lombardia si faccia carico finanziario delle persone che vengono a curarsi da tutto il Sud e dal Centro nei supermegagalattici complessi ospedalieri che la Lombardia “offre”. Sbagliato. Il conto non viene pagato dal contribuente lombardo ma dalla regione di provenienza del malato, il quale, non trovando un servizio adeguato magari in una regione piccola come la Basilicata o il Molise (o anche nelle più grandi), che certamente non possono competere per attrezzature colla scintillante Lombardia, si devono spostare per fare un’operazione fondamentale per la propria sopravvivenza. Ma sempre, incessantemente, si sente la solita litania: ma cosa vogliono ’sti meridionali che si lamentano e poi vengono a curarsi da noi, e poi paga Pantalone. Eppure molti di codesti lombardi ci credono fermamente e ne fanno uno stendardo, ignorando la realtà. Quando però poi il sistema sanitario, così perfetto e stillante efficienza da tutti gli angoli, viene messo a dura prova da un invisibile virus che svela una scellerata concezione privatista della Sanità a scapito della medicina di base e territoriale che forse avrebbe potuto salvare molte persone e dimostra le sue falle, che vengono fatte giustamente notare, l’aquila superba diventa Calimero. Anziché ammettere le proprie responsabilità, la propria disinformazione, anziché rimembrare le tangentopoli, le varie Baggine, gli scandali delle banche, le svendite, le speculazioni e le ristrutturazioni operate dai dirigenti forzisti e leghisti, ci si rinchiude in sé stessi e si dà ragione al Capitano, solo perché urla che noi siamo quelli giusti e ci attaccano per questo, tutti contro di noi, l’Italia senza la Lombardia non è niente, ma come si permettono, dopo che la Lombardia ha sempre pagato per tutti, dopo che il nostro modello ha funzionato sempre come un orologio, dopo che abbiamo aiutato sempre tutti con generosità. Proseguendo nella falsa informazione senza alcun ritegno e rendendo questa reazione un forte elemento identitario. Molto simile alla superbia inglese o statunitense, non a caso molto di destra, e di una destra becera e arrogante, tale e quale alla nostrana, che non è disponibile ad autocritiche, mai. L’uomo che non deve chiedere mai, quello che ce l’ha sempre duro, che pena. Fanno specie certi imprenditori del Nord che vorrebbero riprendere a lavorare come prima, non rendendosi conto che è proprio tutto il sistema che non funziona più dopo una pandemia come questa. Ma perché non se ne rendono conto? Forse per malafede. Forse per ignoranza, forse. Tutti i manager, soprattutto lombardi o simili, iperspecializzati con master di qualsiasi università americana (o qualche università lombarda privata o i corsi della Cesd, miseramente fallita, con disonore, nel 2016), con metodi ridicoli di autoesaltazione, di molesta (e modesta) programmazione neurolinguistica e di tecniche ormai rese obsolete da un principio di realtà come un virus che azzera tutto, avendo avuto solamente quella formazione e nient’altro, non riescono a comprendere la pluralità di orizzonti che si delineano. Sperduti nel bosco come Hänsel e Gretel, attratti dal marzapane della casa della strega. I ristoratori di un certo livello che credono di ritornare agli antichi fasti in un batter d’occhio, e io le tasse le ho sempre pagate, anche per quei fannulloni del Sud, e così via, come una ristoratrice di una località sul Lago di Garda si esibì qualche giorno fa in un servizio tv. Senza capire che se non ci sono clienti lei non ristora proprio nessuno. Manca il senso della realtà, oltre a una spiccata tendenza alla sindrome di Calimero.

Che sia il resto d’Italia ad additare la Lombardia come la regione dell’inefficienza è insopportabile per molti lombardi. Chiusi nel loro ego ipertrofico, coloro dovrebbero capire che prima che per loro è insopportabile per il resto del paese, almeno per quelli che si erano fidati e che invece si sono sentiti presi in giro da un prestigiatore da sottopassaggio ferroviario che gabba i passanti col gioco dei bicchierini. Eppure potrebbe essere un’occasione per ripensarci, per chiedere aiuto a quell’altra parte dell’Italia, come hanno fatto varie regioni quando si sono presentate delle catastrofi come terremoti e inondazioni, perché dovremmo essere un paese unito. Ma se la catastrofe naturale ha una provenienza fatale, l’inefficienza sanitaria di fronte a un’epidemia invece evidenzia delle responsabilità precise di un sistema fallace eletto come il migliore di tutti (corona d’alloro sempre data dai lombardi a sé stessi). E se si dice a quei lombardi “suvvia, non fate le vittime”, proprio a causa del complesso di Calimero, coloro la vittima la fanno ancora di più. Purtroppo questa commedia, oggi, è assai poco credibile e quei lombardi superbi alla derisione dovranno farci l’abitudine perché la realtà ha dissipato la cortina fumogena che nascondeva il malaffare ben sviluppato e radicato in terra di Lombardia. Non è stata neanche utile l’esperienza di tangentopoli, né gli arresti del Celeste e di altri collaboratori, né la fuga coi diamanti della Lega, né i famosi quarantanove milioni, sempre della Lega. Chissà se la ristoratrice aprirà gli occhi o perirà nella sua ottusità. La stessa ottusità di quel manipolo di gilet arancioni che ha dato una pennellata di colore acceso alla grigia piazza del Duomo. Milano, oggi, forse produce principalmente questo… Si consiglia un bagno d’umiltà.

Mi scuso per le mille sfaccettature del disastro culturale non analizzate in questo intervento, ma qualcosa in più si può recuperare negli altri miei articoli. Così come mi scuso per le digressioni storiche assai incomplete, ci vorrebbe molto più spazio e tempo per raccontarne i particolari, che spesso non sono quelli della gloriosa narrazione ufficiale. Però, forse, possono fornire un piccolo spunto per approfondire.

Calimero, comunque, alla fine della fiera, da nero diventò bianco con Ava come lava. Sottinteso criptato nel copione del cartone: deve diventare bianco perché la mamma, la gallina veneta Cesira, lo avrebbe riconosciuto e accettato solo se bianco. Capito cosa c’era tra le righe? Ci vorrebbe, ai nostri giorni, una bella lavata collettiva per togliere tutto questo nero che infesta la Lombardia e l’Italia in generale. Quasi quasi mi faccio uno shampoo. Una prece per Giorgio Gaber(ščik), grande milanese d’altre origini anche lui.

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