Milano
La partita a scacchi delle primarie di Milano
“Saranno le primarie più belle d’Italia”, promise Giuliano Pisapia alcuni mesi fa, quando ancora non era sicuro che le primarie si tenessero. Chissà a cosa pensava, il sindaco uscente e non ricandidatosi, quando parlava così. Chissà se pensava alla sfida confusa e un po’ intasata, ma sicuramente vera, che si stanno giocando Francesca Balzani, PierFrancesco Majorino e Beppe Sala. Chissà se aveva già in testa lo schema che avrebbe portato a spingere fino al centro della scena la sua vice fresca di nomina – Balzani, appunto. Chissà se aveva messo in conto che Majorino non si sarebbe ritirato, o aveva calcolato perfino le dietrologie che vedrebbero il sindaco in campo per dividere la sinistra milanese in modo da garantire una più facile vittoria a Renzi, per interposto Sala, o quelle di segno opposto, che vogliono Majorino resistere in campo per fare un favore a Sala e ottenere una poltrona di peso domani, dopo aver contribuito a sconfiggere la prediletta Balzani. Già, cosa aveva in testa Pisapia? Se lo chiedono in tanti, e ce lo siamo chiesti anche noi, qualche tempo fa, constatando che la sua mossa di spingere in mezzo alla mischia Francesca Balzani restituiva al sindaco un protagonismo politico indubbio, ma al contempo esponeva il bilancio della sua esperienza politica e di governo al rischio di essere sottoposto a un vero e proprio referendum. Una specie di ordalia che sta diventando sempre più vicina e concreta, mano a mano che si avvicina il 7 febbraio, e dopo che Pisapia, contraddicendo leggiadramente proprio se stesso, ha detto che nessuno vieta al sindaco di dire la sua preferenza in una primaria che deve decidere il suo successore.
Così, ora che la campagna per le primarie entra decisamente nel vivo, che manca meno di un mese è tempo di registrare gli umori che, pur cangianti, cominciano a cristallizzarsi. E, assieme agli umori, si possono schematizzare anche le prime alleanze sociali, economiche e politiche che, nella sfida a tre, hanno assunto ormai un profilo più preciso e delineato, anche alla luce dei primi dibattiti e dei primi appuntamenti pubblici.
Primarie vere
Per cominciare, una cosa ormai appare chiara: quelle di Milano sono primarie vere, dall’esito aperto sul quale, con il passare dei giorni, nessuno si sente di fare pronostici sicuri, e i verbi all’indicativo futuro stanno lasciando il posto, con il passar delle ore, a lunghe frasi ipotetiche e a condizionali molto condizionati. Il pienone entusiasta al Teatro Elfo, di sabato mattina, ha decisamente tonificato Francesca Balzani e i suoi sostenitori. I meno scaramantici si lasciano già scappare qualche “vinciamo noi” ed è davvero prematuro: ma certo, l’impressione di una forza reale, esistente, è arrivata, ed è parsa tanto più significativa per una politica che in città, fino a poche settimane fa, conoscevano di fatto solo gli addetti ai lavori. Questa piccola ma tangibile esplosione di un fenomeno politico e mediatico sicuramente ben congegnato e evidentemente disponibile a spendere quel che serve per recuperare un gap di notorietà, ha avuto un ovvio effetto anche sugli altri due contendenti: entrambi han dovuto constatare di non essere soli e che, per quanto nulla sia ancora misurabile, l’ultima arrivata non era portatrice di una candidatura “di testimonianza”, cioè di quelle naturalmente destinate alla sconfitta. In politica come negli scacchi, si sa, l’impressione di forza dell’avversario e la capacità di rimanere concentrati sulle mosse da fare a dispetto di ogni altrui ostentazione, ostinazione, oggettiva sicurezza, sono fattori determinanti. Questo punto di incontro tra psicologia e politica inizia a mostrarsi, abbastanza chiaramente, anche in queste prime uscite dell’anno nuovo,che planerà rapidamente verso il 7 febbraio. Sala uscito “enorme” da un Expo nato tra tante sofferenza, si trova ad affrontare una contro-spinta doppia: quella di chi ha tutto da perdere mentre sembrava dovesse “passeggiare”, e quella di chi deve confrontarsi con un lavoro che non ha mai fatto, che abbisogna di quella bestia stranissima che si chiama consenso democratico (in senso lato e in senso proprio, visto che si va verso le primarie). Balzani ha tutto da guadagnare, almeno per ora, visto che è stata a lungo tempo “acquattata” (dixit il suo grande sponsor Gad Lerner) e cioè ignota e non conosciuta ai più. Un teatro del centro di Milano pieno e tanta gente plaudente per voglia di futuro o nostalgia di passato smuoverebbe chiunque, perfino una fiscalista ligure. Majorino, paradossalmente, ha il problema opposto: la sua candidatura è in campo da sei mesi pieni, la sua storia politica è definita, il suo cruccio è quello di chi deve inventarsi qualcosa, senza perdere quello che ha, ma sapendo che quel che ha non basta per vincere.
Chi sta con chi
Per chi frequenta la Milano della politica, dei progetti politici, delle idee di governo, degli interessi legittimi rappresentati, queste primarie sono anche un gioco di ruolo divertente. Fa piacere rendere partecipe anche chi, in passato, ha avuto divertimenti più gaudiosi o preoccupazioni più serie. La conta delle figurine e delle cariche, gli schierati di qua e di là, aiutano anche a capire quali pezzi di città (soprattutto di centro città) si stanno mobilitando in vista del 7 febbraio. E provando a misurare i tipi antropologici, potremo anche provare a ipotizzare le teste degli elettori. E insomma, attorno a Sala, fin da prima che questa candidatura fosse davvero concreta, si sono coagulati pezzi diversi, molteplici, borghesia produttiva e non troppo politicizzata, ma anche una parte importante di chi si sente erede del mondo “riformista” milanese. Oltre, naturalmente, a un gruppo di persone che hanno vissuto Expo come un vero, concreto e positivo esempio di una cosa fatta e portata a termine in modo più che dignitoso – mettiamoci a mezza strada, tra gli entusiasti più sguaiati e gli irriducibili detrattori – in un paese in cui fare le cose, soprattutto se grandi, è sempre grandemente complicato. Quello di chi sta con Sala, a Milano, è spesso il posto di chi, da sempre, teorizza per Milano la necessità che per vincere bisogna spingersi, politicamente, dentro a un pezzo significativo di elettorato moderato. In politica, nella storia del centrosinistra milanese, parliamo ad esempio dell’ex segretario e ora deputato dem Franco Mirabelli, che su Sala scommetteva ancora prima che Expo partisse, e quando la scommessa sembrava quantomeno ardua. Con lui, non necessariamente affiancati da sempre, anzi, ma oggi sicuramente allineati, pezzi di “destra della sinistra”, ex miglioristi alla Sergio Scalpelli, ma anche tanti giovani della nuova leva politica milanese. L’assessore Pierfrancesco Maran, per fare un nome di peso (oltre tremila preferenze allo scorso giro), e poi a valle altri sei assessori che vengono da storie politiche e di militanza tutte diverse. Da Ada Lucia De Cesaris, già fedelissima di Pisapia che sembrava incoronata dal sindaco per la successione e poi è stata brutalmente scaricata, a Cristina Tajani, dirigente nazionale di Sel e originariamente legata a Nichi Vendola, e oggi davvero vicina a Sala e al suo percorso politico e al bisogno, eminentemente politico, di avere un piano e un programma, come si diceva quando i circoli si chiamavano sezioni. Si può pensare a Chiara Bisconti fino a Franco D’Alfonso, storico socialista milanese che ha vissuto già i ruggenti anni 80, ma che è stato anche un grande elettore di Pisapia, e anzi uomo decisivo nella costruzione di quella strana, eterogenea, onda arancione.
Si fa presto a dire che loro, e altri, hanno scelto Sala perché son convinti che sia il cavallo vincente e hanno paura di stare, domani, “dalla parte fredda del letto”. È la lettura più facile e, come capita in questi casi, coglie magari qualche verità ma finisce col trascurarne molte altre. Ad esempio il piccolo grande disastro umano che è stato questo finale di giunta Pisapia. Una serie di rapporti di fiducia e di stima che, in qualche modo, il sindaco ha finito con il sacrificare a un disegno, forse non chiarissimo, ma certo tagliente. Difficile, ad esempio, pensare che sia per opportunismo che con Sala si schiera uno dei grandi vecchi – forse l’ultimo rimasto in campo – della politica milanese, come Piero Bassetti, 87enne che sicuramente non sta chiedendo in cambio qualcosa, se non la conferma di sapere ancora leggere la sua città che cambia, con relativo riconoscimento pubblico di un ruolo, di un carisma, di un’intelligenza, tutti doni dai quali ci si distacca sempre mal volentieri a qualunque età. E difficile pensare che chissà cosa voglia in campo il “capo della segreteria politica” (ci perdonerete il vezzo antico) di Sala, cioè Umberto Ambrosoli, sulla cui passione ci sentiamo di mettere una serena mano sul fuoco, indipendentemente da ogni valutazione o giudizio sull’efficacia delle scelte fatte in passato o in futuro.
Naturalmente, sarebbe ingenuo non accorgersene, un pezzo dei poteri della città sentono garantito da Sala il loro ruolo, i loro investimenti, anche i loro interessi. La partita del dopo-Expo, sbozzata da Matteo Renzi in una sua visita di fine-evento con la facilità immaginifica che ne fa insieme il campione di questa stagione politica e la metafora perfetta delle nostre fragilità generazionali, è appena iniziata, ed è complicato immaginare che l’insieme di aspirazioni, interessi del grande capitale, mediazioni che servono sempre in questi casi, possano essere mal tutelati da uno come Beppe Sala. Che negli anni di Expo – al di là di ogni polemica, ovviamente – ha intrecciato rapporti profondi con fondazioni, enti, istituzioni cittadine e tutti gli riconoscono che ha portato a casa la partita distribuendo, come da canovaccio e da ruolo, anche finanziamenti, funzioni, in definitiva potere. In questo mondo si annidano potenziali enormi di intelligenze e piccoli e grandi comitati d’affari, sinceri disinteressi e furberie interessate di chi spera di scroccare qualcosa domani: son cose che capitano, e non possono scandalizzare, tra gli umani. Come non può scandalizzare che, in movimenti compositi come lo sono i partiti o le organizzazioni, molti siano per bene e qualcuno rubi. È capitato al Pd, è capitato in Comunione e Liberazione, per tornare recisamente su una vicenda che ha visto chi scrive nel ruolo di chi poneva una domanda semplice, ma vera. Altrettanto vera è la questione del rapporto tra Sala e Renzi o, meglio, tra Sala e renzismo. Il commissario ha capito che non è necessariamente una buona assicurazione sulla vita, tanto che nel fare il nome di un suo collaboratore di domani, ha buttato sul tavolo quello di Ferruccio De Bortoli, notorio fedelissimo del premier. Basterà a stemperare il voto identitario e antigovernista che spesso prende un’onda alta e grande, alle primarie? E basterà quel nome, invero non raccolto o amplificato nemmeno da De Bortoli stesso, a sfidare una certa resistenza del centro di Milano, della vecchia borghesia bene, nei confronti di un manager dai tratti, dal piglio, dalla concretezza, dalla rudezza tutti brianzoli?
In una terra di mezzo che parla la lingua dei movimenti, di una sinistra fortemente tesa tra le aspirazioni dell’individuo, i diritti civili di cultura radicaleggiante, e un passato di struttura sindacale (si veda il sostegno di Onorio Rosati) e partitica, sta il cammino stretto di Pierfranceso Majorino. Il buon lavoro di assessore al welfare gli porta in dote la stima di tanti che hanno beneficiato di un impegno costante per gli ultimi e, insieme, il malcontento di chi non ha sentito riconosciuto il proprio ruolo. Parliamo di associazioni, volontari, operatori: alcuni entusiasti, altri delusi, alcuni convinti che debba fare il salto e diventare sindaco, altri che hanno dubbi anche anche su una conferma al ruolo di assessore. Una cosa, in questa candidatura ostinata e che però sembra avere i tratti della tenacia e quindi della politica, va però riconosciuta: Majorino e il gruppo di persone che nella sua corsa si riconoscono mostrano tutte le forze e le debolezze che hanno le cose “vere”. Corrono in giro per la città, battono vecchie sezioni e periferie, si incasinano e commettono errori, poi semmai chiedono scusa in pubblico e ricominciano a marciare. Vorremmo poter dire che questo o quel big, questo o quell’opinion maker stanno dalla sua parte, ma davvero è difficile trovarne. Fare la mappa dei poteri che stanno con Majorino non è per niente facile, anche perché l’arrivo in campo di Balzani ha spaccati i poteri in due: tanti con lei, gli altri con Sala. Tanto che, proprio nel dibattito con Sala, oltre al fedele assessore alla cultura Filippo Dal Corno, unico a scegliere di prendere il vento in faccia di una candidatura di minoranza, Majorino ha pescato il nome di una ginecologa, Alessandra Kustermann, che è anche il simbolo di lotte e battaglie femministi. Non lontano da questo mondo, sta anche il sostegno di un notissimo psicanalista come Massimo Recalcati. Ancora i diritti civili, ancora tante conquiste non del tutto conquistate, ancora, innegabilmente, la forza e la polverosità del Novecento, contaminata, al presente, da qualche irriducibile “possibilista” che guarda a Civati, sì, ma non vuole dare per persa la partita dentro al contenitore più grande, almeno dove qualche margine per giocarsela sembra esserci. Se questa assenza di grande borghesia e di grandi madri e padri sia una debolezza irredimibile o una forza ancora da valorizzare, lo diranno le poche settimane che mancano al 7 febbraio.
I dubbi che assediano l’outsider non sono certo, invece, quelli di Francesca Balzani. L’escalation è di quelle che impressionano. In poche settimane è passata da amministratrice ignota alla stragrande maggioranza dei milanesi, anche di sinistra, a regina della continuità con Pisapia. Riuscendo, almeno dal punto di vista mediatico, a far dimenticare che la maggioranza degli assessori di Pisapia sta altrove e comunque nessuno sta con lei. Con lei stanno nomi pesanti della borghesia “progressista” di Milano. E nomi che spesso, insieme, non sono mai stati volentieri. Da Francesco Giavazzi a Massimo Mucchetti (quando si dividevano le colonne del Corriere erano sempre, stabilmente, programmaticamente su fronti opposti), da Stefano Boeri a Paolo Limonta. Poi ci sono cordate più o meno compatte, arrivate dritte dritte dai decenni della Milano che fu fino ai piedi del palco dell’Elfo, con la cinquina alzata per sostenere Francesca Balzani. Gad Lerner, amico personale e sponsor di “Giuliano” in aperta contrapposizione a Boeri, fino a Nando Dalla Chiesa. Per arrivare a Gianni Barbacetto e ricostruire, attorno a Francesca Balzani, l’antico nucleo di quella favolosa (se nel senso di meravigliosa, o di favolistica, ciascuno può decidere) “società civile” che nei primi anni Novanta a colpi di rivoluzione morale e di manette sguainate come fiaccole di libertà aprì la porta a Formentini a Milano, e a Berlusconi in Italia. Ci sono relazioni alto-borghesi e radical chic, sistemi di potere e professionisti, con Francesca Balzani. Infine, anche qualche pezzo importante di apparato romano: di sicuro la sostiene il corregionale Andrea Orlando, e sicuramente i rapporti sono buoni con una fedelissima del segretario come Debora Serracchiani. Ma non ci sono solo loro, i potenti e i visibili con Balzani: e ignorarlo sarebbe ingiusto, oltre che falsificante. Ci sono anche tante persone normali, normalissime, che hanno creduto in Pisapia e da quella fiducia si sono sentite ripagate, in un sistema di valori e ideali puliti e progressisti, in una città finalmente liberata da scandali e ruberie, e che in questa donna spuntata quasi all’improvviso ma da lui benedetta vedono la più forte delle continuità. La più nitida delle garanzie. Sono persone – spesso non giovani, e spesso che vivono in centro, quindi le categorie che alle primarie pesano molti di più rispetto alle elezioni – alle quali poco interessano i circoli e i grafi dei poteri, i salotti e le contrapposte retoriche, i narcisismi e le ambizioni di chi vive e vivrà di politica, e ritengono invece che “Francesca” sia la migliore garante di questa politica pulita e per bene. Ovviamente, aspirazione e pulsioni analoghe accompagnano anche le altre candidature, ci mancherebbe, ma si avverte in quella di Balzani una capacità di intercettare una spinta innocentemente antipolitica e, infine, una certa vena di comunicazione e posizionamento da “primo Renzi”, di quando Matteo partiva all’inseguimento e in minoranza, e quindi liberata dai pesi di chi, governando, si sporca le mani del famoso sangue e della più famosa merda.
Effetto ottico? Fase Rashomon, come suggerisce un’accorta sostenitrice di Balzani, in cui ciascuno vede solo la proiezione della propria gloria o della propria sfiga, e solo quelle sa restituire? Ancora presto per dirlo. Fino al 15 gennaio non c’è sondaggista o esperto che voglia pronunciarsi: e vedremo quanti ne troveremo dopo. Dalle parti di Sala, qualcuno che fatto in tempo a conoscere “il partito” quand’era il partito la dice invece così: “È il congresso che sogniamo da tempo: da una parte noi, riformisti, pronti al compromesso politico, coscienti che senza una dialettica vera coi poteri economici non fai nulla e non fai progredire niente e nessuno. Dall’altra parte, loro: alto-borghesi nati ricchi, progressisti per lascito testamentario di padre in figlio, schifati dalle plebi prima democristiane e poi berlusconiane. Chi vince governa, chi perde il congresso, in forma di primarie, se ne va a casa, per sempre”. Un altro modo di raccontarla, forse, lo abbiamo formulato con Aldo Bonomi, al dibattito dell’altra sera, fumando l’ultima sigaretta prima del palco. Col sociologo abbiamo individuato – creduto di individuare – uno schema che pensa al centro della città, popolato di “autoctoni” milanesi, come il luogo in cui si concentrano la maggioranza delle risorse culturali, intellettuali, finanziarie. Questa concentrazione porta con sè anche un senso di superiorità rispetto agli outsider, che siano ragazzi cresciuti in sezione o manager di famiglia brianzola che hanno lavorato anche con qualche discusso campione del capitalismo nostrano e perfino, orrore, col centrodestra berlusconiano. Davanti a questa minaccia, un certo mondo si è chiamato a raccolta, e prova a resistere.
Queste primarie, insomma, diranno molte cose. Diranno quanto pesa, ancora, a Milano, la borghesia, e quale pesa di più. Diranno in che modo il partito democratico – lo citiamo per la prima volta o quasi, arrivate alla fine – gioca ancora un ruolo, e in che misura questo strumento di partecipazione dialoga ancora, oggi, nell’era di Renzi, con il tessuto sociale. Ci diranno, infine, cosa resta davvero dell’esperienza di Pisapia, di questa retorica milanocentrica, di quanto pesino le spinte nazionali e di molte altre cose.
Ah, da ultimo, ci diranno chi sfida il centrodestra alle “secondarie”, cioè alle elezioni: con l’orecchio poggiato a terra una eco lontana ci dice che l’avversario dei nostri contendenti di oggi è sì intontito, indebolito, confuso, sfibrato. Ma morto del tutto forse no. Fosse morto, peraltro, sarebbe una brutta notizia a prescindere, perché la democrazia comincia da due. Varrà la pena di ricordarsene: che di qui a un mese, dei tre di cui ci siamo occupati oggi, ne resterà uno solo.
(Immagine di copertina, creazione del designer David Chiesa)
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