Milano
La Milano di Neri, ‘maestro in ombra’: “qui si è costretti a fare poesia”
A leggerla, almeno in apparenza, non c’è poesia con un tono più milanese della sua. Una poesia in prosa, minimalista e schiva, che gli è valsa da Giovanni Raboni l’appellativo di ‘Maestro in ombra’.
E’ sabato pomeriggio a piazzale Libia, una girandola da capogiro di alberi e panchine non lontana da Porta Romana, un luogo quasi esotico della città dove Giampiero Neri, 91 anni, nato a Erba, vive con la moglie da mezzo secolo. “Eppure Milano non mi è mai piaciuta. Alla sera, quando lavoravo, tornavo a casa e mi veniva da piangere”, esordisce davanti a un tavolo rotondo di legno popolato di libri, falciando in un attimo le mie aspettative sulla retorica del poeta che si nutre degli aromi della sua città. Ma dimentico che Neri è considerato anche maestro del mimetismo per come si nasconde tra i suoi versi colmi di figure animalesche, spesso cangianti, e me lo dimostrerà rispetto a questo proclama iniziale di non amore.
“Come l’acqua del fiume si muove/contro corrente vicina alla riva/ si disperde dentro fili d’erba/lontana dal suo centro/la memoria fa un cammino a ritroso/dove una materia incerta/torna con molti frammenti”.
“Ci abito da 70 anni perché qui ho trovato il lavoro nella sua dimensione più ampia. Non solo il posto in banca ma anche la possibilità di poter pubblicare dei libri che altrove è molto più problematica. Per 30 anni della vita qui ho sperimentato solo l’aspetto lavorativo e sentimentale, con l’incontro in banca della donna che ho sposato. Non mi piace l’aspetto dinamico di Milano, la ‘città che corre’ di Marinetti. Considero la velocità demoniaca anche perché io sono tendenzialmente pigro”.
Eppure “Milano è una città che costringe alla poesia. Milano non ha fiumi, mare, montagne, non ha nemmeno una passeggiata e per questo invita alla meditazione e al desiderio di quello che non c’è. Quando uno ha finito di correre ed entra in casa, si deve sedere e pensare: ‘E adesso?’, o almeno doveva farlo prima che arrivassero la televisione e i computer, cioé quando io ho cominciato a scrivere. E Milano mi ha anche fatto incontrare il mio primo editore, Giancarlo Majorino, attraverso mio fratello ‘Peppo’, lo scrittore Giuseppe Pontiggia, che figurava tra gli editori della rivista ‘Il Verri’ . Poco dopo che lo conoscevo, Majorino ha fondato il giornale ‘Il corpo’ su cui mi ha ospitato”.
Siamo a metà degli anni sessanta. Neri, il fratello e Majorino hanno una cosa in comune, oltre all’ispirazione. Lavorano tutti in banca. “Non è affatto vero che sia un posto antipoetico. Anzi. In banca si impara a conoscere meglio gli uomini, si fa della vera filosofia. Conosci le persone nei loro momenti più autentici, quando due più due deve fare quattro”.
‘Antipoetici’, in un certo senso, lo erano loro, almeno rispetto a un canone convenzionale del fare versi che mette al centro l”io lirico’. “C’era molto fermento in quegli anni e il rifiuto dell’arte per l’arte. Nasceva il desiderio molto vivo di una poesia della realtà, delle cose. E’ vero, questo in un certo senso è molto nello spirito milanese. La poesia in Italia è tutta ripiegata sull’io, io penso invece che la poesia inizi con l’Iliade, con una guerra, con dei fatti”. Ma cosa distingue una poesia in prosa dalla prosa? “E’ una questione di intensità. Le parole poetiche sono più pesanti. Poeti per me sono Manzoni e Pasternak. Ovviamente Rimbaud, con le sue ‘Illuminazioni, scritte in prosa”.
Di quegli anni anche l’incontro con un altro astro della poesia, Giovanni Raboni, che “aveva prefatto dei miei scritti sull’‘Almanacco dello Specchio numero uno‘ e ancora dopo quello con Enzo Cucchi”. Dolce e fitta la vita dei poeti, allora. “Ci vedevamo spesso tutti nei caffé o nelle libreria o dove capitava. Discutevamo delle nostre opere, ci leggevamo a vicenda e davamo dei consigli, ma parlavamo anche di calcio. Finalmente davo un senso alla vita, facendo qualcosa che, come dice il poeta Puskin, ‘di me attesti’. Tutti siamo legati al desiderio che qualcosa di noi permanga quando saremo sottoterra. Si scrive per quello che non c’è, per quello che manca. La poesia è un modo per dire ‘fermati’ davanti a questa sensazione che non ci sia un senso. Tutti dobbiamo affrontare dolori e perdite, al di là dei giudizi superficiali che esprimiamo. E oggi, adesso, la poesia serve più che mai perché ci racconta quello che i giornali non scrivono: la verità”.
Il tema lo fa ribollire. “Le parole servono a mimetizzarci perché istintivamente non ci fidiamo degli altri. Ogni animale ha i suoi aspetti mimetici, la zebra ha le strisce, noi abbiamo le parole. Ma solo la poesia dice la verità. La poesia, com’è stato detto, ‘si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano’, e non ci abbandona mai. Rimane in attesa che riannodiamo i fili’”.
“Qualcosa sfugge alla nostra ragione. Forse c’è nella mente degli animali una parte mistica che non conosciamo, ma che qualche volta ci è dato di vedere per un momento nei loro occhi”.
Per spiegare quanto la sua sia “una poesia severa, moralista, in questo molto lombarda”, Neri sfoglia con foga uno dei suoi libri e declama il componimento sull’oca, uno di quelli da lui più amati, che, dopo una descrizione dei comportamenti dell’uccello, si chiude con una vertigine: “Lei sa quello che fa, e noi?”. “Mi sarebbe piaciuto fare il naturalista, studiare gli insetti, oppure l’archeologo. In questo senso Milano, pur avendo le sua glorie, non brilla come Roma. Ho l’impressione che Milano ami distruggere il passato per poi ricostruire, anche se i suoi anziani poi, in fin dei conti, li tratta bene. Ma ammetto che mi piace la Milano dei grattacieli, anzi mi congratulo con Milano per questa nuova architettura perché si era un po’ ripiegata su se stessa e ora ha ripreso una spinta verso il futuro. Adesso che sono vecchio e la vita mi attrae ancora, sono contento di vedere movimento quando esco di casa”. Giampiero Neri si sta allontanando dal suo proclama di non amore e arriva a confessare con quel suo modo ‘minimalista’ che “quando adesso mi allontano in fondo penso che a un certo punto occorra ritornare. E’ una sensazione che avverto anche quando sto in posti con una natura lussureggiante. A un certo punto ho il desiderio di trovare una natura più severa nelle sue manifestazioni”.
Rigore ma anche gentilezza. “Non c’è nulla che mi interessi di più della gentilezza nei rapporti, mi rimanda agli stilnovisti quando cantavano la donna onesta e gentile. Ma se l’amore è una fortuna, la gentilezza è un traguardo alla portata di tutti“. Il poeta ha un nuovo amico, da qualche mese. “E’ un clochard, si chiama Giovanni ed è molto intelligente. Faceva il magazziniere, poi ha perso tutto. Vive nella piazza, dorme in un box e ha una fidanzata anche lei ‘senzatetto’. Ogni tanto gli commissionano dei piccoli lavoro nel parco. Un giorno gli ho letto questi versi oscuri di Lao Tze: ‘Sebbene illuminato/apparir come scemo/è questo il segreto essenziale’. Ne ha subito afferrato il senso che è quello di nascondersi per difendersi’ (Sorride compiaciuto dell’acutezza dell’amico). Andiamo spesso a prendere il caffé insieme. Gli ho regalato dei miei libri, ma non so se li ha letti”. Suona il telefonino, nascosto tra i volumi sparsi sul tavolo. “Ora ti devo lasciare. Ho un appuntamento con un vigile urbano che scrive poesie. Mi ha invitato da lui. Funziona così: io leggo le mie poesie, lui legge le sue, gli altri ascoltano”. Su una parete, uscendo, spunta la foto incorniciata e ridente del professor Fumagalli protagonista della sua raccolta più celebre, ‘Il professor Fumagalli e altre figure’, pubblicata da Mondadori, come lui uomo arguto e incline all’osservazione obliqua del mondo. “E’ morto abbastanza giovane, all’improvviso, io credo che sia successo perché tutte le sere mangiava un uovo”.
“La serata di poesia era ormai alla fine, avevo già guardato l’orologio. Come ogni volta provavo un senso di inutilità e insieme di inadeguatezza. “Sono uno sconfitto” avevo detto rivolto al pubblico, dopo la lettura, ma non avrei saputo dire perché. Adesso era il momento dei saluti e delle strette di mano. Avrei chiesto a un amico com’era andata la serata, sapendo già la risposta. Si era invece presentato un poeta, mio implacabile detrattore. “Grazie, mi aveva detto. Io avevo ripetuto le mie perplessità su quegli incontri, ma lui ne lodava invece l’utilità”.
Manuela D’Alessandro
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