Milano
La Milano di Umberto Smaila
«Tutte le sere, alle sette in punto, arrivava a casa nostra Diego Abatantuono. Entrava e pronunciava la rituale frase: cosa facciamo stasera?». Ve la immaginate una Milano così? Umberto Smaila se l’è fatta tutta: dal Derby a Berlusconi, da Colpo Grosso ai tempi nostri. Eccolo in un dialogo fiume sulla casa ostello, le donne, Veronica Lario, il Califfo e Jerry Calà
È nato in provincia, è cresciuto a Milano, è diventato un’icona degli anni ’80, si è trasformato nell’emblema del divertimento commerciale, Umberto Smaila ha fatto tutto questo nei suoi primi sessantaquattro anni di vita. Dovrebbe raccontare per mestiere quello che ha visto, i locali in cui è stato, chi usciva con chi, chi frequentava chi, perché fra i suoi ricordi ci sono i Berlusconi e le Veroniche Lario, i Munari e i Dario Fo, i Francis Turatello e le ragazze Cin Cin. Verona è dove è nato e dove ha frequentato il liceo, dove ha conosciuto quelli che sarebbero divenuti i suoi compagni d’avventure: Jerry Calà, Nini Salerno e Franco Oppini. Con loro, nel 1970, ha dato vita a I Gatti di Vicolo Miracoli, collettivo in attività sino al 1985, di cui hanno fatto parte, per un breve periodo, anche Gianni Gazzola, Spray Mallaby e Benedetto Casillo. Un gruppo dalla comicità surreale, stralunata, stravagante. Un modo di far ridere del tutto innovativo, simile a quanto proposto, prima di tutti, da Cochi e Renato, non a caso anch’essi parte di quella incredibile esperienza che fu il Derby Club di Milano. Verona è dove Smaila mi ha dato appuntamento, nel suo nuovo locale. Con lui, il suo manager, il figlio Rudy e l’anziana madre. Mi presento e prendo accordi per l’intervista, prima di dirigermi al bancone del bar. La pista da ballo è circondata da tavoli, tutti sono in attesa che la musica inizi. Nel giro di qualche minuto Umberto sale sul palco. Il repertorio è quello che ti aspetti: grandi classici, evergreen. «Questa forma di spettacolo l’ho inventata io» mi confessa, in seguito, «Dopo 800 puntate di Colpo Grosso avevo un repertorio di centinaia di pezzi di cui non sapevo che fare. Ho cominciato a suonarle, una volta alla settimana, in una discoteca della provincia. Quando ho iniziato la gente mi guardava come un marziano. Oggi lo fanno tutti. Sono arrivati ventiquattro anni dopo». L’audience è abbastanza omogenea (credo di essere l’unico under 35): la osservo tenendomi in disparte, ammirando la disinvoltura con cui in molti si lanciano in balli di gruppo che prendono spontaneamente forma. Sulle prime note di Stasera mi butto, un uomo si fa largo tra la gente, guadagna i piedi del palco, si genuflette. Verona Beat ha aperto lo show. È la canzone con cui ha inizio Arrivano i gatti, film del 1980 di Carlo Vanzina, parzialmente ispirato all’ascesa del gruppo di cui Umberto è stato parte. Verona Beat sta a Verona come Grazie Roma sta alla capitale (credo). Una di quelle canzoni in cui c’è dentro tutto, di un periodo, di un mondo, di una città. Riferimenti chiari a chi da queste parti ci è cresciuto – come me – ma che in pochi possono comprendere, al di fuori delle mura. Quando finalmente riusciamo a parlare, cerco di farmi descrivere quella atmosfera. Umberto, cos’era la Verona beat? «Era la Verona degli anni ’60, la Verona dei grandi cambiamenti, della rivoluzione nei rapporti padri-figli, professori-studenti. Era la Verona dei Beatles, dei Rolling Stones. Era la Verona che era riuscita a meritare il soprannome di Liverpool d’Italia. Era la città che, assieme a Modena, in quel periodo, vedeva il più grande fermento dal punto di vista musicale, soprattutto per quelli che all’epoca venivano chiamati “complessini”. Tutti suonavano, anche chi non era capace» Come fu arrivare a Milano da Verona? Come eravate visti? «Eravamo visti benissimo ma eravamo noi quelli che si sentivano provinciali. Per prima cosa ci accorgemmo di avere un accento clamoroso, noi che eravamo convinti di avere una dizione perfetta: ”Come ti chiami?” “Umberto” “Ah, sei veneto?”, ma come, cazzo!? Eravamo molto giovani, i più piccoli della scuderia del Derby. Eravamo le mascotte del locale, c’era molto affetto nei nostri confronti. Tutti ci davano dei gran consigli. Un giorno il proprietario ci disse: “Voi avete bisogno di un regista e ho pensato per voi ad Arturo Corso”, l’aiuto di Dario Fo. Grazie a lui imparammo tutte le movenze della commedia dell’arte. Naturalmente andavamo a vedere Fo ed eravamo un po’ storditi da quell’esperienza che era la sua comune a Milano. Quelli, poi, erano gli anni di piombo e il Derby era frequentato da gente come Munari, dai più grandi pittori, da artisti e cantanti, ma anche da ogni tipo di gangster» Tipo? «Di notte usciva quella gente lì, o gli artisti o i delinquenti. Mi ricordo, ad esempio, che una sera Jerry mi disse che Franco Califano gli aveva chiesto se volevamo fare delle foto assieme a Francis Turatello, suo grande amico (tanto che in un suo LP, in copertina c’era proprio lui – giusto per farti capire il tipo di rapporto). Facemmo la foto. Dopo tre o quattro anni il suo compagno di cella gli mangiò le intestina nel carcere di Badu ‘e Carros» Dev’essere passato chiunque, da lì, in quegli anni. «Una sera, mentre guardavo lo spettacolo, venne a cenare proprio dietro di me Enrico Maria Salerno accompagnato da una certa Veronica Lario, all’epoca sua partner in uno spettacolo che facevano al Manzoni. Quella sera c’era un cabarettista, si chiamava Enzo Robutti, un bolognese. Continuava a gridare una parola, una cosa del tipo “spumon! spumon!”. Veronica Lario chiese a Salerno “Ma che cos’è questo spumon, questo spumone?”. Lo sentii distintamente rispondere “POMPINO”» Genio. «C’erano praticamente tutti, anche quelli che non lavoravano al Derby lo prendevano come una specie di ufficio di rappresentanza e alla sera finivano per riversarsi lì» Quanto durò questo periodo? «Fino a al ’76-’77. Noi vivemmo lì dal ’71 al ’75» Ma non vivevate fisicamente lì, no? «Anche, all’inizio. Vivevamo nell’albergo che c’era sopra al locale. Si chiamava Derby Hotel. Sotto c’era il Derby Club. Poi ci trovammo una casa» Tutti insieme? «Sì, demmo vita a una specie di comune anche noi, molto bohémien. Ognuno aveva la sua stanza. Io la mia, Gazzola e la Spray erano fidanzati, quindi dormivano insieme, il Nini e Jerry avevano la loro. Oppini viveva dalla zia» Fu un’esperienza positiva? «Assolutamente. Quel periodo coincideva con i nostri vent’anni. Fu un’esperienza fantastica, sia da un punto di vista artistico che personale, e comunque ci era indispensabile economicamente: ci stavamo appena dentro coi soldi. Avevamo la nostra trattoria di fiducia. Si chiamava Tri Basei ed era praticamente la nostra mensa ufficiale. Tutte le sere, alle sette in punto, arrivava a casa nostra Diego Abatantuono, con Panorama – all’epoca di gran moda – e il Corriere Informazione. Diego era il nostro tecnico delle luci al Derby, eravamo amici. Prendeva due tram per venire da noi: Lorenteggio-Duomo, Duomo-casa nostra. Entrava in casa e pronunciava la rituale frase: “Cosa facciamo stasera?”. Andavamo a mangiare e, quasi sempre, al cinema. Poi andavamo al Derby a lavorare e poi a divertirci in giro»
Come arrivò il successo presso il grande pubblico? «Nel 1977 partecipammo al primo importante programma della televisione a colori. Si chiamava Non Stop. Era il primo senza presentatore e era diretto da un geniale regista che si chiamava Enzo Trapani. Ci trovammo a prendere parte a questa esperienza molto importante assieme a Carlo Verdone, a La Smorfia, a Zuzzurro e Gaspare, a I Giancattivi. C’erano i più forti dell’epoca. Dopo la prima puntata cambiò completamente la nostra vita» Anche la vostra vita privata? «Quella non particolarmente. Qualcuno si era già sposato. Io, ad esempio, e anche Nini. In realtà io mi ero pure separato – un attimo prima del grande successo. Chissà mia moglie come si è incazzata! Dopo che ci siamo lasciati ho cominciato ad andare in televisione e a diventare famoso» C’è mai stato un momento in cui le cose non sono andate bene, in cui ti sei domandato cosa stessi facendo, come saresti andato avanti? «Ci sono stati dei momenti di grande preoccupazione e alcuni in cui ho dovuto rivedere in maniera importante il mio stile di vita. Mi è capitato di passare da 500 puntate l’anno a neanche una, nel giro di tre mesi. Ho preso la mia Mercedes, sono andato in un autosalone e sono tornato con una Toyota usata» Jerry lasciò I Gatti nel 1982. Era nell’aria? «Assolutamente no, non ce lo aspettavamo, ci prese in contropiede. Dovemmo sbarcare il lunario per un po’, poi riprendemmo in tre. Facemmo un periodo ad Antenna 3, all’epoca molto seguita nel nord Italia. Berlusconi ci notò e ci offrì di fare Quo Vadis, con la regia di Nichetti, e poi Drive In. In seguito, cominciai a condurre programmi da solo: prima Help, poi C’est la vie, diversi anni di quiz pomeridiani, fino a quando, nel 1987, cominciai Colpo Grosso» Una trasmissione difficile da proporre in quel momento, no? «Sì, molto. All’epoca i commenti furono vari. C’erano grandi estimatori e grandi detrattori. La verità è che la guardavano tutti. Per parlarne bene o per parlarne male ma la guardavano. Ebbe un successo straordinario, di fatti durò per ben quattro anni, fino al ’91» Cosa pensasti quando te lo proposero? In fondo era una cosa nuova, non si sapeva come sarebbe andata. «Quando mi parlarono del programma seppero lusingarmi e fare leva sul mio ego di artista. Mi dissero che ero l’unico che avrebbe potuto condurre quella trasmissione. In più ero riuscito a ottenere, come contropartita, di avere sempre e comunque un altro programma sulle reti Finivest. Al pomeriggio ero l’idolo delle massaie, mentre alla sera ero l’idolo di non so neppure io chi» Com’era la vita con le ragazze Cin Cin? «Sai quello che si dice dei pasticceri? Dopo qualche abbuffata passa la voglia. Bene, i dolci dopo un po’ danno la nausea, le donne no» Hai mai fatto delle scelte di cui ti sei pentito? «Ho sempre scelto in base alle mie esigenze e in base al mio modo di vedere le cose. Avrei potuto bussare a una porta in più, fare una telefonata, rinunciare alla mia famiglia ma la visibilità, il successo, non sono mai stati tutto per me. Il lavoro è sempre stato un mezzo per interpretare la vita come volevo, poter viaggiare, farmi i cavoli miei, bere del Tignanello, andare nei ristoranti Michelin» Nei ristoranti ti sono sempre successe un sacco di cose assurde. «Un giorno ero in un ristorante a Parigi e nella stessa sala in cui mi trovavo incontrai i Rolling Stones. Mentre me ne stavo andando mi avvicinai al loro tavolo: “Can I tell you one word?” “Ok, one word” “Thanks”. Scoppiarono a ridere e finì in baldoria».
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