Arte
La ricostruzione di una memoria (G.O.O. #3)
Cari SG,
tra le tante vicende di cui si parla in questi giorni a Milano, una, seppur di importanza relativa, mi ha colpito e vorrei condividerla con voi.
Si tratta di una polemica, montata particolarmente nelle ultime settimane, che riguarda la ricostruzione, nel Parco Sempione, del Teatro Continuo, progettato da Alberto Burri nei primi anni Settanta, inaugurato nel 1973 e demolito nel 1989, anche a causa del degrado in cui versava all’epoca.
Nonostante un largo consenso abbia accolto la decisione della Giunta comunale, sono naturalmente nati comitati di cittadini che richiedono l’annullamento della delibera e il ripristino del parco alle condizioni in cui si trovava prima della costruzione (non mancano pagine Facebook che raccontano le ragioni delle richieste).
A supporto delle loro iniziative, due punti critici paiono essere preponderanti: il consumo del suolo erbaceo da parte della famigerata “colata di cemento” (170 mq sui 386.000 mq del parco) e, soprattutto, la modifica della veduta tra l’Arco della Pace e la torre del Castello (per usare le parole dei promotori, [l’opera] verrebbe collocata proprio al centro della veduta storica, come rottura della precedente armonia secondo il principio che è proprio dell’artista che la ha progettata, quell’Alberto Burri che proprio della distruzione della materia ha fatto la sua cifra stilistica.
E per volontà postuma dell’artista, questa opera dovrebbe obbligatoriamente essere realizzata in quella posizione a dimostrazione che è proprio dalla sua collocazione che questo oggetto trae significato: la affermazione della volontà del suo creatore al di sopra della storia e delle preesistenze, un gesto e un segno di appropriazione del paesaggio attraverso la modificazione di un progetto e di un’opera d’arte preesistente, molto antica, importante e significativa.
Una operazione di enorme violenza, di assoluta arroganza, di grande cinismo contro cui non possiamo che opporci con tutte le nostre pur deboli forze).
Non sta certo a noi giudicare le ragioni di questa polemica, ma sarebbe bello immaginare la città come un organismo vivo, nel quale le necessarie tutele alle parti storiche non diventino la cristallizzazione di un momento scelto a priori (in questo caso il 1894), ma riescano a condurre le successive, necessarie, modifiche urbane lungo percorsi di alta qualità (come è il caso del Teatro).
Si potrebbe forse discutere maggiormente sull’opportunità di ricostruire un elemento già demolito, invece di progettare un’opera nuova, e chiedersi se non si arriverà al medesimo degrado che fece propendere per la scelta della distruzione.
Eppure non è possibile non riconoscere in quest’opera un potente meccanismo che esalta le molteplici viste del parco e che, nella sua configurazione così netta ed aerea, ha un grande rispetto del luogo in cui si trova: il piano del palco si stacca leggero, nonostante la sua massa, dal terreno e i setti verticali focalizzano l’attenzione su una continuità visiva ininterrotta.
Altre persone hanno spiegato dettagliatamente le ragioni favorevoli alla ricostruzione e queste bastano, credo: come spesso accade, anche chi ora descrive questo lavoro in termini tragici, riuscirà, almeno, ad abituarsi alla sua presenza (d’altronde anche la torre del Castello è una finta ricostruzione, a cui tutti i cittadini milanesi sono ormai legati).
Quello che mi preme, però, è comunicare il rispetto che dovremmo ad una figura, quella di Alberto Burri, che ha dato materia a una parte importante dell’arte contemporanea italiana e che, soprattutto, ci ha lasciato, ad un migliaio di chilometri di distanza dal Parco Sempione, un’opera capolavoro che distrugge i limiti esistenti fra arte, architettura, urbanistica e storia.
Si tratta del Cretto di Gibellina, costruito nella seconda metà degli anni Ottanta sulle preesistenze della piccola città distrutta dal terremoto del 1968.
Ricostruita a circa venti chilometri dall’antico sito, Gibellina Nuova è un luogo dalla memoria limitata, proprio a causa della decisione di trasferire forzatamente un intero paese in una località immacolata, ad una distanza che pare infinita, a causa del territorio collinare che le divide.
Gibellina Nuova non ha memoria anche perchè è stata progettata senza che le persone fossero necessarie: il sistema delle piazze, progettato dagli architetti Purini e Thermes, il Municipio, degli architetti Samonà e Gregotti, la chiesa Madre, di Quaroni, sono elementi urbani che prescindono dalla presenza degli abitanti; esistono come vedute tridimensionali, come luoghi dove il vuoto prende il sopravvento, proprio là dove il sole batte più feroce e forse andrebbe cercata l’ombra, lo spazio stretto che ripara dalla luce, la topografia che si adatta al paesaggio.
Solo Alberto Burri evita di aggiungere un’opera a questa sorta di museo della sperimentazione urbana (Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese): decide di ridare una vita alla memoria del luogo, ad una distanza faticosa, che diventa una lunga passione per i visitatori che si trasferiscono dalla nuova città al vecchio sito.
Sarà una fatica che rimarrà impressa nelle menti dei viaggiatori, quando, dopo decine di tornanti, in un beffardo saliscendi di strette strade, vedranno la gigantesca scultura, solo di scorcio, mai nella sua interezza, come se in realtà si stesse nascondendo e volesse apparire gradualmente, come raccontandosi a bassa voce.
Invece di tentare di dare una definizione tridimensionale alle viste metafisiche di De Chirico, come avviene nella nuova città, Burri ingigantisce la scala dei suoi dipinti-sculture, i Cretti, che dipingeva nella prima metà degli anni Settanta.
Ci si poteva perdere, nelle crepe di quei quadri e, in effetti, non attendevano altro che una realizzazione ad una scala maggiore, diventando, a tutti gli effetti, un’opera di land art.
Così Burri decide di costruire un velo massivo sopra la vecchia città, un’impronta di cemento tagliata dai tracciati delle antiche strade, con gli edifici che vengono estrusi per meno di due metri di altezza, dando una sensazione sconcertante di ambiguità, fra l’esatta ricostruzione della vecchia realtà e l’astrattezza della nuova opera.
Ed ecco, allora, Gibellina Vecchia, un coagulo di strade appiccicato alla collina, ma reso incorporeo da un trattamento continuo di cemento colato sul fianco di un territorio ferito.
Qui, nonostante, appunto, una altezza media delle estrusioni di poco più di un metro e mezzo, è possibile accucciarsi per ripararsi dal sole, da un calore crudele, che in certi momenti mozza il respiro.
Basta questo, una superficie imperfetta, rigata dal ricordo di strade scomparse, per ricostruire la memoria di un luogo, per capire nuovamente la presenza necessaria delle persone che animavano un intricato sistema di strade e che non si comportavano come figure entro viste dipinte (come a Gibellina Nuova) ma come personaggi viventi in un organismo dalla costruzione lenta, come la città.
Il paesaggio diventa una parte indispensabile dell’opera (piccole piante stanno trovando un habitat tra le crepe del cemento), in una integrazione di linguaggi che ci fa scordare, contemporaneamente, di essere in una scultura, di passeggiare in uno spazio architettonico, di scoprire i resti di una antica città: solo la luce dona le coordinate del luogo, bruciando la vista in un fotogramma unico, che reintegra in un singolo corpo l’arte, l’architettura, l’urbanistica, la natura e, infine, il paesaggio.
Ad un migliaio di chilometri di distanza, forse, l’idea di ricostruire il Teatro Continuo non ipotizza altro che ridare vita ad una memoria, ad un uso, che poi si sedimenterà nei lenti meccanismi che definiscono una città, sempre che abbia la fortuna di non essere bloccata in un unico episodio della storia, come pare proponga chiunque utilizzi la Storia stessa come un feticcio.
Con affetto,
Diego Terna
Foto di Diego Terna
Devi fare login per commentare
Accedi